Lezione n. 05
Costruire il ciberspazio
di Gino Roncaglia
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Argomenti trattati nella lezione 05:
L'immaginario fantascientifico, in particolare quello legato alla
cosiddetta letteratura cyberpunk (vedi
scheda), ci propone un futuro nel quale buona parte della nostra
vita si svolgerà all'interno di ambienti virtuali generati dal
computer. Ambienti nei quali ci muoveremo attraverso i nostri
'simulacri informatici' (i cosiddetti Avatar - ne parleremo
ampiamente in
seguito), e potremo interagire sia con altre persone, sia con
programmi e oggetti informativi.
Questa immagine può suscitare, a seconda dei casi, reazioni
scettiche o entusiaste, preoccupazioni o curiosità. E ognuno di
questi diversi atteggiamenti può essere in parte giustificato. Ma
prima di affrontare il problema della reale portata della
'rivoluzione' annunciata da concetti quali quelli di realtà
virtuale e di ciberspazio, è opportuno cercare di capire in maniera
un po' più precisa a cosa esattamente questi concetti si
riferiscano, quali siano i presupposti, gli elementi costitutivi,
gli scopi dei molti 'ciberspazi' che ci aspettano (e, in parte, che
già utilizziamo quotidianamente, magari senza averne piena
coscienza).
Nel nostro percorso di avvicinamento al ciberspazio troviamo
innanzitutto due concetti fondamentali che è bene discutere subito:
quello di interfaccia e quello di virtualità. Perché
questi concetti sono così importanti, e in che modo intervengono
nella costruzione dell'idea di ciberspazio? Vediamo di capirlo
insieme, partendo proprio dal concetto di interfaccia.
Innanzitutto,
è bene tener presente che di interfacce non si parla
necessariamente e solo in un contesto informatico: nel senso più
generale del termine, qualunque strumento che ci aiuti a interagire
col mondo intorno a noi in modi il più possibile 'adatti' alla
nostra conformazione fisica e sensoriale - svolgendo dunque una
funzione di mediazione fra noi e il mondo - può essere
considerato una interfaccia. Potremmo quindi dire, ad esempio, che
la forchetta e il coltello che ci aiutano a 'interagire' col cibo
sono anch'essi delle interfacce. Come ogni interfaccia, hanno il
loro luogo specifico nell'elusivo 'spazio di contatto' fra i nostri
sensi e una realtà che si presenta come esterna e almeno in parte
indipendente da noi. Inoltre - come accade per la grande maggioranza
delle interfacce - hanno almeno in parte una dimensione culturale e
sociale (così coltello e forchetta, che sono per noi interfacce
tanto abituali da sembrare quasi 'naturali', possono essere
completamente sconosciute ad altre culture, o possono essere
sostituite da interfacce diverse, come le bacchette utilizzate da
molti popoli orientali). Se pensiamo alla particolare conformazione,
ad esempio, del coltello da pesce o di quello da formaggio, o della
forchettina da torta, il nostro esempio può anche suggerirci
l'importante concetto di specializzazione delle interfacce:
interfacce generiche adatte a una pluralità di situazioni possono
essere affiancate e in certi casi sostituite da interfacce
specifiche che offrano una maggiore efficienza, ma in un numero
minore di casi.
Certo, il senso del termine 'interfaccia' che abbiamo fin qui
delineato è assai largo: ha il pregio (e il difetto) di vedere
interfacce ovunque, dalla forma di una sedia al taglio di un
vestito, dalle scelte architettoniche nella costruzione di un
edificio alla segnaletica stradale; potremmo dire che, in
quest'ottica, anche il linguaggio rappresenta in fondo una forma di
interfaccia.
Proviamo allora ad utilizzare questa intuizione generale come
contesto all'interno del quale formulare una definizione più
specifica. Si tratta della definizione contenuta nella videocassetta:
per i nostri scopi in questa sede definiremo interfaccia come
l'insieme di dispositivi, hardware e software, che ci permettono di
interagire con una macchina o con un programma, in maniera il più
possibile semplice ed intuitiva.
Anche in questo senso più specifico, il concetto di interfaccia
non è legato necessariamente all'ambito informatico. La plancia di
una automobile, con tutta la sua strumentazione, rappresenta ad
esempio l'interfaccia fra il guidatore e la macchina: il volante
permette di girare il veicolo attraverso uno strumento 'tarato'
sulle dimensioni e sulla forza delle nostre braccia e delle nostre
mani, il tachimetro ci informa in maniera semplice e intuitiva sulla
velocità (un tachimetro digitale lo farà in forma diversa da un
tachimetro analogico, e la scelta fra le due diverse interfacce
dipenderà da un insieme di fattori a loro volta strettamente
interrelati: i nostri scopi, le nostre preferenze personali, la
'cultura' all'interno della quale ci troviamo, e così via).
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Figura 1 - Interfacce: tachimetri
analogici e digitali |
Come è facile capire, lo studio delle interfacce - di tutte le
interfacce, comprese quelle informatiche - ha una importante
componente culturale e sociale: certo, la funzionalità di una
interfaccia dipende in parte dai 'dati' costituiti dalla nostra
conformazione fisica e sensoriale, dalla tipologia della macchina
con la quale vogliamo interagire, dagli scopi di tale interazione;
ma anche le convenzioni, le priorità, le abitudini proprie della
cultura della quale facciamo parte hanno un loro ruolo tutt'altro
che trascurabile. Da questo punto di vista, sia detto per inciso,
l'eccessiva standardizzazione e uniformità delle interfacce, che
può essere desiderabile per ragioni di razionalità produttiva,
può però trasformarsi, almeno in parte, in un veicolo di
appiattimento culturale. D'altro canto, contro questo appiattimento
opera un altro importante aspetto della costruzione delle
interfacce: la ricerca, accanto al valore funzionale, di un valore
estetico. Dovendo scegliere, preferiremmo probabilmente
un'interfaccia brutta ma funzionale ad una esteticamente piacevole
ma di uso difficile o poco efficace. Tuttavia, come in qualunque
altra attività di costruzione umana, anche i progettisti di
interfacce cercano di raggiungere un risultato soddisfacente dal
punto di vista funzionale attraverso soluzioni che siano anche
esteticamente gradevoli e - se possibile - originali.
Va detto subito che questa presentazione tende forse a
semplificare, dato che valore estetico e valore funzionale sono per
molti versi strettamente interdipendenti; quello che ci interessa
sottolineare, comunque, è un dato che da quanto si è detto finora
dovrebbe risultare abbastanza chiaro: la progettazione di interfacce
è un'attività che richiede certo competenze strettamente
tecnologiche, ma anche capacità artistiche e una percezione
complessa della realtà culturale e sociale in cui si opera (è un
tema sul quale torneremo nell'ottava
dispensa). E in effetti le connotazioni attribuite di solito al
termine industrial design coprono proprio questo largo
spettro di competenze: non a caso, l'attività di progettazione
delle interfacce - informatiche e non - è in genere una attività
di équipe, alla quale collaborano numerose professionalità
diverse.
Un'ultima osservazione: finora (come faremo del resto nel
seguito) ci siamo occupati unicamente delle interfacce fra uomo e
macchina. Anche se si tratta della categoria di interfacce per noi
sicuramente più importante, va tenuto presente che il concetto di
interfaccia può essere esteso anche a comprendere interfacce fra
macchina e macchina. Così, ad esempio, la forma dei robot
industriali che lavorano in una catena di montaggio sarà fortemente
influenzata dalla forma e dalla natura delle componenti che in tale
catena di montaggio dovranno essere assemblate.
Quando, specificando ulteriormente il concetto di interfaccia, ci
concentriamo sulle interfacce utilizzate in ambito informatico,
incontriamo una differenziazione di grande rilievo: da un lato le interfacce
hardware (ad esempio la tastiera o lo schermo di un computer, un
mouse, un joystick), che rappresentano per così dire la 'superficie
fisica di contatto' fra i nostri sensi e la macchina; dall'altro, le
cosiddette interfacce software: il modo in cui un programma
ci si presenta e ci permette di utilizzare le sue funzionalità, ad
esempio attraverso una determinata suddivisione dello schermo e
attraverso l'uso di finestre, pulsanti, menu, icone.
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Figura 2 - L'originale interfaccia
di un sito web dedicato all'acquisto on-line di prodotti
alimentari |
In tutti e due i casi, l'interfaccia ha la già ricordata
funzione di mediazione fra noi e la macchina; ma se nel caso delle
interfacce hardware la mediazione è prevalentemente fisica, ed è
dunque più strettamente dipendente dalla nostra conformazione
fisica e sensoriale (si pensi ad esempio alla forma del mouse, o
alle dimensioni e alla distanza dei tasti sulla tastiera), nel caso
delle interfacce software si tratta di una mediazione ad altissimo
contenuto simbolico. Anche per questo motivo, è soprattutto alle
interfacce software che si pensa quando si parla dell'impatto
culturale delle interfacce informatiche. Nel suo recente libro Interface
culture, Steven Johnson sceglie addirittura di definire il
termine interfaccia in maniera tale da farlo corrispondere alle sole
interfacce software: "nel suo senso più semplice", scrive
così Johnson, "il termine si riferisce ai programmi che danno
una forma all'interazione fra l'utente e il computer. L'interfaccia
funziona come una sorta di traduttore, capace di mediare fra le due
parti, e di farle comunicare"[1].
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Figura 3 - Steven Johnson, Interface
culture |
Dal canto nostro, tuttavia, preferiamo considerare le interfacce
software come una delle componenti delle interfacce informatiche, e
partire da una definizione più generale del concetto di
interfaccia. Questo anche perché interfacce software e interfacce
hardware sono spesso strettamente interrelate: certi tipi di
interfacce hardware (ad esempio i caschi per la realtà virtuale,
sui quali ci soffermeremo più ampiamente in
seguito) vengono pensati in funzione della disponibilità di
certe interfacce software (nell'esempio considerato, da interfacce
che si basano sulla capacità di rappresentare con sufficiente
fluidità il movimento all'interno di ambienti tridimensionali
generati dal computer). Inoltre, la considerazione di un concetto un
po' più generale di interfaccia aiuta a capire che le interfacce
informatiche non nascono dal nulla: si tratta certo di un campo
nuovo, ma di un campo nel quale entriamo con il nostro bravo
bagaglio di abitudini, competenze, modelli. A volte, questo bagaglio
ci ostacolerà nel riconoscere possibilità e prospettive inedite,
proprie del nuovo ambiente nel quale ci si muove. Ma senza di esso
molto difficilmente avremmo potuto compiere, nel campo delle
interfacce informatiche, i passi che finora abbiamo compiuto.
Ma quali sono questi passi? In che modo si è sviluppato il mondo
delle interfacce informatiche? E perché questo sviluppo è tanto
importante per la comprensione dei concetti di realtà virtuale e di
ciberspazio?
Per 'dialogare' con i primi computer, era necessario utilizzare
interfacce (hardware e software) per molti versi complesse e poco
intuitive. L'esempio tipico è quello della programmazione
attraverso l'uso di schede perforate; l'operatore doveva fornire le
proprie istruzioni alla macchina utilizzando un canale di
comunicazione tutt'altro che intuitivo (la codifica di simboli -
principalmente numeri - attraverso la posizione delle perforazioni
su una scheda) e un linguaggio di 'basso livello', molto vicino
cioè alle catene di zero e uno con le quali, come abbiamo visto
nella seconda lezione, lavorano i computer.
L'uso diretto di una tastiera come strumento di input e di un
monitor come strumento di output rappresenta già un deciso passo
avanti, soprattutto nel momento in cui a tali interfacce hardware si
affiancano interfacce software più semplici e intuitive, in grado
di liberarci dall'obbligo della programmazione in linguaggio
macchina. Il primo passo in questa direzione è rappresentato dalle
cosiddette interfacce a caratteri, nelle quali la
comunicazione col computer avviene digitando caratteri alfanumerici
sulla tastiera e ricevendo in risposta caratteri alfanumerici sullo
schermo del monitor. L'esempio tipico di interfacce a caratteri è
rappresentato dalla command line interface, una categoria di
interfacce basate sul principio della linea di comandi. Chi ha
presente il funzionamento del sistema operativo DOS (ne abbiamo
parlato nella seconda dispensa, introducendo il concetto di sistema
operativo) sa già a cosa ci riferiamo: la comunicazione col
computer avviene in maniera lineare, digitando i nostri comandi in
risposta a un segnale di 'attendo istruzioni' (prompt) da
parte del computer. Nel caso del DOS, il prompt tipico ha la forma
C:/>_
Oltre
a segnalarci che la macchina attende le nostre istruzioni, il prompt
del DOS - che ritrovate anche nell'esempio visivo fornito dalla
videocassetta di questa lezione (vedi
filmato) - ci fornisce normalmente alcune informazioni
addizionali: la lettera identificativa dell'unità di memoria di
massa sulla quale il computer è pronto ad operare (nel nostro
esempio, l'unità identificata dalla lettera C, normalmente il disco
rigido principale; i due punti che seguono la C indicano che si
tratta dell'identificativo di un dispositivo verso il quale il
computer dispone di un canale di input e/o di output), e il percorso
completo della directory attiva (nel nostro esempio si tratta della
directory radice, che nel DOS è rappresentata dalla barra '/' non
seguita da altre indicazioni). Il simbolo '>' ha più o meno la
funzione di dire all'utente 'puoi scrivere di seguito il tuo
comando'; il segno di sottolineatura '_', di norma lampeggiante,
costituisce il prompt vero e proprio, e indica il punto della linea
di comando sul quale comparirà il prossimo carattere digitato
dall'utente sulla tastiera.
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Figura 4 - Command line interface:
MS-DOS |
Una command line interface come quella del DOS presuppone
naturalmente un linguaggio di comandi che l'utente possa inserire al
prompt della macchina, e che il computer possa comprendere. Il
linguaggio costituito da questi comandi rappresenta un compromesso
fra l'ostico linguaggio macchina del computer, nel quale le
istruzioni sono rappresentate come abbiamo visto da catene di '0' e
'1', e il nostro linguaggio naturale: siamo di nuovo davanti, come
è facile capire, al livello di mediazione proprio delle interfacce.
Questo linguaggio intermedio, caratteristico di tutti i sistemi
operativi a caratteri, è di necessità piuttosto rigido, e la sua
padronanza da parte dell'utente richiede comunque una fase di
apprendimento. Nella seconda dispensa è inclusa una scheda che
presenta alcuni fra i
principali comandi del DOS.
Il DOS non è naturalmente l'unico caso di sistema operativo
basato sull'uso di una interfaccia a caratteri. Come si è accennato
altrove,
molti altri sistemi operativi - dall'ormai desueto CP/M allo UNIX -
utilizzano interfacce di questo tipo, e con un po' di riflessione vi
accorgerete che interfacce a caratteri sono usate anche in molte
altre situazioni: ad esempio, molte agendine elettroniche utilizzano
anche o unicamente una interfaccia a caratteri, e lo stesso vale per
molti fra i piccoli display a cristalli liquidi di dispositivi quali
fax, fotocopiatrici, stampanti, ecc.
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Figura 5 - Anche quella di un comune
registratore di cassa è, a ben vedere, una interfaccia a
caratteri |
Quando si parla di interfaccia a caratteri, o si presentano i
comandi propri del DOS, la maggior parte di noi tende a considerare
le relative informazioni come pertinenti a un contesto strettamente
tecnico e informatico. A ben vedere, tuttavia, questo atteggiamento
può rivelarsi fuorviante. Riflettiamo infatti un momento su alcune
fra le caratteristiche proprie delle interfacce a caratteri.
Innanzitutto, l'interfaccia a caratteri stabilisce una comunicazione
di tipo linguistico-verbale fra l'uomo e la macchina: il
codice usato - che abbiamo comunque visto essere necessariamente
artificiale e limitato, ben lontano dalle capacità espressive del
linguaggio naturale - è di tipo alfabetico, i comandi che
impartiamo al computer sono 'parole' di questo codice. La
comunicazione è di tipo lineare e sequenziale. Ciò significa che
di norma il computer si aspetta le nostre istruzioni 'una alla
volta', e (almeno per quanto riguarda i computer più vecchi) tende
ad eseguirle a sua volta in maniera lineare.
Una interfaccia a caratteri ci indirizza dunque, magari
inconsapevolmente, verso un rapporto di tipo procedurale con
il computer: pensiamo cioè al computer come a una macchina capace
di eseguire, una dopo l'altra, delle procedure consistenti in una
serie di passi, corrispondenti alla successione dei nostri comandi,
o alla successione delle istruzioni contenute in un programma.
Inoltre, tendiamo naturalmente a rappresentarci il computer come
una macchina limitata allo svolgimento di compiti basati sulla
manipolazione di caratteri: operazioni aritmetiche e matematiche
(nel qual caso immetteremo di norma caratteri numerici, e riceveremo
in risposta caratteri numerici), trattamento di testi, e così via.
Una interfaccia a caratteri rende invece ovviamente più difficile
pensare al computer come a uno strumento da utilizzare, ad esempio,
per il disegno, la fotografia o la musica.
Come si vede, dietro alle caratteristiche apparentemente
'tecniche' di una interfaccia a caratteri si nascondono conseguenze
di grande rilievo. Sarà facile capire, a questo punto, per quale
motivo l'evoluzione dalle interfacce a caratteri alle interfacce
grafiche (o interfacce ad icone; la sigla inglese spesso
utilizzata è GUI, Graphical User Interface) abbia
rappresentato un cambiamento così significativo nell'evoluzione
delle interfacce informatiche. Come si è già accennato altrove,
le varie versioni del sistema operativo Microsoft Windows (Windows
3.1, Windows 95, Windows 98, Windows 2000), il sistema operativo dei
computer Macintosh (MacOS), il sistema operativo IBM OS/2, un
sistema UNIX che disponga del programma X-Windows, sono altrettanti
esempi di sistemi operativi basati su interfacce grafiche. Lo
sviluppo verso sistemi operativi di questo tipo è iniziato negli
anni '70 nei laboratori della Xerox di Palo Alto, ed ha avuto un
impulso decisivo nell'adozione di una interfaccia ad icone da parte
della Apple, prima nell'ormai dimenticato Apple Lisa e quindi
nei vari modelli dei diffusissimi computer Macintosh.
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Figura 6 - Interfacce grafiche:
l'interfaccia del MacOS per Apple Macintosh |
Le interfacce grafiche si basano in genere sulla metafora del desktop,
o tavolo da lavoro: anziché come una sorta di 'quaderno a righe'
sul quale scrivere, linearmente, i comandi impartiti al computer e
sul quale 'leggere' le sue risposte, lo schermo viene utilizzato
come uno spazio pienamente bidimensionale, sul quale, proprio come
avverrebbe su una scrivania, possono essere 'posati' i nostri
strumenti di lavoro (documenti e programmi), rappresentati da
piccole icone. In tal modo, lo schermo diviene un vero e
proprio spazio di lavoro virtuale, all'interno del quale ci
muoviamo attraverso una sorta di nostro 'alter ego' elettronico: il puntatore
del mouse. I documenti o programmi posati sul desktop possono
essere aperti ('lanciati') posizionando il puntatore del mouse sulla
relativa icona e premendo due volte, in rapida successione ('doppio
click'), il tasto di sinistra (o, nel caso di mouse a singolo tasto,
l'unico tasto) del mouse stesso. Il lancio di un documento o di un
programma corrisponde di norma all'apertura di una finestra (window)
che occupa, in tutto o in parte, il tavolo da lavoro virtuale
rappresentato dal desktop, e che - sempre attraverso l'uso del mouse
- può essere chiusa o ridimensionata. Di una interfaccia grafica
fanno inoltre di norma parte anche dei menu a discesa (o a
tendina) che offrono, organizzati in maniera logica, tutti i
comandi disponibili nella situazione in cui ci si trova.
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Figura 7 - Interfaccia grafica e menu
a cascata in Windows 2000 |
Il nostro obiettivo in questa sede non è chiaramente quello di
insegnare ad utilizzare un particolare sistema operativo basato su
una interfaccia grafica (si tratta di strumenti ormai abbastanza
familiari, anche se un utente di computer che non abbia precedenti
esperienze al riguardo dovrà comunque prevedere qualche giorno di
lavoro - con a portata di mano i manuali o i programmi di aiuto e
autoistruzione forniti a corredo del suo sistema operativo - per
abituarsi alle principali convenzioni utilizzate), ma piuttosto di
riflettere sulle sue caratteristiche, dal punto di vista
dell'interfaccia utilizzata. A ben vedere, l'ambiente di lavoro
grafico di una interfaccia grafica è già un esempio di
ciberspazio: uno spazio virtuale all'interno del quale l'utente può
'muoversi' - attraverso il puntatore del mouse - ed agire. Uno
spazio popolato da 'oggetti' informatici (documenti e programmi)
rappresentati da icone che hanno lo scopo di ricordarne,
mnemonicamente, le caratteristiche.
La nostra rapida cavalcata attraverso l'evoluzione delle
interfacce dovrebbe suggerirci un'altra considerazione: le
interfacce informatiche non sono una sorta di 'dato tecnologico',
precostituito e immutabile, ma sono, almeno in parte, frutto di
convenzioni con una forte componente culturale e sociale. Anche per
questo, possono mutare (e di fatto mutano) col tempo, come risultato
non solo - come spesso si tende a dire - dell'evoluzione
tecnologica, ma piuttosto del complesso rapporto di reciproca
interdipendenza che lega evoluzione tecnologica e modelli culturali.
Una volta afferrata questa fondamentale componente culturale delle
interfacce, possiamo renderci conto, ad esempio, che modelli come
quelli della letteratura (e cinematografia) di fantascienza - in
particolare quella di ispirazione cyberpunk
- rappresentano qualcosa di più di un curioso 'sottoprodotto'
dell'evoluzione tecnologica. Al contrario proprio nel campo della
progettazione delle interfacce questi modelli, fedeli al concetto di
'narrativa d'anticipazione' che è stato a volte usato per
caratterizzare la fantascienza, possono esercitare una influenza
diretta su aspettative, indirizzi di ricerca, soluzioni adottate.
È a questo quadro complesso che dobbiamo rivolgerci per cercare
qualche risposta a un interrogativo che, partendo dalle
considerazioni appena svolte, sarà probabilmente sorto spontaneo a
più di un lettore: quali sono le prospettive di evoluzione futura
nel mondo delle interfacce informatiche? Alcune delle interfacce
ipotizzate - ad esempio quelle basate su innesti diretti a livello
neuronale fra computer e cervello dell'utente - pur se perfettamente
concepibili sono probabilmente abbastanza lontane nel tempo da
rendere difficili previsioni esatte. Ma sembra possibile azzardare
comunque alcune previsioni a più breve scadenza.
Innanzitutto, l'estensione di interfacce informatiche grafiche a
molte fra le situazioni nelle quali sono tuttora utilizzate
interfacce a caratteri o interfacce meccaniche: in particolare per
quanto riguarda l'elettronica di consumo (agendine elettroniche,
telefoni, telefoni cellulari, televisori, lavastoviglie,
autoradio...). La diffusione del sistema operativo Windows CE,
destinato proprio a situazioni di questo tipo, costituisce già una
prima indicazione al riguardo. Questa linea di tendenza implica una
moltiplicazione degli 'spazi virtuali' con i quali ci troveremo a
interagire nelle situazioni di tutti i giorni.
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Figura 8 - Interfacce
grafiche ad icone sono ormai arrivate anche sui computer
palmari (l'evoluzione delle vecchie agendine elettroniche) |
In secondo luogo, un parziale 'recupero' di alcune fra le
caratteristiche delle vecchie interfacce a caratteri (a partire
dalla linearità) in situazioni in cui possano risultare vantaggiose
interfacce basate sul riconoscimento vocale e sull'uso del
linguaggio naturale. I progressi delle tecnologie di riconoscimento
vocale (la capacità da parte del computer di 'ascoltare' ed
interpretare correttamente comandi dati a voce dall'utente) e di
'parsing' linguistico (riconoscimento delle strutture di base di
frasi del linguaggio naturale, in modo da permettere una
comunicazione con la macchina che non richieda il preventivo
addestramento all'uso di un linguaggio di comandi artificiale e
limitato) promettono molto, e il modello culturale rappresentato dal
nostro uso quotidiano del linguaggio naturale ha naturalmente
un'immensa forza di attrazione.
Va detto tuttavia che, nonostante questa forza di attrazione,
nelle situazioni nelle quali sono chiamati a scegliere fra
interfacce basate sulla comunicazione linguistica (con il 'bonus'
rappresentato dalla possibilità di utilizzare il linguaggio
naturale) e interfacce basate sulla manipolazione di oggetti
all'interno di uno spazio virtuale, gli utenti sembrano spesso
preferire le seconde. Muoversi ed agire sembrerebbero insomma per
noi attività più 'naturali' del parlare. È probabile tuttavia
che, con l'aumento delle situazioni in cui ad essere coinvolte non
sono attività svolte in isolamento ma interazioni operative
complesse non solo con programmi ma anche con altri utenti, il
modello linguistico tenderà ad integrarsi con quello spaziale:
utilizzeremo interfacce che faranno ricorso ad entrambi.
Il contesto di questa integrazione sarà probabilmente segnato da
una terza, fondamentale linea di tendenza, per ora solo prefigurata:
la sostituzione (o meglio, l'affiancarsi) a spazi virtuali
bidimensionali, 'piatti' (si pensi alla metafora della finestra o
del tavolo da lavoro), di interfacce basate su spazi
tridimensionali, nei quali l'utente potrà muoversi - al solito,
attraverso un suo alter-ego informatico - in un ambiente dotato di
una sua profondità, in maniera ancor più vicina al movimento
all'interno dello spazio reale.
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Figura 9 - Interfacce
tridimensionali: il futuro delle interfacce software? |
È qui che la discussione del concetto di interfaccia ci fa
incontrare direttamente il concetto di realtà virtuale. Ma per
capire meglio cosa si intenda per realtà virtuale, è opportuno
soffermarci prima, anche se brevemente, sul secondo dei
concetti-chiave citati all'inizio di questa dispensa: il concetto di
virtuale.
Apparentemente,
infatti, il termine 'realtà virtuale' sembra racchiudere una
contraddizione immediata, presentandosi come una sorta di paradosso,
di ossimoro (l'ossimoro è la figura retorica che unisce fra loro
termini che sembrano incompatibili). Questa impressione deriva dalla
nostra abitudine a considerare il termine 'virtuale' come sinonimo
di 'non reale'. Occorre invece chiarire che, quando usiamo il
termine 'virtuale' in espressioni quali 'realtà virtuale' o 'spazio
virtuale', non intendiamo negare qualunque forma di realtà
ai fenomeni di cui stiamo parlando. Al contrario, intendiamo
significare che la realtà specifica di questi fenomeni, pur non
essendo una realtà fisica, è strutturata sul modello costituito
dalla realtà fisica. Così, uno 'spazio virtuale' non è uno
spazio fisico, ma è strutturato in modo 'simile' allo spazio
fisico.
Ma cosa vuol dire esattamente l'espressione "in modo
'simile' allo spazio fisico"? Principalmente, che all'interno
dello spazio virtuale possono essere istituite relazioni analoghe a
quelle che istituiamo abitualmente all'interno di uno spazio reale:
relazioni quali quelle di vicinanza e lontananza, di sinistra e
destra, di sopra e sotto. Come il nostro corpo fisico può spostarsi
in uno spazio reale, avvicinandosi ed allontanandosi da luoghi e
oggetti, così una sua rappresentazione (o avatar)
può spostarsi all'interno dello spazio virtuale, avvicinandosi o
allontanandosi dai luoghi e dagli oggetti che vi si trovano. In
sostanza, uno spazio virtuale è dotato di una sua dimensionalità
(si tratterà normalmente di uno spazio bi- o tridimensionale), e di
norma si può pensare che rappresenti uno spazio reale o
possibile, anche se talvolta dotato di leggi fisiche o geometriche
lontane da quelle alla quali siamo abituati.
È facile capire, allora, come mai molto spesso il lavoro di
costruzione di spazi virtuali informatici sia posto in collegamento
col più familiare lavoro di costruzione di 'spazi' pittorici, che
accompagna da sempre l'evoluzione della cultura umana, o col più
recente lavoro di costruzione di 'spazi' fotografici o
cinematografici. Anche un quadro, una fotografia, un film,
'costruiscono' spazi che, seguendo metodi e convenzioni che possono
mutare col mutare del tempo, sono tuttavia basati sul modello
costituito dallo spazio reale.
Rispetto a questi modelli, tuttavia, gli 'spazi virtuali'
informatici presentano alcune caratteristiche nuove e di grande
interesse, che probabilmente abbiamo solo iniziato a esplorare.
Innanzitutto, permettono un livello di interazione assai maggiore,
che arriva ai limiti dell'immersione: l'utente non si limita a
'guardare', come avviene nel caso di un quadro, di un film o di una
fotografia, ma può muoversi, cambiando dinamicamente
prospettive e punti di vista.
Anche in questo caso, potremmo cercare nella nostra tradizione
culturale qualche prefigurazione delle possibilità offerte in
questo campo dall'informatica. L'architettura offre da sempre un
lavoro di 'costruzione di spazi' all'interno dei quali muoversi ed
agire: non a caso, anche a proposito del ciberspazio si parla spesso
di architetture e di costruzioni architettoniche. Tuttavia
l'architettura tradizionale opera nello spazio reale, anche se
spesso lavora per modificarne le modalità di percezione, ad esempio
attraverso effetti visivi, prospettive, uso sapiente dei volumi, dei
colori e delle luci.
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Figura 10 - Piazza S. Pietro a Roma,
ricostruita in realtà virtuale (Infobyte) |
Un altro paragone interessante è quello fra gli 'spazi virtuali'
aperti dall'informatica e gli 'spazi concettuali' - strettamente
modellati sulle caratteristiche dello spazio reale - ai quali fa
riferimento una disciplina oggi quasi dimenticata, ma alla quale era
attribuita nel passato (in particolare nel periodo rinascimentale,
ma anche nell'antichità e nel medioevo) una grande rilevanza: la
mnemotecnica. Per aiutare la memoria, la mnemotecnica suggeriva di
'concretizzare' concetti e temi da ricordare, inserendoli
mentalmente all'interno di uno spazio familiare (ad esempio la
propria casa, o il percorso che porta da casa a scuola), e
costruendovi intorno situazioni immaginarie vivaci.
Così, per usare un esempio del tutto tradizionale, dovendo
ricordare l'elenco dei sette peccati capitali basterebbe associare
mentalmente ciascuno di essi a una 'tappa' nel percorso che ci porta
da casa a scuola, collegandovi una situazione buffa o curiosa: la
terza tappa (il peccato di gola) potrebbe così essere collegata
mentalmente all'acquisto di un bignè al cioccolato nella
pasticceria all'angolo, la sesta tappa (lussuria) all'incontro con
una giovane fanciulla discinta (o con un giovane fanciullo
discinto), e così via. Pensate che - una volta constatata la
particolare efficacia mnemonica dell'immaginario 'proibito' -
persino i monaci usavano spesso, costruendo immagini mnemotecniche,
situazioni e personaggi tutt'altro che casti.
La costruzione degli 'spazi immaginari' della mnemotecnica ha
diversi punti di contatto con la costruzione di 'spazi virtuali'
attraverso l'uso dell'informatica e della telematica. Nell'un caso e
nell'altro si tende a far riferimento al modello rappresentato dallo
spazio fisico, operando tuttavia su di esso delle operazioni di
semplificazione. Nell'un caso e nell'altro si ricorre a oggetti e
situazioni che vengono inserite all'interno della nostra
'costruzione' e dotate di valori significativi e simbolici. E in
entrambi i casi il movimento di un alter ego del soggetto
all'interno di questi spazi - dotati di forti connotazioni
concettuali - assume anche una funzione operativa e conoscitiva.
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Figura 11 - Un esempio tratto da un
trattato cinquecentesco di mnemotecnica: l'associazione
delle lettere con oggetti della vita quotidiana |
Talvolta, gli spazi della mnemotecnica venivano 'concretizzati'
in modelli reali: l'esempio più rilevante è quello dei famosi
'teatri della memoria', che per certi versi prefiguravano alcune
delle funzioni oggi attribuite ai musei. Ma di norma si trattava di
spazi puramente immaginari, così come immaginario era il movimento
del soggetto al loro interno. E la condivisione di questi spazi a
sua volta poteva avvenire solo attraverso le descrizioni e i
precetti verbali.
Il 'virtuale' degli spazi informatici e telematici, al contrario,
non è affidato alla nostra immaginazione: le strutture, le forme e
le relazioni che vengono istituite al suo interno sono di norma
largamente indipendenti dal soggetto, che le percepisce come un
'dato'. Nello spazio del videogioco, il nemico in agguato dietro
l'angolo non è frutto della mia immaginazione, ma di righe e righe
di programma (scritte da qualcun altro e a me inaccessibili) che ne
definiscono l'aspetto, le dimensioni, il comportamento. Nel più
concettuale 'spazio' del World Wide Web, del quale ci siamo occupati
nella quarta dispensa,
i rimandi da una pagina all'altra (che istituiscono in un certo
senso un rapporto di 'vicinanza') sono anch'essi in genere per il
navigatore un 'dato', un suggerimento di percorso possibile che egli
può decidere autonomamente se seguire o no, ma che è stato
predisposto per lui da qualcun altro. L'alter-ego, o 'avatar' del
soggetto ha a sua volta spesso caratteristiche definite, e il suo
movimento è di norma soggetto a condizionamenti assai più vicini a
quelli propri dello spazio fisico che alla libertà dell'immaginario
mnemotecnico. E la condivisione di questi spazi è realmente
intersoggettiva, giacché gli spazi informatici sono spesso - come
in parte si è già visto e come risulterà ancor più chiaramente
in seguito - veri e propri spazi comunicativi condivisi.
Il movimento, dunque, non è che la prima delle possibilità
aperte dagli spazi virtuali creati attraverso l'uso dell'informatica
e della telematica. In realtà, a ben guardare, lo stesso movimento
rientra in una categoria più ampia, quella dell'azione:
nello spazio informatico è possibile agire, e le nostre azioni
possono, volendo, produrre effetti diretti anche sulla realtà
fisica. Così, ad esempio, possiamo controllare al terminale di un
computer i movimenti di una sonda radiocomandata che si sposta sui
fondali marini: le nostre indicazioni di movimento potrebbero essere
date basandosi su un modellino della sonda che si muove, sullo
schermo, all'interno di un modello tridimensionale del fondale; le
stesse indicazioni vengono trasmesse alla vera sonda, che si muove
realmente, magari a centinaia di chilometri da dove noi ci troviamo,
sul vero fondale marino. Esempi analoghi potrebbero essere fatti ad
esempio nel campo della telemedicina, o del controllo di una linea
di produzione robotizzata.
Ma anche quando il movimento si limita a produrre i suoi effetti
all'interno dello spazio virtuale nel quale siamo immersi, questi
effetti hanno - o possono avere - una loro oggettività, e possono
essere suscettibili di verifica intersoggettiva: pensiamo ai
videogiochi (ad esempio a due giocatori che, in una sala gioco, si
sfidino in una corsa automobilistica simulata), o alla simulazione
informatica di un esperimento di fisica.
Un'altra modalità dell'azione è la comunicazione, e come
abbiamo già accennato gli spazi virtuali, compresi quelli che
rientrano nella categoria della realtà virtuale, sono spazi
informativi e comunicativi. Per poterlo essere pienamente,
tuttavia, è essenziale che l'immersione dell'utente al loro interno
non sia un'esperienza individuale e solitaria: gli ambienti che
creiamo devono essere piuttosto ambienti condivisi, nei quali
sia possibile interagire con altri utenti, con gli oggetti
che incontriamo, con strumenti - i programmi - che ci aiutino
nell'esplorare e 'utilizzare' il 'mondo virtuale' in cui siamo
immersi, e così via. Anche in questo caso i videogiochi - ad
esempio i 'giochi di ruolo' in rete - possono illustrare in
maniera particolarmente chiara le situazioni alle quali facciamo
riferimento.
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Figura 12 - Everquest, un esempio
di gioco di ruolo multiutente in rete |
Riassumiamo rapidamente cinque fra i principali tratti che
abbiamo attribuito agli 'spazi virtuali' dell'informatica e della
telematica: immersione, movimento, interazione, comunicazione,
condivisione. Per molti aspetti, queste categorie si intrecciano e
si sovrappongono; da altri punti di vista, ciascuna è dotata delle
sue caratteristiche e delle sue potenzialità specifiche.
La discussione che abbiamo proposto finora può forse risultare
un po' confusa: abbiamo parlato di ciberspazio, di spazio
informatico, di spazi virtuali modellati sulle caratteristiche dello
spazio reale. E abbiamo suggerito, per illustrare via via il nostro
discorso, alcuni esempi. Ma il concetto di 'ciberspazio' può essere
rimasto in parte sfuggente. Lo 'spazio simulato' di un videogioco e
lo 'spazio concettuale' di World Wide Web sono due esempi di
ciberspazio allo stesso titolo? Ogni ciberspazio deve
necessariamente far riferimento - e in che misura - al modello
rappresentato dallo spazio reale? E il concetto di 'realtà
virtuale' è sinonimo di quello di 'ciberspazio', o possiede una
propria specificità?
Per affrontare meglio questi temi, può essere opportuno
considerare più da vicino alcune fra le definizioni di ciberspazio
che sono state proposte negli ultimi anni, per affrontare in
seguito, in maniera specifica, il campo della 'realtà virtuale'.
Come
si è accennato nella scheda 'William
Gibson e la letteratura cyberpunk', l'introduzione del termine
'ciberspazio' (cyberspace) si deve allo scrittore di
fantascienza William Gibson, autore del fortunato romanzo Neuromancer
(1984). Il romanzo di Gibson è collocato in un futuro nel quale i
dati conservati all'interno della rete mondiale di computer
costituiscono un unico spazio virtuale (la 'matrice') nel quale si
muovono sia programmi sia operatori umani. Secondo la definizione
fornita da Gibson - che ne esplora in primo luogo le implicazioni
sociali e politiche - il ciberspazio è dunque
"un'allucinazione consensuale ... una rappresentazione grafica
di dati tratti dalle banche dati di ogni computer nel sistema
umano..." (Gibson 1984).
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Figura 13 - William Gibson |
Se riflettiamo su questa definizione, comprendiamo che il
ciberspazio 'alla Gibson' può essere considerato uno spazio
informativo da almeno due punti di vista: è informativo perché
al suo interno è possibile consultare informazione (ad esempio
quella contenuta in una banca dati), ma - soprattutto - è
informativo perché è fatto di informazione. Il ciberspazio
è dunque un luogo di organizzazione e condivisione
dell'informazione, con la particolarità che l'informazione con la
quale abbiamo a che fare è informazione in formato digitale, dotata
della peculiare caratteristica di riproducibilità e facilità di
trasferimento che, come abbiamo già visto, caratterizza
l'informazione in formato digitale; inoltre, gli strumenti per la
gestione di questa informazione sono in parte essi stessi
informazione, sotto forma di programmi e istruzioni per computer.
Se a caratterizzare il ciberspazio fosse solo la possibilità di
consultare informazione, dovremmo includere in questa categoria, ad
esempio, anche un giornale o una biblioteca. Ma in un giornale, o in
un libro, l'informazione e il suo supporto sono legati in maniera
strettissima: le lettere che compaiono sulla superficie di una
pagina non possono 'staccarsi' e volare, quasi disincarnate, verso
di noi. Come abbiamo visto nella terza
dispensa, invece, l'informazione in formato digitale ha la
capacità di viaggiare attraverso le reti, di poter essere
trasferita con immediatezza e facilità da un supporto all'altro, da
un computer all'altro. Questa caratteristica è fondamentale nel
momento in cui passiamo dalla considerazione di uno spazio reale in
cui consultare informazione a quella di uno spazio fatto di
informazione.
L'evoluzione della tecnologia non ha certo tolto a questa
immagine il suo carattere in parte metaforico, ma ha reso la
metafora immediata, comoda, quasi naturale. E intorno a questa
metafora si è sviluppata una discussione teorica articolata.
Per alcuni, il ciberspazio è interpretato, estensivamente, come
il 'luogo' fittizio che viene a costituirsi attraverso qualunque
forma di scambio informativo a distanza - anche una telefonata.
Un concetto di questo tipo era già alla base di esperimenti
svolti verso la metà degli anni '70 utilizzando videocamere e mixer
grafici; un esempio è rappresentato dall'installazione VIDEOPLACE
realizzata tra il 1975 e il 1977 da Myron Krueger: un incrocio fra
tecnologia della comunicazione e ricerca artistica, nella quale
persone situate in luoghi differenti erano riprese da telecamere e
'inserite' in una cornice visiva comune, ritrasmessa a tutti i
partecipanti. In questo 'ambiente comune' virtuale era possibile
creare vere e proprie interazioni visive. Krueger considerava
VIDEOPLACE come la creazione di "un ambiente concettuale privo
di esistenza fisica, (.) basato sulla premessa che l'atto della
comunicazione crei un luogo che è composto da tutte le informazioni
che i parlanti condividono in quel momento" (cit. in Rheingold
1992).
A questa concezione del ciberspazio si ricollega un altro autore
di fantascienza molto vicino a Gibson, Bruce Sterling (una sua
intervista è disponibile all'interno della biblioteca digitale di
MediaMente, disponibile in
rete
e sul CD-ROM).
Per Sterling, "il ciberspazio è il 'posto' nel quale una
conversazione telefonica sembra avvenire. Non all'interno del tuo
telefono, l'oggetto di plastica sul tuo tavolo; non all'interno del
telefono del tuo interlocutore, in qualche altra città. Ma in un
'luogo intermedio' fra i due telefoni, l'indefinito 'posto' nel
quale tu e il tuo interlocutore vi incontrate e comunicate
effettivamente" (Sterling 1992).
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Figura 14 - Bruce Sterling |
In questa definizione, l'aspetto metaforico del concetto di
ciberspazio può apparire particolarmente forte. Un tentativo per
precisarlo con maggior cura, utilizzando gli strumenti teorici della
teoria dell'informazione, è stato operato da Tim McFadden (McFadden
1991). McFadden considera il ciberspazio come un caso particolare
del più generale concetto di spazio informativo, definito
come "uno spazio astratto di informazione acquisita, con una
sorgente di informazione ed un ricevitore di informazione". Per
informazione acquisita si intende ogni informazione generata
da una procedura di trasmissione di messaggi da una sorgente a un
destinatario attraverso un canale, e conservata nella stessa forma
in cui è stata trasmessa (la definizione completa fa riferimento
alla discussione delle modalità di trasmissione dell'informazione
proposta da Shannon e Weaver, un argomento sul quale torneremo nella
prossima
dispensa). Da questo punto di vista i libri di una biblioteca
costituiscono ad esempio uno spazio informativo. Ogni singolo libro
può essere infatti considerato come informazione acquisita:
l'autore del libro rappresenta l'emittente, il lettore rappresenta
il destinatario, e le pagine del libro rappresentano insieme il
canale fisico attraverso cui è trasmessa l'informazione e il
supporto per la sua conservazione.
Il ciberspazio rappresenta per McFadden, come si è accennato, un
caso particolare di questo concetto generale. Per l'esattezza, il
ciberspazio è definito come uno spazio informativo avente le
seguenti proprietà:
1) E' connesso da una rete di canali per lo scambio di
informazione, e questi canali sono affidabili: se l'informazione è
disponibile ad un ricevitore in parte, allora lo è completamente.
2) Ci sono agenti che hanno la facoltà di modificare
l'informazione, e protocolli condivisi per lo scambio di
informazioni fra agenti. Gli agenti possono essere o no parte dello
spazio informativo, e possono interagire o no col mondo esterno. In
sostanza, gli agenti possono essere persone (o alter-ego di persone
all'interno dello spazio informativo), ma anche programmi capaci di
muoversi autonomamente nello spazio informativo.
3) Ci sono inoltre agenti che possono trasformare,
astrarre e rappresentare l'informazione nel ciberspazio in modo tale
che gli uomini possano averne esperienza in modi analoghi a quelli
in cui hanno esperienza dello spazio e degli oggetti quotidiani del
mondo. Ritroviamo qui l'idea di uno spazio modellato sulle
caratteristiche dello spazio reale.
McFadden definisce pre-ciberspazio uno spazio informativo
che risponda al primo e al secondo requisito, ma non al terzo.
Una definizione di questo tipo non è certo priva di aspetti
problematici, in particolare a causa della relativa indeterminatezza
del terzo requisito, che del resto abbiamo già discusso. McFadden
sottolinea, tuttavia, l'esistenza di esempi concreti che rispondono
ai criteri individuati per il pre-ciberspazio. L'esempio principale
al quale fa riferimento McFadden è quello della rete Internet.
In effetti, gli utenti di Internet sono connessi
attraverso canali affidabili per la circolazione dell'informazione
(primo requisito), esistono protocolli condivisi per lo
scambio dell'informazione (ricordate quando, nella lezione su
Internet, abbiamo accennato al protocollo
TCP/IP?) e sia gli utenti della rete, sia i programmi ospitati
dai molti computer interconnessi possono agire sull'informazione
in circolazione, modificandone ad esempio le modalità di
rappresentazione, selezionando per la visualizzazione soltanto
alcuni fra i dati disponibili su un certo argomento, e così via
(secondo requisito). Tuttavia, lo spazio informatico rappresentato
da Internet resta uno spazio concettuale, non è costruito in
diretta analogia con il modello costituito dallo spazio reale. Così
su Internet non avrebbe senso dire che una certa informazione è 'a
destra' o 'a sinistra' di un'altra, e se possiamo talvolta parlare
di 'sopra' e 'sotto' questo può essere fatto solo in riferimento
alla subordinazione logica fra concetti, non alla posizione spaziale
delle rappresentazioni visive di quei concetti.
Più vicini al nostro uso abituale potrebbero essere considerati
i concetti di vicinanza e lontananza (due pagine di World Wide Web
potrebbero essere ad esempio considerate 'vicine' se dall'una
all'altra esiste un collegamento diretto, un link): ma anche in
questo caso è chiaro che si tratta di un uso largamente metaforico
dei termini, riferito a uno 'spazio' che è innanzitutto uno spazio
concettuale, pur se dotato di una sua 'geografia' (quella
rappresentata dalla topologia dei canali di connessione: in
sostanza, dalla complessa struttura della rete) e di soggetti (gli agenti)
che si 'muovono' e agiscono al suo interno.
La definizione di McFadden ci fornisce così una possibile
prospettiva per comprendere il passaggio da un generale spazio
informativo (la biblioteca) allo spazio concettuale rappresentato
dalla rete Internet - dotato di una propria 'geografia' di canali di
trasmissione dati, all'interno della quale si muovono agenti capaci
di modificare l'informazione e le sue modalità di rappresentazione
(lo stadio che McFadden chiama del pre-ciberspazio) - al ciberspazio
vero e proprio, in cui le familiari relazioni spaziali istituite in
un ambiente bi- o tridimensionale vengono riprese all'interno degli
spazi virtuali che creiamo attraverso l'uso delle nuove tecnologie.
Il fatto che la definizione di McFadden ponga l'accento, nel suo
terzo requisito, sul modo in cui il soggetto ha esperienza
dello spazio virtuale creato dal computer piuttosto che sul
modo in cui tale spazio è organizzato ha conseguenze
importanti. Questa impostazione, infatti, sembra suggerire che nel
caso di un vero ciberspazio l'utente debba in qualche modo essere
'ingannato' dai sensi: la sua esperienza deve essere il più
possibile analoga a quella provata normalmente nello spazio reale, e
per ottenere questo risultato la strada maestra sembra essere quella
di produrre stimoli sensoriali il più vicini possibile a quelli
provati nello spazio reale. Da questo punto di vista, come capiremo
meglio tra breve, sono gli ambienti in realtà virtuale che paiono
costituire gli esempi tipici di quello che per McFadden (a
differenza di Gibson e Sterling, che come si ricorderà accettavano
una definizione assai più larga del termine) è il solo, vero
ciberspazio.
Se l'accento, anziché sull'esperienza del soggetto, fosse invece
posto sulla strutturazione data agli spazi virtuali, e il
requisito fosse quello di una organizzazione spaziale modellata su
quella dello spazio reale, all'interno della categoria del
ciberspazio potrebbero rientrare anche spazi informativi di altro
tipo: ad esempio, i videogiochi appartenenti a una categoria molto
in voga una decina di anni fa e oggi (peccato!) quasi dimenticata,
quella delle adventures testuali, o i cosiddetti MUD (Multi
User Dungeons - ne abbiamo già parlato nella quarta
dispensa), giochi di esplorazione condivisa di ambienti che,
anche in questo caso, sono spesso costruiti attraverso descrizioni
linguistiche. I giochi di questo tipo (si veda la relativa
scheda) costituiscono un esempio molto interessante di
costruzione 'linguistica' di ambienti spaziali, non lontana da
quella - realizzata senza far alcun ricorso a strumenti
informatici - dei cosiddetti libri game, ma arricchita,
come richiesto dalla definizione che stiamo discutendo, dalla
presenza di agenti: i personaggi impersonati dai giocatori, e quelli
controllati dal computer. Nello spazio informatico di un gioco adventure
o di un MUD - come accade del resto nello spazio informativo
costruito da molti giochi di ruolo, anche non informatizzati - il
ruolo attivo dei personaggi è infatti assai maggiore di quanto non
avvenga in un libro game, in cui le possibili azioni del personaggio
principale (e le possibili reazioni dell'ambiente) sono limitate a
pochissime alternative, e in cui non è possibile una reale
interazione fra più giocatori.
La nostra trattazione è stata fin qui forse un po' astratta, ma
speriamo abbia fornito un'idea delle complesse discussioni, anche
teoriche, che si sono intrecciate negli ultimi anni attorno al
concetto di ciberspazio. Naturalmente, il nostro obiettivo non è
qui quello di prendere le difese dell'una o dell'altra tesi: ci
interessa piuttosto sottolineare come il concetto di ciberspazio non
sia solo una creazione della letteratura di fantascienza, ma
sia ormai diventato un concetto di tutto rilievo nell'ambito della
discussione sui nuovi media. E' giunto però forse il momento di
guardare più da vicino, al di là degli esempi abbastanza rapidi
fatti finora, quali siano le realizzazioni pratiche che
corrispondono a questo concetto. In particolare, è giunto il
momento di parlare in maniera più specifica di quello che
probabilmente, in questo settore, è il campo 'di punta': la realtà
virtuale.
L'apparente contraddittorietà dell'espressione 'realtà
virtuale' non dovrebbe più trarci in inganno: abbiamo visto infatti
che il concetto di 'virtuale' non va interpretato in opposizione a
quello di 'reale', e che anzi in campo informatico il virtuale ha di
norma una sua specifica forma di realtà: una realtà che non è
fisica, ma è spesso costruita basandosi su aspetti particolarmente
rilevanti del modello rappresentato dalla realtà fisica.
Ma cos'è, esattamente, la realtà virtuale?
La definizione che proponiamo nella videocassetta di questo corso
(vedi filmato) è la seguente: per
realtà virtuale si intende un ambiente spaziale simulato, creato e
gestito dinamicamente dal computer, con il quale l'utente può
interagire - attraverso apposite interfacce - ricavandone
l'illusione di un movimento e di una immersione spaziale effettiva.
Tale illusione è prodotta dalla capacità del programma di adattare
rapidamente i punti di vista e le geometrie all'interno
dell'ambiente simulato ai movimenti e alle azioni dell'utente,
producendo una esperienza sensoriale il più possibile vicina a
quella che l'utente stesso incontrerebbe se l'ambiente simulato
fosse invece reale.
Vediamo di capire meglio i vari aspetti della definizione che
abbiamo proposto. Innanzitutto, proprio come negli altri casi fin
qui ricordati, abbiamo a che fare con uno spazio virtuale,
all'interno del quale possiamo utilizzare molte fra le relazioni
spaziali che usiamo ogni giorno muovendoci in spazi reali. Nel caso
della realtà virtuale, tuttavia, a questa caratteristica si
affiancano alcune nuove, importanti specificazioni. In primo luogo,
l'ambiente è presentato graficamente, utilizzando una grafica
tridimensionale. In secondo luogo, questa grafica viene aggiornata
dinamicamente, secondo dopo secondo (o meglio, numerose volte al
secondo), per adattarsi ai movimenti compiuti al suo interno
dall'utente. Questi movimenti vengono comunicati al computer
attraverso una interfaccia quale un mouse, un joystick, un
data-glove, o strumenti ancor più sofisticati (si veda la scheda 'le
interfacce per la realtà virtuale').
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Figura 15 - Applicazioni di realtà
virtuale: una interfaccia 'mista' (pannello di proiezione,
occhiali visori, joystick 3D) |
Molti videogiochi - in particolare quelli basati su una
rappresentazione grafica in soggettiva tridimensionale - possiedono
queste caratteristiche, e si avvicinano dunque per certi versi al
concetto di realtà virtuale. Il passo ulteriore - che in gran
parte resta ancora da compiere - è quello costituito dall'inganno
dei sensi. L'utente, cioè, non dovrebbe percepire l'ambiente
simulato come una ben costruita 'approssimazione visiva' allo spazio
reale, ma dovrebbe avere l'impressione di trovarsi effettivamente
in uno spazio reale. Ai movimenti verso l'alto, verso il basso,
verso sinistra e verso destra della sua testa dovranno allora
corrispondere gli opportuni cambiamenti del campo visivo, la
reazione dell'ambiente simulato ai suoi spostamenti dovrà essere
immediata e fluida, gli oggetti collocati nell'ambiente dovranno
rispondere perfettamente alle condizioni di illuminazione e di ombre
nelle quali li si immagina immersi, e così via. Le immagini
dovranno possedere un alto livello di dettaglio, e per garantire una
fluidità sufficiente dovranno essere automaticamente aggiornate
molte volte al secondo, in corrispondenza dei movimenti del soggetto
e del relativo spostamento del suo 'punto di vista' all'interno
dello spazio simulato.
Questi requisiti sono ovviamente tutt'altro che facili da
realizzare. E' un po' come se volessimo 'capovolgere' il sistema
copernicano a favore di un ritorno a una sorta di sistema tolemaico
gestito dal computer: il soggetto non si muove più, corpo fra i
corpi, all'interno dello spazio reale, ma resta immobile al centro
del mondo, e aspetta che il computer gli 'muova' intorno - in
forma simulata - il resto dell'universo, e che lo faccia in maniera
talmente precisa e coordinata da dargli l'illusione che a muoversi
sia invece e comunque lui, il soggetto.
Un compito di questo genere non coinvolge solo abilità
ingegneristiche, ma presuppone una buona conoscenza dell'apparato
sensoriale umano, delle sue caratteristiche, e dei meccanismi
psicologici della percezione: non è un caso che molta parte delle
ricerche nel campo della realtà virtuale avvenga in équipe in cui
lavorano insieme non solo grafici e programmatori, ma anche
psicologi.
Perché l'illusione di immersione nell'ambiente virtuale possa
essere completa, inoltre, l'utente non dovrebbe solo esperire
visivamente il mondo simulato e percepirlo come un'alternativa
credibile e coerente a quello reale: dovrebbero essere ingannati
anche gli altri sensi, e in particolare il tatto, un senso
fondamentale - fin dall'infanzia - nella percezione spaziale del
mondo esterno.
Anche se tutti questi requisiti sono stati oggetto di studi ed
esperimenti dai risultati spesso sorprendenti, al momento non
disponiamo, e probabilmente non disporremo ancora per molto tempo,
di realizzazioni così complete e raffinate da produrre un vero
inganno dei sensi. Non abbiamo neanche le idee troppo chiare su
quali siano gli strumenti migliori - ad esempio a livello di
interfacce - per avvicinarvisi. Ecco allora che quando si parla di
'realtà virtuale' ci si riferisce di fatto sempre ad
approssimazioni che possono essere più o meno buone se le
compariamo fra loro, ma che sono ancora lontanissime dalla ricchezza
sensoriale della nostra esperienza reale.
Sarebbe erroneo, tuttavia, dedurre da queste considerazioni che
il campo della realtà virtuale sia un settore di ricerca di poca
importanza o interesse. Nonostante il livello ancora approssimativo
degli ambienti virtuali che siamo in grado di creare, questi
ambienti permettono comunque situazioni di interazione complessa con
i loro utenti, una interazione basata sul modello dell'interazione
che abbiamo con ambienti, oggetti, situazioni dello spazio reale.
Inoltre, in questi ambienti virtuali possiamo incontrare non solo le
simulazioni tridimensionali di oggetti, ma anche, come si è già
accennato, delle rappresentazioni virtuali di noi stessi, di altri
utenti, e perfino di programmi. In sostanza, gli ambienti virtuali
non costituiscono necessariamente una esperienza che riguarda una
sola persona isolata dal mondo e immersa in una costruzione
totalmente statica e fittizia: possono costituire una esperienza
condivisa, in cui i soggetti attivi siano molti, e in molti casi
siano capaci di interazione e comunicazione.
Su questo aspetto di interazione fra soggetti torneremo fra
breve, in conclusione di questa lezione. Ma c'è un ultimo dato che
è bene ricordare a questo punto: gli ambienti simulati, pur essendo
ancora assai poveri dal punto di vista sensoriale, sono creati da
noi. Chi progetta un ambiente in realtà virtuale, anche se solo con
gli strumenti piuttosto limitati oggi disponibili, per certi versi
è un creatore di mondi. Può ispirarsi ad ambienti reali ma anche
realizzarne di originali, magari fantastici o impossibili. Può
ricostruire situazioni, città e monumenti del passato, o fare
ipotesi su architetture future. Può far viaggiare lo spettatore
(che diventa anche attore) negli spazi di un quadro di Giotto o di
Leonardo, nelle geometrie essenziali di De Chirico o in quelle
impossibili di Esher. Come già accennato, può far corrispondere le
azioni eseguite dagli utenti negli ambienti virtuali ad azioni reali
svolte da macchinari che operano nel mondo fisico, come avviene in
alcune applicazioni di telemedicina o di controllo a distanza di
apparecchiature robotizzate, anche in campo militare.
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Figura 16 - 'All'interno' di un
affresco di Giotto: la città dipinta dall'artista è
ricostruita in realtà virtuale (Infobyte) |
Questo aspetto - il fatto che le realizzazioni nel campo della
realtà virtuale dipendano dalle nostre scelte (creative e no), dai
nostri obiettivi, dalla nostra capacità di immaginazione spaziale e
simbolica - tende spesso ad essere dimenticato. L'ambiente
virtuale viene presentato al suo utente come un dato,
quantunque fittizio e imperfetto, e la sua esplorazione può a volte
distrarci dall'elemento di progettazione non solo grafica ed
ingegneristica, ma concettuale che vi è dietro.
E' bene ricordarsi, allora, che se chi progetta un ambiente
virtuale è in un certo senso un creatore di mondi, questo ruolo
così suggestivo comporta anche precise responsabilità. La
progettazione ad esempio di un sistema di puntamento balistico in
realtà virtuale, utilizzato per 'semplificare' la realtà fisica e
ridurla a sistema di lancio, obiettivo da distruggere, missile e
elementi in grado di influenzarne in un senso o nell'altro
traiettoria e velocità, può certo costituire un modello utile in
campo militare, e permettere una simulazione di fattori (possibili
imprevisti, condizioni meteorologiche estreme, tempi di reazione,
ecc.) che sarebbe costoso e difficile - talvolta impossibile -
sperimentare sul campo. Ma è bene capire che in questo caso stiamo
usando la nostra capacità di 'creare mondi' per costruire qualcosa
che non è certo oggettivo o neutrale: la stiamo usando per scopi
che riguardano il mondo reale; l'ambiente virtuale che stiamo
costruendo è un riflesso delle nostre paure e di desideri ed
impulsi che è bene riconoscere per quello che sono, non dell'azione
creativa di una mente disincarnata. E lo stesso naturalmente vale,
per fare esempi un po' più piacevoli, per un sistema di
telemedicina o di ricerche sottomarine, o per la progettazione di un
gioco.
Non vogliamo suggerire del facile moralismo, ma solo il
riconoscimento delle nostre responsabilità: sappiamo bene (o almeno
dovremmo sapere) di avere responsabilità nelle azioni che compiamo
nel mondo reale, ma abbiamo talvolta la strana e pericolosa
illusione che le scelte che compiamo costruendo ambienti virtuali, e
agendovi dentro, non comportino responsabilità alcuna, che il
virtuale ci affranchi, oltre che da alcuni aspetti del mondo fisico,
anche dalla valutazione critica di scelte e azioni. Non è così:
proprio perché sono ambienti di azione e di esperienza, di
interazione e comunicazione, il cui uso peraltro ha spesso ricadute
dirette sul mondo reale, gli spazi simulati che creiamo al computer
sono tutt'altro che indifferenti rispetto a valutazioni sociali,
politiche, morali. Conviene insomma stare ben attenti ai mondi che
creiamo, perché in quei mondi dovremo poi - almeno in parte -
vivere.
Vorremmo concludere soffermandoci brevemente su un problema del
quale si è già parlato (si veda fra l'altro la scheda
dedicata alle comunità virtuali nella dispensa precedente), ma
che merita senz'altro una trattazione specifica anche in questo
contesto: la dimensione di interazione sociale che accompagna sempre
più spesso gli ambienti di realtà virtuale.
Abbiamo già accennato al fatto che in molti casi l'interazione
dell'utente con un ambiente simulato (sia esso più o meno
realistico, più o meno vicino a costituire una 'buona' realtà
virtuale) avviene attraverso una 'rappresentazione' dell'utente
stesso all'interno dell'ambiente. Questo nostro 'alter ego' virtuale
ha a volte solo lo scopo di selezionare alcune componenti
dell'ambiente e di permetterci di interagire con esse, ad esempio
eseguendo determinate operazioni. In altri casi, tuttavia, il nostro
alter-ego virtuale (o avatar: vedi
scheda) deve svolgere compiti più complessi: in particolare, il
compito di 'rappresentarci' in situazioni di interazione con altri
utenti.
In situazioni di questo tipo, il ciberspazio acquista un'altra,
importante caratteristica propria dello spazio reale. Lo spazio
reale è infatti anche il contesto in cui interagire e comunicare
con i nostri simili, è insomma uno spazio sociale. Nel
momento in cui uno spazio virtuale generato dal computer non mira
più a consentire una esperienza individuale, ma comincia invece a
popolarsi di rappresentazioni virtuali di più utenti, in grado,
proprio attraverso queste rappresentazioni, di comunicare ed
interagire in tempo reale, anche il ciberspazio diventa uno spazio
sociale.
Le reti telematiche dispongono già di diversi strumenti per
permettere l'interazione in tempo reale di più utenti. Il sistema
più noto è quello del chat, sul quale ci siamo già
soffermati nella dispensa
dedicata a Internet. Normalmente, il chat è solo testuale,
anche se i 'canali' o 'stanze' - ciascuna dedicata ad un argomento
specifico - in cui si suddividono molti sistemi di chat possono
fornire un primo livello di organizzazione interpretabile talvolta
- come denuncia appunto il termine 'stanze' - in senso vagamente
spaziale.
Negli ultimi anni, tuttavia, si sono moltiplicati in rete
'ambienti' di chat bi- o tridimensionali, nei quali gli utenti
possono spostarsi (attraverso i loro avatar) all'interno di vere e
proprie ambientazioni virtuali, e dialogare con gli altri utenti che
si trovano 'a portata di voce'. Inoltre, spazi virtuali condivisi
nei quali vari utenti possono comunicare costituiscono - come si
è accennato - una componente essenziale di molti giochi
dell'ultima generazione, che sviluppano un'intuizione contenuta già
nei primi MUD (vedi
scheda).
Lo sviluppo di questi ambienti sta muovendo appena i primi passi,
ma si presenta già come legato a temi - al solito, non solo
ingegneristici - di grande importanza. Basti pensare al rapporto
di 'autorappresentazione' che si stabilisce fra un utente e il
proprio avatar: un rapporto già evidente nei giochi multiutente
basati su un ambiente grafico, bidimensionale o tridimensionale. In
questi casi, chi progetta il gioco cercherà presumibilmente di
favorire l'identificazione fra il giocatore e il suo 'personaggio'
(magari consentendo al giocatore di sceglierne alcune
caratteristiche, ad esempio offrendogli un'alternativa tra diversi
personaggi, distinti fra loro per l'aspetto fisico e/o per le
capacità ad essi attribuite nel gioco). Dato che le caratteristiche
del personaggio che controlliamo sono visibili agli altri utenti,
l'interazione con gli altri giocatori all'interno del gioco verrà
'mediata' da queste caratteristiche, che finiranno per influenzare
- soprattutto nel caso di giochi a distanza, ad esempio attraverso
Internet - l'immagine che di noi si faranno gli altri.
Nei giochi, questa identificazione fra l'utente e il suo avatar
è comunque limitata a un contesto ludico; in altre situazioni di
interazione sociale, tuttavia, può influenzare giudizi e
comportamenti in maniera assai più generale. Lo studio delle forme
e dei modi dell'interazione sociale in rete costituisce un campo
nuovo e per molti versi affascinante, e non può prescindere da
un'analisi del vari tipi di avatar che vengono utilizzati. In un
certo senso lo stesso 'nickname', il nome che scegliamo di
utilizzare in un chat testuale pubblico, rappresenta un nostro
'avatar', vuole presentare in qualche modo noi e la nostra
personalità. Se dai chat testuali passiamo a quelli grafici,
vedremo che la rappresentazione, acquistando complessità grafica,
acquista anche ulteriori possibilità connotative. Alcuni avatar
permettono già di modificare, ad esempio, alcune espressioni del
volto, in risposta a istruzioni fornite dall'utente che li
'controlla' e che in tal modo vuole comunicare emozioni e stati
d'animo. In altri casi, il nostro avatar può presentarsi facendo
ricorso alla nostra stessa immagine, sotto forma di foto
digitalizzata o addirittura attraverso l'uso di una piccola
telecamera che ci riprende. Un diffuso programma di video-chat,
Cu-seeme (il nome si legge "See you, see me": "io
vedo te, e tu vedi me"), permette di dialogare in 'stanze'
virtuali visualizzando le immagini degli altri utenti collegati con
noi, riprese da una piccola videocamera e aggiornate un paio di
volte al secondo. Queste 'stanze' sono per ora ambienti puramente
astratti, simili ai canali di un chat, ma potrebbero in futuro
assumere una più marcata connotazione 'spaziale'.
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Figura 17 - 'Stanze' per il chat
video: il programma Cu-seeme |
In molte fra queste situazioni, l'utente può far uso di forme di
'mascheramento' simili a quelle già ricordate a proposito del chat:
un utente di sesso maschile si potrebbe ad esempio 'presentare' agli
altri attraverso un avatar di sesso femminile, e viceversa. Queste
possibilità, svincolando l'interazione sociale in rete da alcune
delle tradizionali caratteristiche di 'oggettività'
dell'interazione fisica fra persone reali, la rendono secondo alcuni
più interessante e creativa, secondo altri più confusa e
mistificatoria. E, nuovamente, ci troviamo davanti a giudizi di
valore che non riguardano gli aspetti ingegneristici e tecnologici
ma l'uso che scegliamo di farne, la direzione in cui scegliamo di
indirizzarne lo sviluppo, le funzionalità comunicative e di
interazione sociale che decidiamo di attribuire loro.
Non intendiamo qui suggerire, a questo proposito, né giudizi né
ricette, che sarebbe del resto assai difficile fornire. Possiamo
solo ricordare, come abbiamo già fatto a proposito dei 'mondi'
virtuali che ci accingiamo a costruire, che anche la scelta degli
'abitanti' di questi mondi, delle loro caratteristiche, delle forme
e dei modi della loro interazione, dipende in ultima analisi da noi,
e non costituisce un 'dato' tecnologico. Anche in questo caso,
auguriamoci di saper scegliere bene, e di riuscire a popolare i
nostri mondi virtuali di abitanti magari curiosi e vari, capaci di
esplorare i valori della diversità e dell'inventiva, ma comunque
- almeno quando necessario - anche responsabili e consapevoli.
- Provate a elencare almeno 5 tipi diversi di 'interfacce'
utilizzate per presentare a un lettore un testo scritto. Quali
sono le differenze esistenti fra loro? A quali scopi rispondono?
- Supponete di progettare un programma per computer, che serva a
disegnare fumetti. Come immaginate la relativa interfaccia
software?
- Supponete di progettare un ambiente virtuale nel quale
'incontrare' i vostri compagni di scuola o di università. Quali
'ambienti' riterreste utile prevedere al suo interno, e con
quali caratteristiche? Quali caratteristiche vorreste attribuire
al vostro avatar, e a quelli dei vostri compagni?
- Dopo aver letto Neuromante di William Gibson, provate a
elencare punti di contatto e differenze fra la 'matrice'
immaginata da Gibson e Internet.
- Provate a partecipare con alcuni amici a un chat 3D in rete, e
riflettete sulle differenze fra le relazioni che si stabiliscono
fra gli utenti di un ambiente virtuale e quelle che si avrebbero
se le stesse persone si fossero invece incontrate in un ambiente
reale.
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