Lezione n. 09
Nuove tecnologie e società globale
di Fabio Ciotti
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Comprendere
a fondo la portata di una rivoluzione, in qualunque sfera essa
occorra, proprio mentre essa è in pieno svolgimento, è impresa
ardua, se non impossibile. Come prevedere quali e quante tre le
promesse o le minacce, le aspettative o i timori saranno confermati
dopo dieci o venti anni? E quante volte ciò che sembrava una
rivoluzione al momento, riconsiderata con la consapevolezza che la
storia ci regala, si rivela una semplice correzione di rotta, o una
superficiale agitazione? E tuttavia in nessun momento previsioni,
attese, speranze, certezze si manifestano come nel corso di una
rivoluzione.
È questa la situazione in cui ci troviamo oggi: la rivoluzione
digitale promette, attraverso i suoi sostenitori e i suoi
protagonisti, di cambiare radicalmente e in meglio sia il
funzionamento globale della società sia la vita degli individui. E
naturalmente genera simmetriche paure tra quanti temono invece che
tali cambiamenti si possano rivelare involuzioni e regressioni. Le
tensioni ideologiche sono tanto più acute in quanto alla base del
cambiamento si pone una pervasiva diffusione della tecnologia nella
vita sociale. D'altra parte, abbiamo visto come sia oggetto di
dibattito lo stesso ruolo determinante dell'innovazione tecnologica
nel mutamento
in corso.
È molto difficile assumere in questo contesto una posizione
equidistante dalle opposte ideologie e cercare
"semplicemente" di descrivere i processi di cambiamento in
atto senza concedere troppo all'apologia o alla detrazione. In
questo corso fino ad ora abbiamo cercato, per quanto possibile, di
mantenere tale equidistanza. Per questo abbiamo ritenuto opportuno
in primo luogo "fornire i dati" del problema, capire a
fondo in che cosa consiste il complesso di tecnologie che sono alla
base della rivoluzione digitale. Armati di tale bagaglio ci siamo
volti a studiare come tali tecnologie stiano influenzando varie
sfere della vita sociale e culturale, cercando di individuare quelle
che riteniamo tendenze del cambiamento piuttosto che risultati
conseguiti e processi conclusi.
In questa dispensa, dedicata proprio al rapporto tra le nuove
tecnologie digitali e la società, il nostro sforzo di descrizione
critica è tanto più difficile, quanto più complesso risulta
il tema in discussione. A testimonianza di questo nostro tentativo
c'è innanzi tutto il titolo che abbiamo scelto: nuove tecnologie e
società globale. La congiunzione "e", infatti, è stata
scelta esplicitamente per evitare di suggerire un rapporto di
causalità diretta tra i due termini. La "società
globale" è la forma del vivere sociale verso la quale ci
stiamo muovendo. Un vivere sociale nel quale la sfera economica,
quella politica e quella culturale mostrano rapporti reciproci
sempre più fitti ed interconnessioni che oltrepassano i confini
locali e nazionali delle comunità tradizionali. Proprio in questa
idea di interconnessione, di rete, si colloca il complesso intreccio
tra fenomeni sociali e fenomeni tecnologici.
Su questo intreccio ci concentreremo, senza presumere di esaurire
un tema complesso ed ancora oggetto di studio. Procederemo come al
solito suddividendo il nostro discorso in due direttrici: il
rapporto tra tecnologie ed economia e quello tra tecnologie e
politica.
Il rapporto tra lo sviluppo tecnologico e la sfera economica è
sempre stato una delle chiavi di lettura privilegiate dalle scienze
sociali al fine di comprendere e descrivere i sistemi sociali, e la
loro evoluzione storica. Certamente esso non esaurisce tutti gli
aspetti del problema, ma è un dato di fatto che ogni tappa dello
sviluppo che ha caratterizzato la società occidentale negli ultimi
due secoli è legata strettamente all'introduzione di grandi
innovazioni tecnologiche. A partire dalla macchina a vapore (che
ebbe un ruolo importante nella prima rivoluzione industriale) per
passare al treno, all'elettricità, all'automobile con il motore a
scoppio, alla radio, alla televisione, ogni nuova tecnologia ha
cambiato il modo di produrre ricchezza ed aperto nuovi mercati,
favorendo grandi cambiamenti sociali e profondi conflitti.
Oggi, con l'introduzione delle nuove tecnologie dell'informazione
e della comunicazione, ci troviamo nel pieno di una ennesima fase di
trasformazione: l'avvento dell'economia digitale, o più in
generale economia dell'immateriale. Quali ne sono i
caratteri, le potenzialità e i rischi? A queste domande abbozzeremo
alcune possibili risposte, nella speranza di suscitare in chi legge
lo stimolo ad andare oltre, poiché si tratta di temi che riguardano
già oggi la vita di ognuno di noi.
Altrettanto interessanti sono i fenomeni che si collocano
sull'asse del rapporto tra tecnologie e politica. Anche in questo
caso ci possiamo aspettare notevoli cambiamenti nel funzionamento
della politica e delle sue istituzioni. Non solo perché, come è
sempre avvenuto, l'economia influisce sulle forme politiche di una
società. Ma anche perché le nuove tecnologie della comunicazione
potrebbero modificare i meccanismi stessi della politica.
Ritroviamo ancora in questo campo i due poli della dialettica.
Alcuni entusiasti della rivoluzione digitale sostengono che siamo in
procinto di sviluppare un nuovo modello di rapporto tra cittadini e
istituzioni, un nuovo modello di democrazia. Ma non sono in pochi a
far notare i rischi impliciti in diversi aspetti questo cambiamento,
soprattutto se esso non è governato in modo consapevole. E tali
rischi si concentrano soprattutto sul timore di una società
iper-controllata, in cui un qualche potere centrale, grazie alle
possibilità delle nuove tecnologie, potrebbe divenire assai simile
a quel Grande Fratello immaginato con tanta arguzia da George Orwell
nel suo famoso romanzo 1984.
Se vi accade di sfogliare le pagine economiche dei giornali, o di
seguire qualche trasmissione televisiva che si occupa di temi
economici, troverete senza dubbio citata la parola globalizzazione.
Questa parola viene usata per riassumere una serie di fenomeni
che caratterizzano l'attuale sistema economico mondiale: la
internazionalizzazione dei mercati finanziari e la libertà di
movimento dei capitali; il decentramento e la delocalizzazione della
produzione di beni; lo sviluppo del commercio internazionale che
permette oggi una circolazione mondiale delle merci; la tendenza
delle grandi aziende a stabilire alleanze o fusioni internazionali.
In effetti, presi singolarmente alcuni di questi fenomeni non
sono del tutto nuovi. La tendenza a superare i confini nazionali ha
caratterizzato l'economia occidentale sin dalle origini dell'era
moderna (l'epoca che dalla fine del Trecento al Rinascimento ha
visto la nascita del primo capitalismo mercantile e della finanza) e
ha avuto una notevole accelerazione con lo sviluppo dell'economia
capitalistica, propiziato dalla prima rivoluzione industriale. E,
per venire ad epoche più recenti, l'estensione di alcune grandi
aziende manifatturiere al di fuori dei confini nazionali di origine
(la cosiddette multinazionali) si è verificato con crescente
frequenza sin dal secondo dopoguerra.
Tuttavia per lungo tempo la spinta alla internazionalizzazione è
stata determinata soprattutto dalla ricerca di nuovi mercati dove
acquisire a basso costo le materie prime e dove vendere i prodotti
in eccesso che non potevano essere assorbiti dai mercati nazionali.
Anche le grandi multinazionali operavano tenendo ben piantate le
radici nel paese d'origine (che nella gran parte dei casi erano gli
Stati Uniti)
La globalizzazione dell'economia cui stiamo assistendo oggi è un
fenomeno assai più vasto e complesso, sia dal punto di vista
quantitativo che da quello qualitativo. In primo luogo esso riguarda
tutti gli aspetti della sfera economica, dalla produzione e
circolazione delle merci alla finanza, ed investe tutti gli attori
dei processi economici, dai più piccoli ai più grandi.
Questo vuol dire, ad esempio, che una azienda che produce
automobili può quotarsi in borsa a Londra e Milano, costruire i
motori a san Paolo del Brasile, comprare i sedili in India,
assemblare e verniciare le auto a Torino e venderle in tutta Europa.
Che giovani e meno giovani di ogni angolo del pianeta, da Atlanta a
Nairobi, si dissetano con la medesima bibita: e non si tratta,
purtroppo, del nostro glorioso chinotto. Ma non possiamo dimenticare
che i giovani di New York vanno pazzi per i jeans di un produttore
marchigiano e che in tutto il pianeta si indossano maglie di un noto
marchio veneto che produce, fra l'altro in Turchia. O ancora, che un
grande investitore finanziario può decidere, una mattina, di
spostare quantità enormi di denaro dai titoli di stato di un Paese
del Sud Est Asiatico verso le borse europee.
In secondo luogo, la globalizzazione tende a far scomparire la
distinzione tra mercati nazionali e mercati internazionali,
producendo una serie di conseguenze anche sul piano politico, ed in
particolare su quello della politica economica. Per tutta la seconda
metà del secolo, infatti, l'importanza dei mercati interni ha
consegnato agli stati ed alla loro politica economica una leva di
controllo sui processi economici. Oggi questo controllo si va
riducendo sempre più, poiché gli scambi mercantili e finanziari
avvengono su una scala internazionale che sfugge all'azione diretta
dei singoli governi.
Insomma, con la globalizzazione i processi economici assumono una
estensione planetaria mai conseguita fino ad ora, varcando i confini
degli stati nazionali. Un tale sviluppo non avrebbe potuto avere
luogo senza lo sviluppo delle tecnologie della comunicazione e
dell'informazione. Grazie ad esse, infatti, oggi è possibile
controllare da Milano una fabbrica a San Paolo del Brasile; sapere
quante auto ha venduto la filiale di Sidney, e rifornirla in pochi
giorni; acquistare azioni alla borsa telematica di Wall Street e
vendere dollari a quella di Honk Kong.
Ma è tutto oro quel che luccica? In realtà alle grandi
opportunità di sviluppo economico aperte dalla globalizzazione si
affiancano una serie di conseguenze negative e di rischi potenziali.
La competizione su una scala così vasta, infatti, richiede dei
competitori di grosso calibro: assistiamo così, soprattutto nei
settori strategici, dove sono necessari grossi investimenti di
capitale, ad una serie di fusioni e acquisizioni che danno origine a
giganti mondiali i quali, a loro volta, rischiano di ricreare, su
scala globale, le stesse situazioni di oligopolio o addirittura di
monopolio di fatto che abbiamo conosciuto nel passato.
A questa concentrazione corrisponde peraltro una riduzione della
domanda di lavoro, e dunque il rischio di una crescente
disoccupazione industriale che non sempre viene riassorbita dalla
nascita di nuovi settori economici (come quelli dei servizi). Tutto
ciò mentre le aziende globali tendono a spostare i comparti
produttivi che richiedono la maggiore intensità di lavoro
(soprattutto lavoro a bassa qualifica) in paesi emergenti dove il
costo del lavoro è assai più contenuto rispetto ai paesi avanzati.
A questo si affiancano i rischi della globalizzazione
finanziaria, i cui effetti incontrollabili e potenzialmente
devastanti abbiamo vissuto più volte negli ultimi anni. Se alcuni
grandi investitori internazionali decidono, per qualsiasi motivo, di
spostare ingenti somme di capitale investite in una borsa o nei
titoli di stato di un paese, possono provocare in poco tempo il
crollo di una moneta ed accelerare la crisi di una economia
nazionale. Quanto è avvenuto nel sud est asiatico nel 1998, in
Messico qualche anno fa, ed anche la crisi della nostra moneta
vissuta nel 1992, rappresentano degli esempi paradigmatici di tali
pericoli. Nessuno è oggi in grado di controllare il flusso dei
capitali nei mercati, e questo ha fatto suonare molti campanelli di
allarme.
Il rapporto tra innovazione tecnologica e trasformazioni
economiche non riguarda solo la sfera della circolazione dei
prodotti e del denaro. Anzi, in una economia capitalistica è
soprattutto la produzione dei beni che vive in un costante rapporto
con lo sviluppo tecnologico, e che viene da esso periodicamente
rivoluzionata.
L'inizio di questo processo risale, come saprete, alla fine del
Settecento, quando l'introduzione delle macchine a vapore nelle
fabbriche di cotone diede l'avvio alla prima rivoluzione
industriale. Le macchine in una prima fase propiziarono la
concentrazione di molti lavoratori all'interno di un unico luogo in
cui effettuare la produzione, anche se non modificarono radicalmente
il modo di lavorare. Da piccoli artigiani i lavoratori divennero
prestatori d'opera salariati alle dipendenze di pochi proprietari
dei mezzi di produzione, ma il loro lavoro non subì effettivi
cambiamenti. Una volta conseguito lo stadio della concentrazione del
lavoro all'interno delle fabbriche, ebbe inizio un processo di
riorganizzazione del ciclo di produzione intorno ai macchinari.
Mentre prima ogni singola unità di prodotto era realizzata da un
solo operaio, ora scaturiva da una sequenza di attività
parcellizzate e ripetitive.
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Figura 1 - La macchina a vapore di
James Watt |
Una tappa fondamentale nella storia della organizzazione
capitalistica della produzione fu l'introduzione della catena di
montaggio, negli anni Venti del nostro secolo. Fu Henry Ford, il
proprietario di una piccola fabbrica di automobili, che ebbe l'idea
di razionalizzare ed automatizzare il ciclo di produzione
all'interno delle grandi fabbriche. Questa nuova organizzazione del
lavoro, che prese il nome di fordismo, ha profondamente
influito sullo sviluppo della nostra società. La catena di
montaggio rese possibile la produzione di massa, e con la
conseguente diminuzione del costo dei beni, il consumo di massa.
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Figura 2 - Linea di montaggio di una
fabbrica Ford |
Il fordismo ha caratterizzato sia l'economia capitalistica, sia,
sebbene in forme diverse, le economie produttive dei paesi del
socialismo reale fino alla metà degli anni settanta, quando esso
entrò in crisi per la concomitanza di numerosi fattori sia interni
(la sempre maggiore conflittualità degli operai e dunque la lotta
sui salari e sul tempo di lavoro), sia esterni (la crisi petrolifera
del 1973, la coeva crisi del dollaro, e la grande crisi economica
che ad esse conseguì).
In risposta a questa crisi, a partire dalla fine degli anni
settanta, assistiamo ad una ennesima fase di trasformazione della
produzione e del lavoro, propiziata da una massiccia introduzione
delle tecnologie informatiche. L'esito di questa fase, tuttora in
corso, non è univoco, e presenta caratteristiche diverse a seconda
dei paesi e dei comparti produttivi. Proprio a testimonianza di
questa complessità si è adottato il termine postfordismo
per indicare un insieme di innovazioni nell'organizzazione della
produzione, nei mercati e nella gestione finanziaria dei capitali,
la cui caratteristica unitaria più evidente è il superamento del
modello fordista.
Un primo aspetto del postfordismo è costituito dall'introduzione
dei computer nei processi produttivi e dalla conseguente automazione
di moltissime mansioni che precedentemente erano svolte dall'uomo.
Un simbolo eclatante di questa trasformazione sono i robot
industriali. Un robot è una specie di utensile che invece di essere
comandato da un operaio è controllato da un computer. E poiché
molta parte del lavoro in fabbrica è ripetitivo e non richiede
particolari abilità, i robot possono benissimo fare questi compiti
in modo efficiente e produttivo. La fabbrica diventa una specie di
grande sistema integrato in cui operai e robot computerizzati
cooperano per realizzare il compito di produrre i beni. Dove ieri si
muovevano presse e si usavano chiavi inglesi, oggi si interagisce
con una tastiera di computer.
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Figura 3 - Un robot industriale |
Ma la trasformazione nei processi produttivi non si è limitata
alla introduzione di macchine intelligenti in sostituzione del
lavoro umano. Forse più importante è il fatto che la produzione
diviene sempre più un processo basato sulla comunicazione. Sia il
controllo delle macchine, mediato dai computer, sia l'organizzazione
delle cooperazione tra i lavoratori, sia le relazioni tra i diversi
settori del processo produttivo richiedono una serie di attività
comunicative e relazionali. Laddove la fabbrica fordista aveva
separato l'intelligenza dalla prestazione lavorativa e segmentato
mansioni e funzioni, la fabbrica postfordista punta sulla
cooperazione comunicativa ed intelligente e sul coinvolgimento
cognitivo dei lavoratori nella produzione.
Una importante conseguenza di questa nuova organizzazione del
lavoro è la destrutturazione della grande fabbrica, simbolo
dell'era fordista e monumento tipico del secolo che si sta
chiudendo. Grazie ai sistemi di telecomunicazione molte attività
lavorative e di coordinamento possono essere erogate e controllate
in modo relativamente indipendente dallo spazio. La fabbrica
fordista richiedeva la vicinanza fisica dei vari reparti; la nuova
fabbrica può essere disseminata nel territorio, anche al di fuori
dei confini nazionali.
Ma la destrutturazione investe anche gli stessi assetti
aziendali. La produzione fordista dispiegava tutta la sua efficienza
se l'impresa integrava al suo interno l'intero ciclo produttivo,
dalla progettazione all'imballaggio del prodotto finito, ed anche
parti del processo di distribuzione delle merci. Con la produzione
postfordista questa struttura monolitica si rivela piuttosto una
causa di inefficienza. Al contrario, per una azienda è
economicamente vantaggioso affidare parti accessorie del processo
produttivo ad aziende esterne, di dimensione piccola o media, e
concentrare investimenti e forze produttive interne sui nodi
centrali della produzione, sulla progettazione, sulla
commercializzazione. Insomma, anche nella organizzazione aziendale
si diffonde quel modello di rete che sembra il paradigma della
nostra epoca.
Le
trasformazioni introdotte dalle nuove tecnologie non si limitano
all'automazione della produzione nei comparti produttivi
tradizionali. L'innovazione tecnologica, infatti, ha stimolato la
crescita di nuovi settori economici, dove si producono direttamente beni
immateriali. In questo caso non solo la prestazione lavorativa
diventa essenzialmente una attività intellettuale e comunicativa,
ma anche il prodotto è immediatamente un oggetto informazionale.
La diffusione della produzione immateriale è determinata da
moltissimi fattori. In primo luogo, la fabbrica postfordista
richiede sempre meno lavoro manuale e sempre più lavoro di
progettazione, di controllo, di comunicazione interna, tra i vari
settori di una azienda, ed esterna tre le aziende, il mercato e le
istituzioni. In secondo luogo l'evoluzione dei mercati nazionali ed
internazionali ha stimolato la nascita di nuove professioni legate
alla promozione delle merci, come la pubblicità ed il marketing. Ed
infine le nuove tecnologie hanno stimolato la nascita di settori
produttivi, come quello della comunicazione, dello spettacolo,
dell'informatica, dei servizi avanzati, in cui il ruolo
dell'attività intellettuale è dominate rispetto a quello
dell'attività manuale.
A ben vedere, non è che la produzione immateriale sia una
novità assoluta della nostra epoca. Sia l'industria editoriale sia
quella dello spettacolo hanno una storia almeno centenaria. Ma, come
più volte rilevato, le dimensioni quantitative e qualitative del
fenomeno sono decisamente nuove, specialmente nelle economie
avanzate occidentali.
Si calcola che attualmente la quota di lavoratori in Europa che
tratta informazioni sia valutabile nell'ordine del 50% della forza
lavoro, quota che sale al 60% per gli Stati Uniti. Inoltre circa
l'80% dei nuovi posti di lavoro si colloca in questa fascia di
attività lavorative. Simmetricamente, il volume di affari
sviluppato dall'economia dell'immateriale sta per sopravanzare
quello generato dai comparti tradizionali: si vendono informazioni,
idee o sogni più che automobili e lavatrici, e comunque questa
vendita rende molto di più. Basti pensare che negli Stati Uniti i
due settori economici più ricchi sono l'industria del software (e
non dell'hardware, si badi) e quella dello spettacolo.
Un fattore determinante nella crescita dell'economia
dell'immateriale è legato proprio alla natura qualitativa delle
recenti innovazioni tecnologiche, ed in particolare alla rivoluzione
digitale. Infatti, dove il lavoro consiste immediatamente nella
creazione e nella elaborazione di conoscenza ed informazione, la
digitalizzazione produce il massimo aumento di produttività
individuale e la massima riduzione dei costi di produzione e
distribuzione.
Fino ad ora ci siamo occupati delle trasformazioni economiche
avvenute negli ultimi decenni sotto la spinta dell'innovazione
tecnologica. Ma la rivoluzione digitale, ed in particolare la
diffusione planetaria della rete Internet, sta aprendo un nuovo
territorio di attività per gli operatori economici, che promette
una notevole espansione. Nel giro di pochi anni, infatti, intorno al
fenomeno Internet si sono concentrate una moltitudine di attività
commerciali e produttive, accompagnata da una ancora più vasta
campagna pubblicistica e promozionale.
Chiaramente i primi ad avere tratto vantaggi da questa esplosione
sono state le imprese "tradizionali" del settore:
produttori di hardware e software, in misura minore; gestori delle
infrastrutture delle telecomunicazioni, in misura maggiore. Accanto
ad esse hanno avuto una ottima performance anche i fornitori
di accesso alla rete, o provider, anche se in questo
settore si è verificata assai presto una fase di concentrazione,
con una conseguente riduzione del numero di competitori, ed una
parallela crescita del loro volume. Si tratta di un fenomeno ben
evidente negli Stati Uniti, dove America on Line, il maggiore
provider di accesso, raccoglie ormai oltre un terzo del mercato con
un giro di affari annuo pari a 2 miliardi di dollari, ed è stato
protagonista di importanti acquisizioni (tra cui quella di Netscape,
l'azienda che ha realizzato il noto Web
browser). Anche in Italia, tuttavia, la divisione della Telecom
che vende accesso alla rete, TIN, sembra orientata a creare una
posizione di predominio assoluto del mercato, riducendo lo spazio
per i tanti piccoli provider cresciuti negli ultimi anni in tutto il
territorio nazionale.
Ma le maggiori attese suscitate dallo "sfruttamento"
del fenomeno Internet sono legate allo sviluppo di una vera e
propria economia digitale, basata sulla fornitura di beni e servizi
interna, per così dire, al ciberspazio. Ci riferiamo in particolare
al commercio elettronico e alla fornitura di servizi on-line ad alto
valore aggiunto coniugata al marketing digitale.
Sotto molti punti di vista, la rete Internet è la migliore
concretizzazione dell'idea di mercato globale. Nel suo mondo
virtuale le distanze si annullano. Un eventuale "navigatore
compratore" dunque, in pochi secondi, con un semplice click
del mouse, può raggiungere un esercizio commerciale che si trova al
di là dell'oceano. E con pochi altri click può ordinare un
prodotto, e farselo recapitare direttamente a casa. Se poi il
prodotto acquistato non è un bene materiale, ma un oggetto
informativo e dunque immediatamente "digitalizzabile", la
consegna può essere effettuata direttamente attraverso il canale
telematico, riducendo a zero i tempi di attesa.
La prospettiva del commercio elettronico ha scatenato una vera e
propria corsa all'oro. Attirate dalla prospettiva di una marea di
compratori virtuali, moltissime aziende si sono tuffate nel
ciberspazio, sperimentando varie forme di vendita diretta on-line.
Le pagine multimediali del World Wide Web si sono dunque popolate di
cataloghi interattivi, che illustrano al potenziale acquirente le
caratteristiche di un prodotto, collegati a sistemi di gestione
delle transazioni economiche in rete.
Per procedere all'acquisto, generalmente la procedura è
abbastanza semplice ed automatica. Con un click su un
apposito pulsante si arriva ad un modulo di ordine, in cui vengono
richiesti i dati personali, l'indirizzo e le modalità di pagamento.
Attualmente il mezzo di pagamento più utilizzato nel commercio
elettronico è la di carta di credito, il cui numero viene inviato
direttamente on-line. Ma sono molto diffusi anche il pagamento
contrassegno alla consegna (naturalmente se il prodotto acquistato
è un oggetto materiale) o il bonifico bancario.
|
Figura 4 - Dettaglio
dell'interfaccia per l'acquisto in un negozio virtuale |
Dal punto di vista organizzativo, possiamo distinguere due
modelli di vendita on-line: vendita diretta da parte del produttore
e vendita mediata da distributori specializzati.
Nel primo caso viene saltata la mediazione tradizionale della
distribuzione. L'azienda produttrice si assume direttamente la
funzione di commercializzare on-line i suoi prodotti, aprendo un suo
negozio virtuale che le permette di entrare in contatto diretto con
i clienti consumatori. Questo modello, tuttavia, funziona solo se il
nome dell'azienda o il marchio commercializzato ha una sufficiente
penetrazione nel mercato, grazie alla posizione conquistata nella
distribuzione "materiale", o ad una notevole campagna di
promozione effettuata direttamente on-line o sui media tradizionali
(ad esempio riviste specializzate, etc.)
In alternativa alla vendita diretta da parte del produttore si
pongono i "centri commerciali virtuali", o cyber-mall.
In questo caso alcuni grossi gestori di siti specializzati nelle
vendita on-line forniscono alle aziende delle vetrine virtuali,
insieme al supporto per la gestione delle transazioni (procedura
complessa e delicata). I costi di promozione ricadono in questo caso
sui gestori del sito commerciale, che hanno l'interesse ad attirare
visitatori. Questo modello risulta vantaggioso per aziende piccole e
medie che non possono investire notevoli cifre nel marketing.
|
Figura 5 - Un noto sito di commercio
elettronico americano |
Che cosa si vende on-line? Di tutto: si va dai prodotti hardware
e software ai vini di qualità. Le statistiche aggiornate al 1998,
segnalano che i prodotti più venduti sono, alquanto
sorprendentemente, i libri, con 5 milioni e 600 mila acquirenti ed
un tasso di crescita superiore al 100 per cento. Ne è testimonianza
l'enorme successo delle librerie on-line, di cui diamo conto in una
delle schede. Ottimi livelli di vendita, poi, sono stati
raggiunti nel settore musicale e video, in quello dei capi di
abbigliamento (dove sono presenti tutte la maggiori firme della moda
mondiale), nel turismo, specialmente per quanto riguarda i viaggi
aerei. Naturalmente molto elevate sono anche le vendite di prodotti
informatici professionali e di intrattenimento. Il software,
inoltre, è uno pochi dei beni che può essere non solo acquisito
direttamente on-line, ma anche preso in prova prima di perfezionare
l'acquisto.
Ma quali sono le reali dimensioni del fenomeno commercio
elettronico, e le tendenze di sviluppo più attendibili? Nonostante
le forti attese, per il momento il volume di affari sviluppato dal
commercio elettronico (stimato in circa 95 miliardi di dollari nel
1999) ammonta ad una quota infinitesimale del commercio mondiale. E
l'abitudine all'acquisto on-line si concentra soprattutto negli
Stati Uniti. Ne ostacolano la diffusione diversi fattori. Prima di
tutto ci sono resistenze culturali e di costume: specialmente in
ambito europeo permane una forte attrazione verso lo shopping
tradizionale, che diviene anche una occasione di impiego del tempo
libero e di socializzazione (passeggiare tra le vetrine dei negozi
sommersi dalle buste con gli acquisti effettuati è uno degli svaghi
preferiti per moltissima gente).
Ma esiste anche un limite tecnico, che riguarda le modalità di
pagamento on-line. Attualmente il sistema più usato è quello della
carta di credito, come abbiamo visto. Sebbene la trasmissione via
Internet del numero di una carta sia ormai abbastanza sicura (i
rischi di frode per l'uso in rete sono infatti pari a quelli
dell'uso "normale"), tra la gente rimane una netta
diffidenza a rilasciare informazioni tanto preziose tra i meandri
della rete, infestati da diversi "predoni". Inoltre per
una spesa di poche migliaia di lire l'uso della carta di credito è
antieconomico. Infatti ogni transazione con carta di credito ha un
suo costo. Anche se questo costo è basso, su cifre molto piccole si
fa sentire. Ad esempio, se volessimo acquistare - per cento lire -
il diritto di consultare una singola pagina di giornale, l'uso della
carta di credito finirebbe per costarci di più del bene che
vogliamo acquistare.
Se i numeri attuali non sono esaltanti in termini assoluti, i
tassi di sviluppo attuali e previsti fanno pensare a una crescita
esponenziale per il prossimo futuro. Dal 1997 a 1998 si è
registrato un incremento di acquirenti medio pari al 100 %; nello
stesso anno le entrate sono salite del 72 %, mentre nel 99 la
crescita è stata del 150 % nel 1999. Secondo varie stime,
proseguendo con questi ritmi, il volume di affari nel il 2003
supererà la quota di 1200 miliardi di dollari (ma ci sono stime
anche più ottimistiche). Molte attese sono riposte non tanto nello
sviluppo del commercio al consumo (o come lo chiamano gli economisti
business-to-consumer), quanto nelle transazioni commerciali
tra aziende (il segmento business-to-business), che
ovviamente non soffrono di ostacoli culturali, e soprattutto possono
in questo modo ridurre i costi di vendita e soprattutto i tempi di
approvvigionamento (per la ditta acquirente) e consegna (per la
ditta fornitrice).
Quali che siano le reali dimensioni del commercio elettronico di
qui ai prossimi anni, la sua espansione globale pone comunque
numerose questioni di ordine legale e dunque politico. In primo
luogo vanno sviluppati dei sistemi di controlli e restrizioni per
alcune categorie di beni la cui vendita libera potrebbe avere
effetti dannosi: ad esempio le armi, ampiamente disponibili già
oggi su Internet; i farmaci; gli oggetti d'arte (che potrebbero
provenire da attività illecite); per non parlare di tutti i
prodotti illegali. In secondo luogo, occorre sviluppare un adeguato
sistema di garanzie per i consumatori, onde evitare il rischio di
truffe e raggiri. Ed infine va ripensato radicalmente il sistema
fiscale, sia per quanto riguarda la tassazione diretta dei proventi
(ad esempio: se io apro un negozio virtuale presso un provider
di uno dei vari paradisi fiscali sparsi nel mondo, posso comodamente
evadere le tasse senza per questo essere punibile agli effetti di
legge) sia per la tassazione indiretta al consumo (se io acquisto un
software prodotto a Taiwan presso in negozio virtuale americano e lo
uso in Italia, a chi va la quota di IVA compresa nel prezzo?).
Il secondo asse di sviluppo dell'economia digitale è costituito
dalla fornitura di servizi on-line. In questa categoria rientrano
una serie di iniziative commerciali on-line che potremmo dividere in
due classi.
- siti Web specializzati che forniscono informazioni e servizi
ad alto valore aggiunto ad una utenza professionale
- grandi e medi siti Web che forniscono contenuti e servizi ad
una utenza generica
Le iniziative del primo tipo traggono i loro profitti
direttamente dalla vendita delle informazioni o dei servizi. Esse
infatti si rivolgono ad una utenza che utilizza tali informazioni
per motivi professionali, ha bisogno di un alto livello di garanzia
sulla qualità ed efficienza del servizio, ed è per questo disposta
a pagare cifre anche considerevoli. Rientrano in questo gruppo i
siti di informazione finanziaria, con le quotazione delle borse e
gli andamenti delle aziende, e gli archivi normativi e legislativi.
Ma possiamo includervi anche le iniziative editoriali come quella
realizzata dall'Enciclopedia Britannica, che vende l'accesso on-line
alla versione digitale di suoi volumi; le agenzie di traduzione
on-line; e naturalmente le tradizionali agenzie giornalistiche. Dal
punto di vista dei pagamenti la formula più diffusa è
l'abbonamento periodico. D'altra parte per il momento non esistono
alternative valide. Infatti, come abbiamo già rilevato, i mezzi di
pagamento on-line, basati su transazioni bancarie o carte di
credito, hanno dei costi fissi che li rendono antieconomici nella
vendita di beni o servizi con costi unitari molto bassi, come le
singole informazioni di una banca dati.
Il secondo gruppo di iniziative che abbiamo individuato è
costituito da una serie di siti, di varia natura, che si rivolgono
ad una utenza generica, e che riescono ad avere un elevato numero di
visitatori al giorno (fina a diverse decine di milioni). Tuttavia,
questo tipo di navigatori (i quali, per inciso, in parte coincidono
con i navigatori professionali che usano la rete al di fuori del
contesto lavorativo) non sono propensi a pagare, almeno per ora,
l'accesso a servizi e informazioni che in genere possono trovare
gratuitamente sulla rete. La fonte dei profitti, dunque, in questo
caso non è la vendita diretta dell'acceso, bensì la cessione di
spazi pubblicitari, secondo un modello ereditato dall'esperienza
televisiva.
L'enorme diffusione delle rete, infatti, ha creato un pubblico
potenziale vastissimo e, date le caratteristiche sociologiche (gli
utenti di Internet sono in prevalenza di estrazione sociale medio
alta e con livelli di istruzione elevati), propenso al consumo. In
questo contesto un sito che genera milioni di contatti al giorno
rappresenta una ottima tribuna per affiggere una sorta di manifesto
pubblicitario virtuale, che in gergo viene definito banner.
Di norma si tratta di immagini pubblicitarie che, sfruttando le capacità
ipertestuali del Web, fungono anche da collegamenti attivi ai
siti dei marchi o delle aziende pubblicizzate.
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Figura 6 - La home page di Lycos |
Le caratteristiche della comunicazione pubblicitarie in rete, e
le prospettive di sviluppo del suo mercato, hanno attirato una
grande attenzione negli ultimi anni, suscitando numerosi dibattiti e
stimolando pubblicazioni e ricerche di mercato. Il problema più
controverso riguarda l'effettiva efficacia del messaggio
pubblicitario, il reale ritorno in termini di immagine e di vendite,
ed il conseguente prezzo degli spazi pubblicitari messi in vendita
dai siti concessionari.
In generale tale valore, come per la televisione, viene calcolato
in base al numero di visitatori che accedono a una certa pagina.
Tuttavia calcolare effettivamente questo numero per le pagine Web è
alquanto complesso. I sistemi di registrazione più comuni infatti
si basano sul numero di richieste che un server Web riceve. Ma di
norma una singola pagina
Web è composta da tanti diversi file (file HTML, file grafici,
eventuali plug-in o applet
Java) che generano altrettante richieste al server. Dunque il
numero di richieste è sempre maggiore del numero effettivo di
visitatori. Ma anche ammesso che si tenga conto di questo
particolare, il solo computo degli accessi non è in grado di dire
quanto a lungo un utente si sofferma su una pagina, quali parti
esamina, dove ripone la sua attenzione. Una pagina Web non ha lo
stesso potere di seduzione, o se volete di coercizione,
dell'immagine televisiva. Per questa ragione sono stati proposti
altri sistemi di calcolo dell'efficacia e dunque del costo di un
messaggio pubblicitario on-line. Un indicatore molto utile, ad
esempio, è il cosiddetto click-trough, cioè il calcolo del
numero di utenti che "cliccano" sul banner per
raggiungere il sito pubblicizzato.
Non seguiremo oltre gli esperti di marketing e pubblicità
virtuale per i meandri delle loro elucubrazioni. In effetti, ci
pare, queste discussioni, ancorché stimolate da materialissimi
interessi, denotano un certa attitudine conservatrice rispetto alle
potenzialità di un medium innovativo come la rete. La pubblicità
sulla rete, infatti, piuttosto che riprodurre i medesimi meccanismi
di quella televisiva, dovrebbe sfruttare meglio le potenzialità, in
termini di approfondimento del messaggio, di interattività, di
personalizzazione che essa consente. E d'altra parte gli utenti di
Internet, anche i meno esperti e smaliziati, si rivolgono alla rete
proprio per queste sue caratteristiche. Proporre loro una semplice
versione digitale delle affissioni stradali, collegate a piatte
brochure promozionali con su scritto "siamo i migliori", o
a un classico volantino pubblicitario, serve a poco. La promozione
sul Web, oltre ad essere presentata in modo graficamente
accattivante, deve essere anche o soprattutto informazione.
Informazione completa e dettagliata, articolata in modo da
facilitare la navigazione al suo interno, e in grado di fornire al
potenziale compratore tutti i dati che possono essergli utili ad
effettuare una scelta ragionata.
Ma quali sono i siti più gettonati, e dunque più pagati dal
mercato pubblicitario? Tra i grandi siti "concentratori"
di utenti, dominano il mercato i siti che forniscono strumenti di ricerca
delle informazioni. La grande varietà di informazioni
disponibili su World Wide Web, e la conseguente difficoltà nel
reperimento dell'informazione desiderata, attira sui vari motori di
ricerca e cataloghi sistematici on-line milioni di contatti al
giorno. Grazie a questo enorme successo di pubblico, alcuni dei più
noti motori
di ricerca (come Yahoo
,
Lycos ,
Infoseek
ed Excite
)
si sono rivelati delle vere e proprie miniere d'oro.
Molto frequentati sono anche i siti realizzati dai vari provider,
che si assicurano i contatti quotidiani di buona parte dei loro
utenti, e le cosiddette "comunità
virtuali". Sono questi ultimi siti che offrono agli utenti
forum di discussione e spazi gratuiti per la creazioni di pagine Web
personali: tra i più noti ricordiamo la storica The Well (http://www.thewell.com
),
e Geocities (http://www.geocities.com
).
Ci sono poi una serie di siti informativi specializzati in
particolari ambiti tematici, che si rivolgono pertanto ad un'utenza
più circoscritta ma proprio per questo più selezionata e fedele.
Questo garantisce, almeno in teoria, una maggiore efficacia dei
messaggi promozionali, che si rivolgono ad un pubblico
presumibilmente più recettivo.
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Figura 7 - La home page di Geocities |
Un discorso a parte va fatto per i siti informativi generali.
Superata una prima fase di diffidenza, la maggior parte delle
testate giornalistiche e televisive internazionali hanno iniziato ad
investire sulla rete, creando siti Web in cui riversare del tutto o
in parte i contenuti dei loro giornali e notiziari. In alcuni casi
sono stati fatti dei veri e propri giornali on-line, diversi dalle
versioni originali, ma proprio per questo decisamente interessanti.
Non possiamo nemmeno pensare di far un elenco di tali siti in questa
sede. Ma non mancheremo di ricordare che tra essi spiccano per
qualità e livello di sperimentazione anche alcune testate italiane.
In una prima fase l'obiettivo degli editori è stato la vendita
diretta del giornale on-line. Tuttavia ben presto ci si è resi
conto che presso gli utenti l'idea di pagare le informazioni in un
mondo in cui lo scambio gratuito è ancora prevalente non è
particolarmente apprezzata. Dopo alcuni tentavi di varie testate, ed
alcuni grandi fallimenti finanziari, anche molti siti giornalistici
si sono rivolti al meccanismo della rendita pubblicitaria.
Naturalmente non è detto che il futuro non possa portare una
progressiva mutazione delle attitudini del popolo di Internet. Ma
affinché questo avvenga sarà necessario lo sviluppo di forme di
pagamento che rendano conveniente acquistare un quotidiano, o
persino un singolo articolo di un quotidiano direttamente on-line.
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Figura 8 - Hotwired, una nota rivista
on-line |
La forte concorrenza nell'accaparrarsi le risorse del mercato
pubblicitario, ed il tentativo di aumentare a un tempo sia il numero
sia la fedeltà degli utenti (e di conseguenza il valore degli spazi
pubblicitari), ha portato recentemente alla elaborazione di una
nuova forma di sito concentratore: il portal. Nel concetto di
portal convergono l'idea di motore di ricerca, di comunità
virtuale, di sito informativo specializzato o generale, di negozio
virtuale. Offrendo all'interno di in un unico sito tutti i servizi
che generalmente devono essere rintracciati in molti siti sparsi
sulla rete, e rivestendo il tutto con una interfaccia semplice ed
accattivante, si tenta di catturare l'utente, e di concentrare la
maggior parte del tempo di stazionamento on-line dentro i confini
del portal. Si tratta insomma di una sorta di fusione tra la
logica interattiva delle rete e quella centralizzata del broadcasting
televisivo.
Ad incentivare ulteriormente gli utenti ad utilizzare un portal
come punto di partenza fisso delle loro navigazioni sulla rete (e
possibilmente anche di arrivo), i vari gestori stanno iniziando a
fornire anche una serie di servizi avanzati, come la posta
elettronica basata sul Web, e persino l'accesso ad operazioni sui
conti bancari ed il pagamento delle bollette.
Quella dei portal è attualmente l'arena in cui si stanno
combattendo le più grandi battaglie tra i protagonisti
dell'economia digitale. Motori di ricerca, importanti siti
giornalistici, grandi provider e giganti del software si sono
affrettati ad investire miliardi di dollari in questo settore,
promuovendo accordi e fusioni. Resta da vedere se gli utenti della
rete saranno disposti ad abbandonare la navigazione di altro mare
per accontentarsi di fare gite in canotto dentro riparate baie
virtuali!
Quando abbiamo analizzato le cause che limitano la diffusione di
massa del commercio elettronico, abbiamo menzionato il problema dei
mezzi di pagamento. Un problema, abbiamo visto, che ostacola anche
la vendita di servizi ed informazioni on-line. Va detto che, dal
punto di vista della sicurezza, gli ostacoli sono dovuti più alla
diffidenza dei consumatori a rilasciare sulla rete il numero della
propria carta di credito, che a vere proprie cause tecniche.
Infatti, la riservatezza delle transazioni elettroniche mediante
carta di credito è oggi quasi assoluta, grazie allo sviluppo di
protocolli di comunicazione sicuri, basati su complicatissimi
sistemi di cifratura dei dati.
Il vero problema è che la carta di credito, almeno nella
situazione attuale, non è lo strumento ideale per ogni tipo di
acquisto. In primo luogo, come si è già accennato, ogni
transazione attraverso carta di credito ha un certo costo. Questo
costo è abbastanza basso da poter essere trascurato quando la spesa
è di una certa entità. Ma nel caso di "micro-acquisti"
che hanno prezzi unitari molto bassi (ad esempio una pagina di un
giornale on-line, o le quotazioni di borsa di una data azienda), la
situazione cambia radicalmente. In secondo luogo, ogni acquisto con
carta di credito viene esplicitamente registrato ed archiviato, come
ogni utilizzo di carte bancomat. Un uso estensivo della carta di
credito, e di ogni tipo di carta basata sulla registrazione delle
transazioni, potrebbe portare alla creazione di banche dati in cui
sono memorizzati, sub specie di acquisti e spese sostenute, i
gusti, i desideri le abitudini, gli orientamenti culturali,
ideologici e sessuali di ogni cittadino consumatore. Vi renderete
conto di quale rischio ciò possa costituire per la privacy.
Per ovviare a tutti questi problemi è stata proposta da più
parti l'adozione di una vera e propria moneta elettronica. Al
pari di una moneta reale, essa sarebbe divisa in vari tagli e
soprattutto sarebbe del tutto anonima: se guardate mille lire (o tra
qualche tempo un euro) non ci troverete scritto chi le ha
possedute. Naturalmente le monete elettroniche, invece che di
metallo o di carta filigranata, consisterebbero di codici numerici,
gestiti mediante software capaci di offrire tutte le garanzie di
sicurezza del caso.
Diverse tecnologie sono state proposte in questo campo. Alcune
sono orientate ad un utilizzo esclusivo sulla rete. Un esempio è la
E-cash, una forma di moneta elettronica ideata dall'olandese
David Chaum. Il funzionamento è semplice: per utilizzare E-cash, è
necessario aprire un conto presso una delle banche autorizzate a
coniare questa particolare 'moneta' elettronica. Ovviamente il
versamento iniziale andrà fatto in un una valuta reale, attraverso
assegni, bonifici, contanti, o carta di credito.
Una volta aperto un conto è possibile ritirare presso la banca
emittente, o altri siti autorizzati, una sorta di portafogli
elettronico, ovvero un programma capace di gestire i codici numerici
che corrispondono alle nostre monete, opportunamente
"caricato". Una complessa procedura di cifratura dei dati
garantisce l'autenticità e l'unicità di ogni singolo "codice
moneta", e al contempo rende impossibile risalire al suo
proprietario (a meno che egli non lo voglia). Essa ha una funzione
per certi versi simile a quella della filigrana delle banconote:
senza possederne la chiave, è impossibile contraffarla.
A questo punto è possibile collegarsi a siti convenzionati e
fare acquisti. Quando si effettua una transazione il nostro
programma borsellino comunica con quello del venditore, e
trasferisce i codici per un ammontare pari al prezzo da pagare.
Naturalmente, oltre a spendere possiamo anche incassare, ricevendo
moneta E-cash da altri utenti privati. Chi è in possesso di monete
virtuali, ad esempio il venditore on-line, quando vuole può
rivolgersi alla banca, e convertirle in valuta reale. In tal modo,
molte piccole transazioni vengono ridotte, dal punto di vista della
gestione di valuta 'reale', a poche grandi transazioni: il nostro
versamento iniziale, che sarà presumibilmente di una certa entità
(lo stesso varrà per quelli successivi eventualmente necessari per
mantenere 'coperto' il conto), e le periodiche compensazioni fra le
banche e i venditori, che riguarderanno cifre più alte.
Altri sistemi di moneta elettronica, pur adottando una
architettura simile a questa, prevedono anche la possibilità di
trasferire delle cifre di denaro su apposite smart-card,
carte cioè dotate di microchip che possono registrare dati e
programmi. In questo modo potremo usare il contante digitale anche
nei negozi reali per acquistare il latte, il caffè o il giornale.
Secondo gli ottimisti, entro pochi anni la moneta digitale
sostituirà completamente il denaro contante, anche nei pagamenti
reali. Per ora, tuttavia, la moneta elettronica ha trovato
applicazioni solo nel corso di sperimentazioni, o nell'ambito di
contesti chiusi come alcuni college universitari americani o il
villaggio olimpico di Atlanta durante le olimpiadi del 1996.
Infatti, al di là delle problematiche tecniche, la moneta
elettronica solleva moltissimi problemi di ordine legislativo,
economico, finanziario, fiscale e politico che ne complicano la
reale applicazione. In primo luogo, il diritto di battere moneta e
di controllare la massa monetaria circolante è una delle
prerogative che, per definizione, spettano agli Stati, i quali lo
esercitano in genere attraverso le banche centrali. È proprio
l'autorità e le credibilità dello Stato che garantisce sul valore
delle banconote circolanti, da quando la convertibilità in oro è
stata del tutto abbandonata.
Che cosa avviene nel momento in cui un soggetto privato è in
grado di battere moneta, ancorché elettronica? La moneta
elettronica costituisce o no una forma di valuta? In caso positivo
è evidente che uno dei fondamenti della sovranità statale moderna
viene meno. Si badi, non è detto che questo sia un problema in
assoluto. Basti pensare che negli Stati Uniti il monopolio sulla
zecca è stato stabilito solo nella seconda metà del secolo scorso,
e che prima di allora ogni banca aveva la possibilità di emettere
banconote. Ma furono proprio i problemi di instabilità del valore
delle varie monete e di insolvenza delle piccole banche periferiche
determinati da questa forma estrema di liberismo a convincere il
governo federale che fosse necessaria una centralizzazione.
Se oggi si ripetesse l'esperimento su scala mondiale, quali
conseguenze si avrebbero sulla stabilità dei cambi? Come
controllare la circolazione, e soprattutto i trasferimenti
attraverso i confini nazionali (resi così facili dal carattere 'deterritorializzato'
di Internet) di monete elettroniche che non lasciano tracce del loro
spostamento, a differenza delle transazioni attuali? Una moneta
elettronica anonima e pienamente convertibile potrebbe essere uno
strumento ideale per il riciclaggio del 'denaro sporco', e
permetterebbe a chiunque di sottrarsi al fisco. Infatti, basterebbe
insediare una azienda in uno dei tanti paradisi fiscali e utilizzare
come mezzo di pagamento una moneta elettronica coniata da una banca off
shore (una banca cioè, abilitata ad effettuare operazioni in
qualsiasi valuta) per eludere legalmente qualsiasi forma di
imposizione fiscale. Inoltre, prima di basare la circolazione
economica su una o più valute elettroniche, bisognerà avere una
sicurezza quasi assoluta circa la effettiva solidità degli
algoritmi di cifratura e la sicurezza delle procedure di
trasferimento usate. D'altra parte, se per evitare i rischi
determinati da una valuta anonima si accettasse una qualche forma di
controllo sulle transazioni, i rischi di invasione della privacy
sarebbero enormi. Nessuno stato totalitario mai esistito finora ha
mai avuto un controllo così profondo e dettagliato sulla vita dei
suoi cittadini.
Come abbiamo visto, dunque, la moneta elettronica solleva
problemi di estrema complessità. Si tratta però di temi
fondamentali per lo sviluppo di Internet come strumento per
transazioni commerciali, e attorno ai quali si muovono interessi
enormi, economici ma anche politici e strategici. Un campo che nei
prossimi anni dovrà essere seguito da ognuno di noi non solo per
curiosità o per interesse specifico, ma anche perché su di esso si
giocheranno partite decisive per la forma della nostra economia, e
quindi anche per lo sviluppo della nostra società.
I beni, materiali o immateriali che siano, non sono l'unica cosa
che può essere scambiata attraverso una rete telematica. A ben
vedere, la compravendita di azioni e di valuta è, tra tutte le
attività economiche, quella che si presta in modo
"naturale" alla digitalizzazione. Se ci riflettiamo
infatti, nelle transazioni finanziarie ad essere scambiati non sono
oggetti fisici, ma informazioni: informazioni circa il possesso di
valuta, titoli azionari ed obbligazioni. E da tempo, ormai, le
grandi banche regolano i loro rapporti economici attraverso lo
scambio di scritture contabili anziché di valuta reale. È
dunque naturale che l'uso della telematica in questo settore risulti
conveniente ed efficiente.
In effetti, già da alcuni anni le maggiori borse valori del
mondo hanno compiuto il "salto nel ciberspazio",
consegnando l'immagine degli agenti che si affollano lanciando
"grida" per vendere e comperare azioni alla memoria del
passato (vedi filmato).
Ormai la maggior parte del valore che quotidianamente si scambia in
queste borse transita tra i titoli dei listini telematici, a cui si
accede a distanza mediante terminali e computer. Tuttavia le reti
telematiche delle borse sono reti private e specializzate, a cui
hanno accesso soltanto gli operatori professionisti, i cosiddetti broker,
le società di intermediazione finanziaria e i gestori dei fondi di
investimento. Fino a poco tempo fa, dunque, l'investitore privato
doveva rivolgersi agli intermediari per effettuare le sue
operazioni, piccole o grandi che fossero. Ma anche in questo settore
Internet ha portato dei profondi cambiamenti.
Negli ultimi due anni, infatti, sulla rete sono comparsi diversi
siti che offrono servizi di acquisto, gestione e vendita on-line di
azioni e partecipazioni finanziarie direttamente agli utenti finali.
Questi servizi permettono a chiunque di operare in qualsiasi borsa
del mondo. Infatti l'acquisto e la vendita di azioni sono
estremamente semplici, ed al navigatore investitore vengono fornite
tutte le informazioni necessarie ad orientarsi in mercati poco
conosciuti. Ma soprattutto, a causa della vera e propria guerra
ingaggiata da questi siti per aggiudicarsi il maggior numero di
utenti, i costi di gestione e le soglie minime di investimento sono
veramente minime: con cinquanta dollari si può diventare finanzieri
internazionali.
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Figura 9 - E*trade, uno dei più
noti siti di compravendita azioni on-line |
In pochissimo tempo questi servizi hanno avuta una crescita
enorme, e oggi una parte non piccola (ma di fatto difficilmente
calcolabile) delle transazioni di borsa passa attraverso Internet.
Si calcolano una media di 440 mila transazioni al giorno, con un
popolo di investitori on-line che si aggira intorno ai cinque
milioni di persone. Si prevede che alla fine del '99 toccherà i
dieci milioni, per arrivare nel 2001 a 12.7 milioni
Gli effetti di questa rivoluzione cominciano già a farsi vedere,
anche se per il momento solo come tendenze. In una situazione in cui
gli investimenti possono essere condotti da chiunque, da casa, a
costi estremamente bassi, e la possibilità di seguire l'andamento
dei titoli è garantita in tempo reale dalla rete, il mercato
finanziario è destinato a subire grandi cambiamenti. In primo luogo
la velocità e soprattutto la durata degli investimenti e dei
disinvestimenti è destinata a ridursi drasticamente. Chiunque è in
grado di sfruttare le fluttuazioni di mercato comprando ad esempio
azioni IBM per venti minuti, per poi rivenderle e investire magari
in azioni Coca Cola. In secondo luogo, poiché l'ammontare dei
singoli investimenti può essere assai basso, aumenta la tendenza al
rischio dei piccoli investitori, che cifre ben più consistenti
scoraggerebbero. In terzo luogo la globalizzazione dei mercati
finanziari si estende anche a livello dei singoli investitori: come
si è accennato, è possibile investire indifferentemente, a costi
analoghi e seguendo le stesse procedure, sulla borsa di New York
come su quella di Tokyo, a Milano come a Francoforte. Ed infine la
grande massa di piccoli investitori che entra nel mercato senza la
mediazione dei broker professionisti o delle società di
intermediazione, introduce nei mercati una variabile sconosciuta ed
incontrollabile. Si parla comunemente di "gioco di borsa":
ebbene, i punti di contatto fra investimenti finanziari di questo
tipo e un vero e proprio gioco d'azzardo sono effettivamente
notevoli.
Ci si può facilmente rendere conto che questi cambiamenti
potranno determinare notevoli problemi di stabilità dei mercati, la
cui soluzione sarà assai difficile. Già oggi, in un mercato
internazionale dominato da pochi ed esperti grandi investitori, si
sono verificati più volte improvvisi crolli di borse e valute, che
in breve tempo si ripercuotono, con un cosiddetto "effetto
domino", su tutti mercati finanziari, senza che nessuno sia in
grado di arginarne gli effetti. Ci si può immaginare che cosa può
accedere in un mercato in cui opera una massa di piccoli investitori
il cui comportamento (influenzato da singoli avvenimenti, voci, mode
del momento...) sarà non solo incontrollabile ma anche
imprevedibile. Le grandi istituzioni nazionali ed internazionali che
tradizionalmente hanno assunto il ruolo di gestire ed equilibrare i
mercati sono dunque chiamate ad un importante opera di
regolamentazione, per evitare che l'economia mondiale, e con essa il
destino di milioni di uomini e donne, sia appesa all'andamento di un
gigantesco casinò.
Se
il rapporto tra le nuove tecnologie e l'economia ci propone molti
interessanti temi di riflessione, quello con la politica non è meno
importante. Uno dei fondamenti di uno Stato democratico infatti è
la comunicazione. Comunicazione tra istituzioni ed associazioni
politiche e cittadini, comunicazione delle varie istituzioni tra
loro.
Affinché una democrazia funzioni, infatti, è vitale che la
sfera delle istituzioni politiche non sia percepita dai cittadini
come un corpo separato, dai comportamenti incomprensibili e
imprevedibili. Non a caso i Romani chiamavano lo Stato res
publica, cosa che appartiene al popolo. Con lo Stato deve essere
possibile comunicare e interagire attraverso strumenti efficaci e
accessibili a tutti. E lo stesso vale per quanto riguarda i rapporti
tra i cittadini e le associazioni mediatrici della rappresentanza,
che negli Stati democratici assumono la forma di partiti. Solo una
comunicazione trasparente, infatti, garantisce la possibilità di
scegliere i propri rappresentanti in maniera consapevole e
informata, di controllarne e indirizzarne l'attività, e, più in
generale, di esercitare liberamente e responsabilmente i propri
diritti di partecipazione alla formazione della volontà generale.
Altrettanto importante ai fini del buon andamento di una
democrazia è l'efficienza con cui i vari corpi ed istituti dello
stato si scambiano informazioni e direttive, specialmente in una
società complessa e sempre più difficilmente governabile come la
nostra.
Dati questi assunti generali, è facile capire come le tecnologie
della comunicazione possano svolgere un ruolo essenziale nelle
moderne società democratiche. E d'altra parte, ci si rende conto di
come le intrinseche caratteristiche comunicative di un determinato
medium possano influire sui meccanismi stessi della vita
democratica.
Esemplare a questo riguardo è il dibattito che si è scatenato
intorno al rapporto tra politica e televisione. A partire dalla
metà del nostro secolo essa ha assunto un ruolo sempre più
importante nella comunicazione
politica. Oggi la televisione costituisce senza dubbio il medium
più influente in questo settore, avendo scalzato da tale ruolo sia
la stampa (che sin dal settecento aveva contribuito notevolmente
alla costituzione della "opinione pubblica" e dunque alla
formazione di una coscienza politica diffusa), sia, soprattutto, la
comunicazione interpersonale nei luoghi intermedi della
partecipazione politica (come le sezioni di partito, le assemblee
nei posti di lavoro, i comizi).
Come sappiamo (vedi dispense sei
e sette),
la televisione si basa su un modello comunicativo verticale ed
unidirezionale, e i suoi messaggi sono dotati di una notevole
capacità persuasiva. Ne consegue che la comunicazione politica
mediata dalla televisione limita la facoltà di controllare e
criticare i messaggi e soprattutto non consente la partecipazione
dei cittadini al discorso politico. Non a caso sono molti a
lamentare i possibili effetti antidemocratici di una completa "virtualizzazione
televisiva" della comunicazione politica. D'altra parte occorre
rilevare come un uso corretto e trasparente della televisione
potrebbe rappresentare un importante fattore di trasparenza, e di
fatto questo avviene, seppure in modo saltuario.
Se la televisione rappresenta ad oggi il medium più utilizzato
nella comunicazione politica, con tutti i rischi che ne derivano,
Internet potrebbe rappresentare l'alternativa del prossimo futuro.
La natura reticolare ed interattiva della comunicazione in rete,
infatti, potrebbe ricostruire il tessuto della comunicazione
dialettica, che è alla base di un corretto funzionamento della
politica. Con questo intendiamo dire che la rete da una parte si
presta a fornire nelle mani delle istituzioni e delle associazioni
politiche un formidabile strumento per veicolare informazioni verso
i cittadini; ma dall'altra permette la riattivazione del processo
inverso, ovvero la partecipazione attiva dei cittadini al dibattito
politico ed alla formazione degli indirizzi e degli orientamenti
politici sia nelle istituzioni che nei partiti. Strumenti come i gruppi
di discussione e le comunità
virtuali sul Web possono diventare i nuovi luoghi della
partecipazione, in cui cittadini manifestano le loro opinione e
contribuiscono alla determinazione della volontà generale, pur con
i limiti ei problemi di cui parleremo tra breve.
Bisogna dire che, se le speranze e le aspettative suscitate da
Internet sono molto ambiziose, la realtà attuale della politica in
rete è un po' meno brillante. E questo non tanto dal punto di vista
quantitativo: dopo una prima fase di diffidenza, infatti, le
istituzioni e le associazioni politiche di molti paesi occidentali
sembrano avere percepito le possibilità innovative offerte dalla
comunicazione telematica. Ma piuttosto da quello qualitativo: da una
analisi dei siti politici realizzati finora, infatti, emerge la
persistenza di un modello di comunicazione verticale ed
unidirezionale, che nei siti istituzionali si affianca ad una
limitata utilizzazione delle potenzialità della rete per fornire
servizi effettivi ai cittadini.
Ci accorgiamo insomma, che la "comunicazione zoppa" che
caratterizza la politica contemporanea sembra essere in qualche modo
connaturata al sistema politico in sé ed ai suoi attuali
protagonisti, piuttosto che alle caratteristiche dei media con cui
viene effettuata. E che un cambiamento di questo stato di cose,
oltre che di nuovi e più interattivi strumenti di comunicazione
(che oggi esistono), ha bisogno di un cambiamento di cultura
politica.
La disponibilità di tecnologie capaci di collegare in tempo
reale il cittadino con le varie strutture politiche, sebbene usate
in modo parziale, rappresenta sicuramente un grande passo avanti, se
non altro nella trasparenza della comunicazione politica.
Ma il dibattito sul rapporto tra nuove tecnologie e politica non
si è fermato a questo punto. Se è vero che le tecnologie sono un
agente di trasformazione radicale degli assetti sociali, allora,
sostengono in molti, dobbiamo aspettarci grandi trasformazioni nella
forma stessa della democrazia. Ma quale tipo di democrazia sarà
questa democrazia virtuale ventura? E non c'è piuttosto il
rischio che la democrazia virtuale si riveli una pericolosa
illusione che nasconde un nuovo e tecnologico totalitarismo?
Il paradigma che sta alla base di tutte le discussioni sulla
democrazia virtuale prende le mosse dalla classica opposizione tra
il modello della democrazia rappresentativa e quello della
democrazia diretta, formulata con grande chiarezza da Jean Jacques
Rousseau, e da allora tornata più volte nella teoria politica
occidentale.
In una democrazia rappresentativa i cittadini eleggono
periodicamente dei rappresentati, che esercitano il potere per loro
conto, attraverso le istituzioni del parlamento e del governo, senza
alcun vincolo di mandato. Se i cittadini non sono soddisfatti del
loro operato, possono decidere di cambiarli alla successiva
elezione, ma non hanno un limitato potere effettivo di incidere
sulle loro scelte, e non hanno il potere di revocare il mandato. In
compenso, il luogo della rappresentanza diventa anche il luogo della
mediazione politica,
grazie alla quale esigenze ed interessi diversi (e possibilmente
particolaristici o corporativi) vengono (almeno in teoria)
armonizzati alla luce dell'interesse generale.
La democrazia diretta, invece, si basa sulla partecipazione
diretta dei cittadini alle decisioni collettive: è infatti
l'assemblea del popolo che esercita il potere. In casi eccezionali o
per motivi di efficienza, la democrazia diretta prevede l'elezione
di rappresentanti, che però agiscono con un vincolo di mandato e
sono revocabili in qualsiasi momento. Il più noto esempio storico
di democrazia diretta istituzionalizzata che conosciamo è quella
della antica Atene, dove i cittadini si riunivano periodicamente
nella agorà, la piazza, e
decidevano le leggi. Ma alcuni brevi esperienze sono state
realizzate anche in epoca moderna, ad esempio nella Comune di Parigi
e nei primi mesi della Rivoluzione di Ottobre.
Una democrazia diretta come quella ateniese è ovviamente
impraticabile nei grandi stati nazionali che la storia ci ha
consegnato, per evidenti motivi logistici ed organizzativi. In
effetti, tutte le moderne democrazie si basano sul modello
rappresentativo. Ebbene, i fautori della democrazia virtuale
sostengono che gli strumenti telematici permetterebbero finalmente
di realizzare una vera democrazia diretta anche su vasta scala. Essi
immaginano un regime di formazione della volontà generale
fortemente partecipativo, nel quale ogni decisione politica dovrebbe
essere sottoposta ad una consultazione referendaria, da svolgersi
mediante terminali telematici. La democrazia virtuale prefigura
dunque una situazione di "referendum permanente".
Al facile ottimismo che in varia forma si manifesta nelle
affermazioni dei teorici della democrazia elettronica, si oppone una
fitta schiera di critici le cui argomentazioni non sono prive di
rilievo. Infatti la democrazia diretta telematica, facendo a meno
degli istituti della mediazione e della rappresentanza politica,
potrebbe dare luogo ad un rapporto diretto tra governante e
governato. La partecipazione popolare si ridurrebbe così ad una
sorta di sondaggio elettronico. Se poi si pensa alla grande
influenza che mezzi di comunicazione hanno nella determinazione
della opinione pubblica, ci rendiamo conto che la destabilizzazione
dell'equilibrio tra forme e istituzioni della politica può
generare gravi distorsioni della stessa democrazia, indirizzandola
verso forme pericolose di "tecno-populismo". Dalla democrazia
diretta si passerebbe alla democrazia plebiscitaria, che è l'anticamera
della tirannide (come d'altronde gli stessi Platone ed Aristotele
avevano a loro tempo rilevato).
Un aspetto dell'impatto politico-sociale delle tecnologie
informatiche strettamente connesso con le discussioni sulla
democrazia cui abbiamo accennato nel paragrafo precedente è il
problema della "sorveglianza elettronica" e della privacy.
Come si è già accennato, con la crescente informatizzazione delle
transazioni economiche e burocratiche, nella nostra vita quotidiana
lasciamo, spesso senza rendercene conto, una serie di tracce
digitali: dalla richiesta di un documento o di un certificato, agli
acquisti con carta di credito o bancomat, dal prestito di un libro
in una biblioteca alla telefonata con il cellulare, dalla
corrispondenza mediante posta elettronica alle navigazioni su World
Wide Web, ormai la maggior parte delle nostre attività, dei nostri
spostamenti, dei nostri rapporti pubblici e (in parte) privati
vengono registrati ed archiviati in grandi database. Senza contare i
dati personali che le varie istituzioni raccolgono, le informazioni
sul nostro conto in banca, i sondaggi o i questionari a cui veniamo
consapevolmente o inconsapevolmente sottoposti. Queste tracce
digitali parlano della vita, dei gusti, delle abitudini e delle
convinzioni di ciascuno di noi.
Naturalmente, molte di queste registrazioni non sono un portato
diretto della società dell'informazione. Sin dalle loro origini
gli stati moderni si sono basati sul controllo burocratico dei
cittadini. Ma con l'informatizzazione sia la quantità sia,
soprattutto, la qualità di questo controllo ha subito una
evoluzione sorprendente. E ciò che più conta, gli archivi
elettronici, a differenza dei vecchi schedari, sono consultabili in
modo estremamente rapido e i loro risultati possono essere
incrociati in modo rapido ed efficiente. Grazie alla
interconnessione dei vari sistemi digitali, insomma, queste
registrazioni possono essere raccolte ed utilizzate dal potere
politico, nelle sue varie articolazioni, come strumento di
sorveglianza e, all'occorrenza, di repressione. Secondo molti
sociologi e politologi, questa situazione ricorda molto da vicino la
società totalitaria descritta in 1984,
il famoso romanzo di George Orwell, dove il Grande Fratello era in
grado di sorvegliare e punire - per dirla con il titolo di un
libro di Michel Foucault dedicato alla repressione nelle società
moderne - tutti i cittadini, ridotti a una massa di inconsapevoli
schiavi.
Se i timori per le tendenze neoautoritarie nelle moderne società
tecnologiche possono essere frutto di eccessiva preoccupazione, o di
un atteggiamento pregiudizialmente anti-tecnologico, non si può
certamente negare che il problema esista. Non a caso questo, ed il
connesso tema della privacy, è uno dei temi principali nel
dibattito politico sulla società dell'informazione. Sono infatti
moltissime le organizzazioni indipendenti che si battono per il
rispetto della riservatezza dei dati personali, e che promuovono l'adozione
di tecniche di protezione del cittadino nei confronti degli apparati
di sorveglianza. Un caso esemplare è la questione dei programmi di
cifratura, quei programmi cioè che permettono di crittografare i
dati inviati su una rete (ad esempio i messaggi di posta elettrica)
in modo tale che nessuno possa accedervi se non i legittimi
destinatari. Alcuni di questi programmi sono così efficienti da
essere praticamente inviolabili. Ma se questi sistemi garantiscono
la privacy di ogni cittadino, è anche vero che rendono impossibile
il controllo di eventuali attività criminali, di sabotaggio o di
spionaggio svolte con la mediazione di sistemi telematici. Sulla
base di queste argomentazioni si è svolta una famosa battaglia
legale negli Stati Uniti che ha visto contrapposti il governo
federale e Philip Zimmerman.
Zimmermann, dopo aver sviluppato uno dei programmi crittografici
più potenti, il celeberrimo Pretty
Good Privacy (PGP), lo distribuì gratuitamente su Internet. Per
questo fu citato dal governo per esportazione di materiale militare.
Il lungo procedimento legale che ne è scaturito si è trasformato
in una battaglia che ha visto opposti le associazioni di difesa
della privacy, schierate accanto a Zimmermann, ed il governo, e si
è risolto in uno scacco per quest'ultimo: da un lato, i tribunali
hanno finito per assolvere Zimmermann (le cui ingenti spese di
difesa sono state coperte da una sottoscrizione che ha coinvolto
migliaia di utenti della rete); dall'altro, l'ingiunzione a rendere
disponibile attraverso Internet solo versioni di PGP fornite di una
cosiddetta backdoor - basate cioè su un algoritmo di cifratura del quale le
istituzioni di sicurezza possedessero una delle chiavi - è stata
vanificata dal fatto che le versioni depotenziate di PGP immesse in
rete in America sono state largamente ignorate dagli utenti, ai
quali bastava collegarsi ad un sito europeo per scaricare una
versione del programma "a prova di FBI".
Ma il problema di una "società della sorveglianza" non è
legato solo al rischio di un forte controllo politico e sociale da
parte dello stato neototalitario. Gli uffici marketing delle
imprese, i responsabili dei sondaggi per conto dei partiti politici,
gli uffici del personale delle aziende possono infatti acquisire le
informazioni personali sparse nelle reti telematiche e nei vari
archivi elettronici pubblici e privati, per usarle al fine di
confezionare offerte commerciali, di influenzare il nostro voto, o
di controllare se le nostre preferenze sessuali sono compatibili col
decoro dell'azienda. E purtroppo, questo avviene oggi con fastidiosa
regolarità. Insomma, quello spazio di libertà individuale che gli
ordinamenti giuridici occidentali moderni riconoscono come diritto
inviolabile della persona, potrebbe essere messo in questione non
tanto da un grande fratello, quanto da una serie di "piccoli
fratelli". Per evitare questa pericolosa tendenza è necessario da
una parte la promozione di adeguate normative a tutela della privacy
e la costituzione di autorità di controllo efficienti (come sta
avvenendo in molti paesi occidentali); dall'altra una informazione
completa e particolareggiate di tutti i cittadini e uno stimolo ad
esercitare il diritto alla riservatezza ed al controllo democratico
delle istituzioni di sorveglianza.
Un
ultimo tema critico legato al rapporto tra tecnologia società e
politica è il cosiddetto "problema dell'accesso". Per
garantire a tutti una adeguata partecipazione alla vita sociale e
politica, e pari opportunità di sviluppo individuale, è
fondamentale assicurarsi che ogni cittadino sia in grado di avere
accesso ai nuovi strumenti della comunicazione.
Al conseguimento di questo obiettivo concorrono tre fattori:
garantire a chiunque, indipendentemente dalle diseguaglianze
economiche, la disponibilità materiale dei nuovi strumenti di
comunicazione; evitare che la mancanza di conoscenza impedisca ad
interi gruppi sociali di capire ed utilizzare i nuovi strumenti;
adoperarsi affinché ogni cittadino desideri utilizzare tali
strumenti, o evitare che risulti penalizzato se, per motivi
culturali o generazionali, ciò non avviene.
Questo risultato non è affatto scontato. Anzi, tutte le
statistiche mettono in evidenza una forte sperequazione nella
disponibilità materiale nella conoscenza delle nuove tecnologie,
che si riscontra sia tra i vari gruppi sociali all'interno delle
società avanzate, sia (soprattutto) tra queste e i paesi del terzo
o quarto mondo. Si tratta di una sperequazione che ricalca
abbastanza da vicino quella socioeconomica, anche se la differenza
generazionale gioca un ruolo non indifferente in questo contesto. E
le tendenze per gli anni a venire fanno temere una acutizzazione
della distanza tra gli have
e gli have not, come vengono definiti i due segmenti dai sociologi
statunitensi. In queste condizioni, si profila il forte rischio che
l'attesa "agorà telematica" richiami fin troppo da vicino
quella ateniese, la quale notoriamente si sorreggeva sullo
sfruttamento e la schiavitù di gran parte della popolazione cui
veniva negato lo status di cittadini.
Come avviene sempre di fronte ai grandi problemi sociali, due
possibili soluzioni sono state proposte per cercare di porre un
rimedio a queste profonde diseguaglianze materiali e cognitive. Da
una parte ci sono i "tecnoliberisti", i quali sostengono che l'azione
del libero mercato, coniugata con la intrinseca capacità di
penetrazione delle nuove tecnologie, saranno in grado di risolvere
in pochi anni ogni differenza e di mettere tutti sulla stesso piano.
Anzi, sostengono ancora, saranno proprio gli attuali have
not ad essere avvantaggiati dalle nuove tecnologie.
Alla tesi tecnoliberista si oppone una visione più
interventista, che - memore del ruolo assunto in passato nella
garanzia dell'accesso universale ai servizi di base come la
telefonia e l'elettricità - ritiene necessario un
coinvolgimento più o meno diretto dello Stato anche nel settore
delle nuove tecnologie. In realtà le visioni circa l'entità e la
natura di tale intervento non sono uniformi: c'è chi, andando
controcorrente rispetto alle attuali dominanti del pensiero
economico e politico, invoca un impegno diretto dello Stato mediante
una politica di investimenti pubblici; altri invece preferiscono
limitare la funzione pubblica ad un ruolo di indirizzo normativo e
di supporto agli investimenti privati.
È difficile, e peraltro non è nostro compito, dire quale sia la
via migliore. Siamo tuttavia convinti almeno di una cosa:
indipendentemente dal modo con cui si cercherà di garantire a tutti
l'accesso ad un computer e alla rete, è necessario coniugare tale
disponibilità materiale con una formazione culturale all'uso
delle tecnologie (vedi filmato). Si tratta, insomma, di avviare quanto prima un
grande progetto di alfabetizzazione, anzi meglio, di acculturazione
tecnologica, di cui la collettività dovrà assumersi l'onere.
- Su Internet esistono diversi siti che permettono di simulare
le attività di compravendita di azioni in modo gratuito,
introducendo così al mondo della finanza. Visitatene uno (vi
consigliamo Edustock, all'indirizzo http://tqd.advanced.org/3088/
,
che offre anche una notevole mole di materiali introduttivi) e
provate ad effettuare alcune simulazioni di gioco in borsa.
- Analizzate e confrontate i vari siti di librerie on-line di
cui abbiamo parlato nella dispensa, cercando di individuare in
che modo ciascuno di essi cerca di catturare l'attenzione del
cliente, se propone sconti, offerte speciali, servizi di
consulenza e recensione, consigli ai lettori.
- Provate a progettare un vostro negozio elettronico: che tipo
di prodotti vendereste? In che modo organizzereste i vostro
sito? Quali servizi, oltre alla vendita, vorreste offrire ai
vostri clienti? In che modo pensereste di pubblicizzare il
vostro negozio e i vostri prodotti?
- Analizzate i siti dei vari partiti politici, cercando di
capire se e come la comunicazione on-line si differenzia da
quella televisiva e giornalistica, che tipo di linguaggio viene
usato (slogan politici, discorsi teorici, comunicazione
informale), che tipo di risorse ed informazioni vengono messe a
disposizione, quanto spazio viene dedicato alla interattività
con gli utenti.
- Fate la stessa operazione con i siti dei vari ministeri
italiani, ponendo particolare attenzione alla presenza o meno di
effettivi servizi offerti agli utenti.
- Provate a progettare una rete civica: che tipo di informazioni
e di servizi mettereste a disposizioni? In che modo e in che
forma provereste a stimolare la partecipazione diretta dei
cittadini alle decisioni comuni?
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