Leggi gli altri articoli

"Verso l'architettura del métissage"

"La città estendibile di Fuksas"

"Leonardo vive a Seattle"

"La voce dell'indipendenza"

"Home smart home"

"La dissoluzione della forma"

"La memoria, che affare!"
"Dove vanno i dati?"








La dissoluzione della forma

Luigi Prestinenza Puglisi

L'architettura dell'era elettronica secondo Luigi Prestinenza Puglisi, docente di Teorie e tecniche della progettazione architettonica all'università di Siracusa

E' proprio vero che l'architettura dell'età dell'elettronica debba avere forme complicate, bloboidali, neofuturiste?
L'equivoco è probabilmente basato sul fatto che gli architetti, i quali hanno formato o risentono del clima decostruttivista, hanno ampiamente utilizzato il computer nelle loro rappresentazioni. F. O. Gehry, l'autore del celeberrimo museo Guggenheim di Bilbao, per esempio, usa Catia, un programma messo a punto per la realizzazione di modelli nell'industria aerospaziale. Eisenman distorce, tramite il calcolatore, e, in particolare mediante l'uso di attrattori, le forme dei propri progetti. E alla grafica computerizzata ricorrono Coop Himmelb(l)au, Libeskind, RoTo, Morphosis, Fuksas.
Ma l'uso decostruttivista del calcolatore è per così dire strumentale. Gehry confessa di non saperlo utilizzare personalmente. I suoi progetti nascono da schizzi e da plastici di studio - cioè da medium di rappresentazione tradizionali- e sono passati al calcolatore solo in un secondo tempo, per razionalizzarne gli spazi, ma soprattutto per definire un modello tridimensionale da trasmettere ai computer dei produttori dei componenti. Eisenman, anch'egli illetterato nel campo dell'informatica, utilizza programmi CAD ma per ottenere anamorfosi o geometrie complesse. Cioè per effettuare operazioni che potrebbero - certo con infinita pazienza- essere gestite anche con mezzi tradizionali. Basti guardare un' opera di un architetto barocco quale Borromini, Guarini, Juvara, Vittone o Fisher von Erlach per rendersene conto.
Considerazioni simili possono essere fatte per gli altri progettisti.
Del resto, da alcuni anni a questa parte la gran parte degli studi professionali ricorre al CAD, i tavoli da disegno sono stati messi in soffitta, ma non per questo si può dire che è radicalmente cambiato il modo di progettare o concepire lo spazio.
L'informatica ha ben altre potenzialità. Per capire quali occorre abbandonare per un istante l' architettura e guardare ad altri campi disciplinari: in particolare all'ingegneria e alla tecnica. Se facciamo questo è soprattutto per un motivo storico. Spesso i grandi cambiamenti dell'architettura sono stati determinati da fenomeni esterni. Che gli architetti hanno dapprima osteggiato, poi non capito, poi utilizzato per motivi di economicità e, solo alla fine, compreso esteticamente. E' il caso dell'invenzione del cemento armato: dapprima nascosto dietro facciate in stile, poi timidamente utilizzato negli edifici utilitari, successivamente compreso da Perret e, infine, teorizzato nei cinque punti dell'architettura moderna da Le Corbusier.
Sfogliamo allora un numero abbastanza recente di Time Magazine dedicato alla rivoluzione nel campo delle comunicazioni. Sono raccontate le storie di due personaggi: Steve Mann e Kevin Warvick. Steve Mann è uno scienziato che si sta dedicando da oltre vent'anni ai WearComp cioé ai computer portatili. Li possiamo portare con noi e ci assistono nelle incombenze quotidiane: per comunicare verbalmente o via E mail, ricevere e inviare immagini, percepire segnali di allarme, attivare elettrodomestici. Schiavitù elettronica? Tutt'altro. Spiega Mann: attraverso i WearComp è possibile gestire, cioè, indirizzare, ridurre, filtrare o intensificare le informazioni fornite dall'ambiente.
Kevin Warick, un professore di cibernetica all'università di Reading, ha impiantato nel suo braccio un microchip. Attraverso il quale è in grado di interagire con il proprio ufficio: aprire la porta di ingresso, accendere le luci, attivare il proprio website che gli risponde con un messaggio preregistrato. Continua l'articolo: tra qualche anno i computer portatili saranno enormemente sofisticati, funzioneranno mediante un impulso nervoso o un semplice contatto vocale, li porteremo con noi e ve ne sarà uno in ogni elettrodomestico o in ogni componente edilizio: porta, finestra, vasca da bagno o lavandino.
Un terza storia la riporta la rivista Wired del maggio dello scorso anno. Protagonista Bill Gates che avrebbe arredato la sua nuova casa con schermi giganti che proiettano le immagini che più fanno piacere agli amici, riconosciuti mediante sensori elettronici. Il sistema é in grado, in presenza di numerosi ospiti, di stabilire una gerarchia di preferenze.
Dal nome dell'arredatore, che pare sia lo stesso che ha deturpato gli interni del museo Getty di Meier, possiamo pensare che la casa realizzata per Gates non brilli per qualità formali. Così come non necessariamente brillanti dal punto di vista architettonico devono essere l' ufficio di Warick o gli ambienti attraversati da Mann. Eppure, le sperimentazioni di questi personaggi aprono all'architettura una direzione di ricerca, talmente importante da far impallidire lo splendido museo Guggenheim di Gehry o l'eccellente ampliamento dell' Università di Cincinnati di Eisenman. In tutti e tre i casi, infatti, lo spazio non é più un contenitore delimitato da muri ma diventa il teatro di interrelazioni tra l'uomo e l'ambiente: insomma un insieme vibrante e mutevole in funzione delle esigenze di chi lo abita.
Gli edifici diventano -per usare una metafora di Marshall McLuhan- simili a un complesso sistema nervoso; entità sensibili con le quali interagire; oggetti che si adattano al nostro modo di vivere lo spazio, che si trasforma in una nostra seconda pelle.
Conseguenza di questa rivoluzione é la smaterializzazione dei contenitori: i muri da stabili, immobili, sordi a qualsiasi stimolo diventano membrane. Perdono peso, guadagnano in leggerezza, acquistano, esattamente come un sistema nervoso, intelligenza. E, grazie al loro complesso apparato di sensori, si proiettano verso la natura e il contesto circostante di cui, finalmente, riescono a captare creativamente le luci, i suoni, gli odori.
Ma se lo spazio è soprattutto un insieme di interrelazioni, cessa la distinzione tra fruitore e opera e non ha più senso di parlare di forma nel senso classico, intesa come cristallizzazione astratta di un'idea. Viene così a mancare uno dei postulati estetici della cultura occidentale: la concezione dell'oggetto estetico strutturato come momento di opposizione - monumento perenne, direbbe Orazio- rispetto alla provvisorietà del divenire. All' arte non resta che tornare a compromettersi con la vita, che del divenire è la manifestazione più vera e più alta, con buona pace di molti critici che vivono con terrore la leggerezza, la mutevolezza, la volatilità. Per la verità, la ricerca artistica - che da sempre precorre quella architettonica- lavora su questi temi da almeno quaranta anni. E a intuizioni simili erano arrivati negli anni sessanta e settanta alcuni architetti d' avanguardia: gli Archigram in Inghilterra, i Metabolisti in Giappone, i Situazionisti in Francia, Archizoom e Superstudio in Italia. Oggi, però, queste intuizioni, supportate da maggiori mezzi tecnici e da un più intenso sforzo realizzativo, diventano concrete occasioni produttive. Koolhaas a Karlsruhe progetta una mediateca concepita come un'arena darwiniana in cui le immagini prodotte dalle varie arti si scontrano e si ricompongono secondo variabili configurazioni formali. Da Nouvel che nel Centro per il Mondo Arabo di Parigi realizza una parete il cui disegno cambia a seconda del movimento del sole. Toyo Ito inventa un contenitore che si illumina diversamente a seconda dei rumori e delle luci della città. E Zaha Hadid che nel progetto per il museo d' arte contemporanea di Roma ipotizza un edificio senza prospetti organizzato in funzione dei flussi dei visitatori. E, accanto alle opere di questi artisti, un dato che parla per tutti: anche negli edifici di produzione comune, cioè privi di particolari qualità architettoniche aumenta la leggerezza, il costo della struttura è passato dall' 80% al 20% mentre quello degli impianti è salito progressivamente sino al 35%. E tende a crescere con l'avvento dei cosiddetti edifici intelligenti nei quali l'informatica permette nuove forme di controllo ambientale e della sicurezza.
Facciamo un passo indietro e torniamo al minimalismo, un fenomeno oggi di moda che sta subentrando al decostruttivismo. Non è difficile vedere che il riduttivismo odierno ha poco a che vedere con quello dei maestri del Movimento Moderno dei primi del novecento, tutto orientato in un'ottica meccanicista. Oggi la dissoluzione della forma è strumentale al perseguimento di una estetica dove fluidi, mutevolezze, trasparenze soggiacciono a un comune denominatore informatico. Cioè a una ricerca che prima o poi darà forma alla nuova società elettronica nella quale ci stiamo proiettando. Quali saranno i prossimi passi? Non lo sappiamo, ne è possibile prevederlo. Il futuro, al massimo, può essere preparato. Chi sarà in grado di farlo? Proviamo a segnalare alcuni protagonisti. Io direi: Ito, Koolhaas, Hadid, van Berkel, Tschumi, MRDV e tra i più giovani Hariri&Hariri e Winka Dubbeldam. Oltre agli italiani Ian+, Metrogramma, MA0, Urban Future Organization, Spin+, Centola e Alvisi di cui sentiremo presto parlare.