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Verso l'architettura del métissage



Massimiliano Fuksas parla dell'evoluzione dell'architettura nell'era della globalizzazione: le tecnologie sono solo strumenti, il fine è comunicare emozioni

Le tecnologie permettono di disporre di una serie di servizi direttamente da casa. Non rischiamo di perdere la memoria della città come luogo di incontro, attività, rappresentazione?

Credo che la tecnologia non faccia perdere nessuna memoria. La tecnologia è uno strumento. Anche la forchetta e il coltello sono tecnologie. Dobbiamo pensare che tutto quello che arriva e arriverà nei prossimi anni è parte del nostro mondo. La memoria della città non si può perdere, anzi si può acquisire. Il problema è il rapporto tra virtuale e reale, che devono essere fortemente legati, perché l'individuo ha un'idea e un concetto e poi sperimenta quello che pensa. Anche quando camminiamo, quando mettiamo un piede dopo l'altro, si tratta di una sperimentazione di quello che pensiamo. C'è sempre una parte di virtuale, di idea, di concetto e una parte di realtà. Perciò, credo che la città sia parte integrante di questo nuovo processo. Tecnologia virtuale e reale fanno parte dello stesso mondo.

Come cambia l'immagine nell'era del computer?

Il computer ha determinato la capacità di comprendere cose che prima non riuscivamo ad analizzare, a vedere. Possiamo entrare nella materia, nello spazio interno, cosa che avevamo grande difficoltà a fare prima. Da una parte c'è il modello reale, dall'altra il modello virtuale: in poche parole, da una parte abbiamo il plastico, fatto di materia, di legno, di materiale traslucido; dall'altra il mondo del virtuale, che è il computer. Si può correggere l'immagine virtuale del computer con il modello. Reale e virtuale fanno parte di un nuovo modo di vedere la realtà. Certo non avrei mai potuto fare progetti come quelli che faccio adesso vent'anni fa. Anche se li avevo già intuiti, era facile incorrere in errori, perché non riuscivamo a controllare forme che non sono forme, ma sono informi.

Come si possono integrare le tecnologie della comunicazione con l'architettura?

Non c'è bisogno di integrare la comunicazione con l'architettura: l'architettura è comunicazione, se non comunica, non serve assolutamente a niente. L'architettura nasce per una voglia fortissima di dare emozioni, di dare immagini, di dare anche una magia. La comunicazione fa parte dell'architettura. In realtà la paura di molti di un'architettura che è solo immagini è riferita a un'architettura formalista o vuota. Un cubo neorealista tristissimo può essere altrettanto stupido e brutto di una forma estremamente dilatata o priva di geometrie classiche o semplici. Il problema sono le idee e la magia che comunicano. L'architettura se non riesce a comunicare e non riesce a dare quella magia che ci manca, non ha senso.

Più la città è connessa, meno la gente si muove. Come cambia l'architettura in funzione di questa sedentarietà sempre maggiore?

Non credo assolutamente che la gente diventi sempre più sedentaria, anzi credo che acquisti in mobilità. Uno può stare fermo, muovendosi. Per esempio, con il cellulare, l'auto è diventata un ufficio. Il vero problema delle nostre città è la capacità di interconnessione e di comunicazione. Il problema non è che Internet o la televisione tengono la gente inchiodata. Questa è la paura del diavolo: il diavolo come tecnologia. La tecnologia e soprattutto Internet ti mette in comunicazione con una gran parte del mondo: il problema è in che modo noi riusciamo a utilizzare quello che impariamo. Siamo ancora in una fase arcaica: usiamo Internet in un modo sballato, pressappochista, quasi come una chat line, un luogo di chiacchiere e di pettegolezzi. Il ruolo di Internet è ancora tutto da scoprire.

La domotica migliora davvero la qualità dell'abitare e del vivere?

La domotica è un gadget. È entrato nella testa soprattutto dei francesi, che credevano così di gestire le grandi aree periferiche: il riscaldamento, i consumi energetici, la sicurezza. Noi abbiamo tentato di usarla nel progetto del Fronte Senna della periferia di Parigi ma poi lo abbiamo abbandonato.

Con l'utilizzazione delle nuove tecnologie si va verso una maggiore personalizzazione oppure verso l'omologazione dello spazio?

La tecnologia in architettura non serve assolutamente per fabbricare lo spazio. Lo spazio si fabbrica con la testa: prima di fare un progetto, lo si deve immaginare. Le idee sono nella testa e da qui devono uscire fuori. Il passaggio non avviene attraverso la tecnologia ma tramite la traduzione di quello che si immagina in qualcosa che sarà reale.

Questa architettura nella quale c'è sempre maggiore attenzione ai materiali, alle tecnologie, è un passo verso un'architettura più democratica?

Le tecnologie non sono né democratiche, né totalitarie. Dipende dall'uso che se ne fa. Internet, ad esempio, si può usare per dominare gli altri o per aiutarli: la Biennale di Venezia del 2000 da me curata comunicava proprio il fatto che noi possiamo usare le nuove tecnologie per migliorare le condizioni degli altri.

Avremo nelle varie parti del mondo edifici che si somigliano sempre di più oppure una maggiore contaminazione di stili e linguaggi?

Se la gente si sposta, nasce il métissage: una popolazione che perde le sue origini, ma diventa parte di un'altra realtà. Non si può pensare un'architettura che non abbia una forma di métissage. Non credo a un'architettura internazionale, non credo che un prodotto, un progetto pensato in un solo paese possa esportarsi in tutto il mondo. Già dal tempo dei Greci e dei Romani, quando si costruiva nell'allora Medio Oriente, l'architettura romana subiva dei cambiamenti sostanziali: Alessandria non era assolutamente confrontabile a Roma.

Come sta cambiando la fisionomia della città?

Non cambia la fisionomia della città. Cambia il concetto di città. Per città noi intendiamo qualcosa di estremamente piccolo, che ha un dentro e un fuori. Roma, all'interno delle Mura Aureliane, conta oggi 127mila abitanti. I romani però sono 4 milioni. Dove vivono gli altri? Nelle periferie. E qual è la città? Secondo me è l'altra. Io abolirei anche la parola periferia, perché non esiste più. La città è cambiata anche perché adesso in un luogo dove prima vivevano pochissime persone, ne vivono tantissime: l'area di Città del Messico conta 22 milioni, l'area di Calcutta 44 milioni, l'area di Tokio 56 milioni. Questa dimensione cambia il concetto di città: si tratta di megalopoli. È con questi luoghi di grandi densità che dobbiamo confrontarci.

Una mediateca oggi è allo stesso tempo un luogo reale e un simbolo dei tempi. Quali sono gli altri edifici che rispondono a queste caratteristiche?

La mediateca in realtà appartiene tipicamente agli anni Ottanta. Sono passati vent'anni dalle prime mediateche. Io ne ho costruite almeno tre o quattro in Francia. All'epoca era un progetto innovativo, in quanto si mettevano insieme video, tecnologia, computer, informatica, e poi i libri. Era un luogo completamente democratico, una realtà legata all'urbanità e al cittadino. I nuovi luoghi della cultura non saranno più le mediateche ma i luoghi marginali, che ancora non sono stati colonizzati. La città di New York, come tutte le città che hanno un passato produttivo, riesce a trasformare grandi aree produttive volta per volta in aree prima di arte, di cultura e poi di speculazione. L'arte e la cultura della città possono colonizzare aree che sono abbandonate. L'errore è stato, nel caso per esempio della Bicocca di Milano, di non colonizzare attraverso l'arte, ma di fare un piano urbanistico. I piani urbanistici sono sempre poveri, tristi posti in cui nessuno vuole andare a vivere e tutti si sentono marginali, di una marginalità terribile che è la non identificazione con se stessi.

Quali sono le tendenze del panorama architettonico contemporaneo in relazione alle nuove tecnologie?

Alla Biennale di Venezia del 2000 abbiamo fatto un muro di immagini di 300 metri: è chiaro che una cosa del genere prima non l'avremmo mai potuta fare. Si deve guardare a questo, al lavoro dei videoartisti, alla fotografia. I migliori artisti oggi sono quelli che usano la fotografia, Vincent Gallo ad esempio. L'immagine ha una forza, una potenza espressiva che quasi non troviamo più nel mondo della pittura.

Quali sono i rischi e i benefici legati all'utilizzazione delle nuove tecnologie nel progettare un edificio?

Quando si progetta un edificio, si pensa prima di tutto a chi ci dovrà andare ad abitare. L'architetto e l'artista vogliono entrare in contatto con l'utilizzatore finale. La tecnologia non è neanche un plus valore, è un mezzo per arrivare a questo. Ritorniamo all'origine della questione, che nasce all'inizio del Novecento, quando si pensava che la rivoluzione tecnologica potesse anche portare a dare a tutti degli oggetti d'uso che migliorassero la qualità della vita e anche dell'estetica.

Ci sono degli elementi architettonici "riconoscibili" che sono legati alla tecnologia? Come si legano con quelli tradizionali e universali?

L'architettura attualmente è ancora vecchia. Noi usiamo materiali vecchi e un procedimento antichissimo. Possiamo accelerare i tempi rispetto al passato - benché il Colosseo sia stato costruito in cinque anni - ma in realtà usiamo sempre gli stessi materiali: pietra, acciaio, mattoni, vetri. Tutta la ricerca spaziale non ha avuto ancora una ricaduta reale. Per costruire la Nuvola uso il Goretex, un materiale traslucido, tessile, che deriva dalla ricerca spaziale, ma il mondo della tecnologia non ha toccato completamente quello dell'architettura. L'unica cosa che abbiamo veramente guadagnato è la precisione dei disegni.

Grazie a questi strumenti tecnologici in che direzione si può approfondire la ricerca? Automazione, movimento, luce.

La cosa che possiamo avere sicuramente è la luce. Tutta l'architettura che ho fatto negli ultimi vent'anni è completamente compresa nel concetto di luce. L'idea è quella di un edificio che restituisca durante la notte la luce presa di giorno, tirandola fuori da se stessa. Abbiamo fatto una grande ricerca sulla qualità e la tecnica della luce: adesso ci sono dei programmi che ci permettono di comprendere e prevedere tutti i cambiamenti di luce.

Nei progetti che sta realizzando in questo momento, per esempio la Sala dei Congressi all'Eur e l'Agenzia Spaziale, che posto hanno le nuove tecnologie?

Credo che l'Agenzia Spaziale sia completamente presa dalle nuove tecnologie. La facciata non è più una facciata: diventa uno schermo cioè un luogo di informazione. Non è più decorazione ma diventa immagine. È una facciata che può cambiare colore o densità, può essere trasparente, traslucida o opaca, sulla quale si può proiettare. In tal modo, la gente che passa può vedere il lancio a Cape Canaveral di un satellite oppure quello che succede all'interno, nell'area del museo. È un uso che dà maggiori informazioni: la tecnologia è dare maggiori informazioni.
Il Palazzo dei Congressi è un'altra cosa: c'è una pellicola incredibile che chiude un grande involucro, nel quale dall'interno si vede arrivare la luce, dall'esterno si vede di notte una grande massa luminosa sospesa solo su tre punti dentro un volume traslucido nel quale si percepiscono le ombre e si vede una grande massa. L'uso della tecnologia ci permette svariate cose: prima di tutto un maggiore controllo di tutto il processo progettuale e costruttivo. Ma questo non vuol dire assolutamente che perdiamo fantasia. C'è una questione di fondo sotto tutti gli interrogativi riguardanti la tecnologia: l'uomo cambierà? Continuerà a sentire nonostante la tecnologia? Non sarà ucciso, mangiato, fatto a pezzi da Internet, dai visori, dai sensori, dai video, dagli apparecchi, dai gadget? Progetteremo case solo per farci vivere in questa specie di grande blob di immagini? Non credo. Finché un uomo dopo qualsiasi catastrofe scriverà tre versi e qualcuno piangerà sarà sempre lo stesso. La commozione farà parte della nostra vita.

 

Massimiliano Fabrizi
Georgia Garritano
Wanda Marra