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Toni Negri ci parla del suo "Impero"

Un grande affresco di teoria politica, un saggio storico e sociologico, un'analisi che a tratti diventa profetica. Impero (Rizzoli 2002), scritto da Antonio Negri e Michael Hardt, è stato definito il "manifesto potenziale della rivoluzione post-moderna". In Francia, ha aperto un dibattito sul futuro dell'età globale; negli Stati Uniti è stato per mesi nella lista dei libri più importanti del momento.

Con l'avanzare della globalizzazione, la sovranità degli stati-nazione ha subito un progressivo declino a favore di una nuova forma di sovranità, composta da una serie di organismi nazionali e sovranazionali, uniti da un'unica logica di potere: è questa la tesi di fondo illustrata e approfondita nel libro. Con l'uso di una terminologia politica che restituisce a molte parole la loro stratificazione storica, Toni Negri e Michael Hardt definiscono questa nuova forma di sovranità globale "Impero".

Abbiamo chiesto al filosofo Toni Negri, il "cattivo maestro" ex-leader di Autonomia operaia, di spiegarci meglio caratteri dell'Impero e peculiarità della globalizzazione.

Nel vostro libro, Impero, lei e Michael Hardt sostenete che assieme al mercato mondiale e ai circuiti globali della produzione sono emersi un nuovo ordine globale, una nuova logica e una nuova struttura di potere: in breve, una nuova forma di sovranità. L'Impero sarebbe dunque il nuovo soggetto politico che regola gli scambi mondiali, il potere sovrano che governa il mondo. Potrebbe definire meglio questo concetto?

Nel nostro libro, noi parliamo essenzialmente di un processo che porta alla costituzione dell'Impero, insistiamo molto sul fatto che il sistema globale del mercato implica necessariamente un ordine, giuridico, politico e che non esiste mercato senza un'espressione in qualche modo regolata del mercato stesso. Il concetto di Impero vuole indicare, dunque, un processo di trasferimento di sovranità dai soggetti che nel moderno (fino a questo momento) hanno praticamente detenuto la sovranità, ad un potere che si viene configurando nello sviluppo come capacità di regolazione del mercato mondiale. Credo che sia una concezione del tutto legata a una visione istituzionalista dell'ordine economico.

La tesi di fondo da voi sostenuta in Impero è che la sovranità ha assunto una forma nuova, composta di una serie di organismi nazionali e sovranazionali. Quali sono questi organismi? E in che rapporto sono tra loro?

È un po' difficile parlare di un ordine definito. In realtà siamo all'interno di un processo di costituzione dell'Impero: non si tratta di una forma di sovranità che estende all'ordine internazionale la rigidità dei processi di produzione di regole che sono tipici degli ordinamenti interni. Noi ci opponiamo a una concezione come questa dello Stato moderno. C'è indubbiamente una gerarchia, come ci sono delle separazioni nella definizione della struttura del potere all'interno dell'Impero. È difficile riuscire a definirlo con precisione: noi usiamo la grande analogia del modello di Polibio. Come nell'Impero romano, la crisi delle forme di governo - la monarchia, l'aristocrazia, la democrazia - che l'antichità aveva definito, porta ad una formazione intermedia in un momento di stasi di questo sviluppo, di questa degradazione sistematica delle forme di potere. L'equilibrio dell'Impero è nella compenetrazione di queste tre forme. Da questo punto di vista si può pensare che ci sia un punto alto, monarchico, nella costituzione dell'Impero. È indubbio che le grandi potenze capitalistiche occidentali, il G8 per così dire, possono cominciare a configurare questo polo di potere; ma così anche certi strumenti, che erano stati costruiti per mantenere l'equilibrio interno dei grandi Paesi Occidentali alla fine della Seconda Guerra Mondiale, e che oggi invece si sono inseriti in maniera massiccia, con funzione di regolazione, al centro monarchico dell'Impero. Si tratta di una compenetrazione di livelli, di un ordine aristocratico; le multinazionali, per esempio, la fanno da padrone su questo piano e costituiscono la grande intelaiatura che da una parte genera la produzione e dall'altra la produzione dei valori della soggettività sul livello mondiale. Vi è poi uno Stato che chiamiamo democratico, o meglio, che vorrebbe essere democratico, e che finora si esprime molto debolmente. Dentro questo Stato si possono riconoscere anche le Ong, come certi Stati, Paesi, poli nazionali che rivendicano indipendenza e traiettorie diverse da quelle uniformate dallo sviluppo imperiale.

Si può parlare di una globalizzazione dei valori?

La globalizzazione dei valori è una globalizzazione che procede dall'industria, dai linguaggi, dall'informazione. Esiste indubbiamente una globalizzazione dei valori. Il problema è di capire se si tratta ancora di valori e come all'interno di questo mondo globale dato come tale si possono costruire, produrre valori nuovi.

Anche per ragioni temporali, il movimento no-global non è quasi per nulla considerato nella vostra analisi. Che ruolo ha tale movimento all'interno del nuovo ordine della globalizzazione?

Quando abbiamo terminato questo libro, tra il 1997 e il 1998, si vedevano solo le prime avvisaglie del movimento no-global. Noi parliamo di tutta una serie di lotte, riconoscendo che queste lotte non si erano ancora costruite in un ciclo. È solo con Seattle che si comincia a formare un ciclo, il primo che si presenta dopo gli anni Sessanta sulla faccia del pianeta. Quando si parla di un ciclo di lotte si parla evidentemente di quello che è l'identificazione di fronti di scontro, di valori, della circolazione di linguaggi che omogeneizzano questi movimenti a livello planetario; e poi anche di temporalità di spazi, che vengono definendosi all'interno di questo processo.

Voi parlate di una moltitudine che deve inventare nuove forme di democrazia e un nuovo potere. A quale moltitudine pensate? E in che rapporto sta questa moltitudine con il movimento no-global?

La moltitudine è prima di tutto qualcosa che noi tentiamo di definire da un punto di vista di teoria politica. La moltitudine è una molteplicità di singolarità. Noi sosteniamo che il concetto stesso di popolo come era stato definito nella dottrina e nella tradizione costituzionalista dello Stato moderno è un concetto che sta andando in crisi. Il popolo è un prodotto del sovrano, esattamente come poteva essere sovrano; era completamente legato a quella figura dello Stato, che era una figura bloccata sulla realtà, su un contratto, su una trasposizione, su un'alienazione dei diritti. A noi sembra che questo oggi non sia possibile da concepirsi, che ci si trovi di fronte a una moltitudine di soggettività, che lavora con qualità che sono dentro una trasformazione della soggettività. Si tratta di una soggettività che comincia a riappropriarsi degli strumenti di produzione, fortemente attiva e costruttiva. Un terzo punto nella definizione di moltitudine è la qualificazione di questa moltitudine come potenza, come potenza di riappropriazione di tutto il potere. Io non so se il movimento no-global arriverà ad essere questo, cioè a costituire la dinamica interna alla moltitudine nella riappropriazione dei valori, ma mi sembra che questo potrebbe essere molto bello.

Lei definisce il lavoro di oggi come un lavoro basato sulla comunicazione, la cooperazione, l'affettività. Come è cambiato oggi il lavoro? E soprattutto, ci può spiegare meglio il concetto di lavoro affettivo?

Noi partiamo da una definizione del lavoro come qualcosa che diventa sempre più immateriale. L'elemento egemone del lavoro è ormai l'immaterialità. La fabbrica e il modo di produzione fordista stanno per essere superati. All'interno di questo processo, al vecchio modo di produzione si oppone o si sostituisce una forma del lavoro che nasce essenzialmente dall'espressione di valori intellettuali e fondamentalmente dalla comunicazione, dall'intersoggettività nella produzione, dalla cooperazione produttiva. È chiaro che la cooperazione produttiva diviene sempre di più qualcosa in cui l'intero assetto delle potenze produttive umane è messo in gioco. Evidentemente, soprattutto quando si parla di cooperazione, gli elementi affettivi, gli elementi relazionali o gli elementi linguistici che insieme coniugano razionalità, affettività e corporeità, diventano assolutamente fondamentali nella costituzione della nuova produttività.