Lavori contratti
Wanda Marra
Da Blu a Ipse, il settore delle telecomunicazioni sta attraversando
una crisi strisciante, ma sensibile. A farne le spese, prima di
tutto i lavoratori
La fase ascendente del business legato alle telecomunicazioni è
già finita. O almeno le società coinvolte sono soggette a ridimensionamenti
e correttivi significativi. All'interno di una situazione molto
fluida e per alcuni versi imprevedibile, questo ormai è un fatto,
che per molti lavoratori assomiglia al risveglio da un bel sogno:
quello di essersi inseriti in un settore in crescita, mettendosi
al riparo dallo spettro della disoccupazione.
I dati più recenti relativi a questo settore sono quelli diffusi
dal Garante delle telecomunicazioni, secondo il quale i nuovi posti
di lavoro creati nel 2000 erano circa 25mila. Tale dato era il frutto
di due diversi avvenimenti: la perdita di occupazione nella Telecom,
che veniva compensata dalla creazione di posti dovuti alla comparsa
di nuovi gestori telefonici.
Probabilmente, adesso siamo di fronte a un'inversione di tendenza.
I segnali "indiretti" ci sono tutti. Rispetto alle premesse della
prima fase di liberalizzazione della telefonia, c'è stato un assestamento
che ha portato a una riduzione del numero di imprese: per esempio,
delle 200 aziende che hanno chiesto le licenze per la telefonia
fissa, ne esistono attualmente solo 100, e non si sa quante reggeranno.
Uno dei fatti più preoccupanti, come sottolinea Rosario Strazzullo
della Slc (Sindacato lavoratori comunicazione) Cgil nazionale, è
che - mentre nel caso di Telecom si era in presenza di perdita di
lavoro riguardante persone spesso vicine al pensionamento e tra
l'altro era stato possibile arginare il problema utilizzando degli
ammortizzatori sociali, come la cassa integrazione e la mobilità
- tra la fine del 2001 e l'inizio del 2002, ad andare in difficoltà
è la forza lavoro nuova.
Cominciamo dal caso Blu, il più eclatante e controverso degli ultimi
mesi. L'azienda, che appartiene al consorzio formato da Autostrade,
British Telecom, Benetton, Banca Nazionale del Lavoro, Gruppo Caltagirone,
Italgas, British Telecom e Distacom, negli ultimi giorni è balzata
agli onori delle cronache, grazie anche allo sforzo fatto dai dipendenti
della società per sensibilizzare l'opinione pubblica.
A Blu, circa un centinaio di giovani non si sono visti confermare
i contratti di formazione lavoro. Tecnicamente non si tratta di
licenziamenti, ma questo significa comunque lasciare una serie di
persone sul mercato, senza lavoro e senza assistenza.
I dipendenti della società sono dunque diminuiti dai 1927 di gennaio
ai 1842 di febbraio. E la tendenza per il futuro è certamente discendente,
anche perché i contratti di formazione lavoro al momento sono 751.
Tutto questo viene motivato dal fatto che gli azionisti hanno deciso
di vendere e non sembrano esserci acquirenti soddisfacenti. Varie
le possibilità. Si parla prima di tutto di un'acquisizione da parte
di Telecom, che se dovesse andare in porto, salverebbe l'intera
forza lavoro con contratto a tempo indeterminato ma lascerebbe scadere
comunque i contratti di formazione. In alternativa, se l'operazione
Tim non riuscisse, si andrebbe allo "spezzatino" con scarse probabilità
di salvaguardare la forza lavoro: sostanzialmente si venderebbero
i diversi perimetri aziendali ai compratori, i quali acquisirebbero
solo i dipendenti Blu strettamente necessari alla gestione di tali
perimetri. Si potrebbe, infine, anche arrivare a una liquidazione
dell'azienda, che porterebbe a un licenziamento dei lavoratori con
un trattamento di fine lavoro "ragionevole", ma pur sempre a un
licenziamento.
La questione è controversa e pone uno degli interrogativi di fondo
che definiscono il nostro tempo: fino a che punto è giusto rispettare
le leggi del mercato e della produttività? O viceversa, fino a che
punto è giusto salvaguardare il lavoro, prima di tutto?
Anche se Blu non ha corrisposto alle aspettative con le quali era
nata (significativo, per esempio, il ritiro dalla gara per le licenze
dell'Umts), i lavoratori e i sindacati sostengono che l'azienda
in due anni di presenza sul mercato si è dimostrata vincente, riuscendo
ad affermare la propria immagine e ad occupare un proprio spazio
tra i colossi del settore della telefonia mobile: Blu registra il
12 per cento delle nuove attivazioni, il logo Blu è conosciuto dall'85
per cento della popolazione nazionale, il livello di soddisfazione
del cliente è pari al 92 per cento.
''È un ennesimo caso paradossale delle aziende della new
economy - ha dichiarato Fulvio Fammoni, segretario della Slc-Cgil
- si chiedono facilitazioni in fase di start up e poi una volta
che gli obiettivi fissati dagli azionisti sono superati, gli stessi
azionisti si disfano delle aziende creando un drammatico problema
per centinaia di lavoratori''. I sindacati, dunque, richiedono di
salvaguardare l'entità produttiva per garantire la totalità dei
posti di lavoro. I soci di Blu hanno deciso di prendere tempo: l'assemblea
del 5 marzo, che aveva tra i punti all'ordine del giorno la cessione
dell'azienda o dei suoi asset o - in alternativa - la liquidazione,
ha solo deciso di dare alla società un'ulteriore boccata d'ossigeno
pari a 50 milioni di euro, rinviando il resto al 20 marzo.
La crisi non riguarda solo Blu: un altro caso emblematico è quello
di Ipse, che ha tra i suoi azionisti la società telefonica spagnola
Moviles, Atlanet, il gruppo Fiat, la Banca di Roma. Questa azienda,
una di quelle deputate a lanciare l'Umts, è in uno stato di inattività,
di stallo totale, con investimenti ridotti al minimo. Se la situazione
non si sblocca, non è certo da escludere una rimessa in discussione
dell'azienda, che, per i circa 600 dipendenti, può significare la
perdita del posto di lavoro. È inoltre di questi giorni la notizia
data da Affari & Finanza del " primo fallimento ufficiale di un
operatore telefonico" : quello della Lts, società di dimensioni
medio-piccole, focalizzata sul Mezzogiorno e in corsa per l'unbuilding
delle linee di Telecom Italia, che ha tra i suoi soci principali
la Banca di Roma.
Non è difficile immaginare, inoltre, che una contrazione della forza
lavoro si potrebbe avere dall'integrazione tra Atlanet (Acea, Fiat
e Telefonica) ed Edisontel (società nata da Edison S.p.a.), un progetto
''in fase molto avanzata'', secondo quanto affermato dall'amministratore
delegato di Atlanet,
Pierfrancesco Di Giuseppe, che potrebbe coinvolgere anche Albacom
(Bt, Bnl, Eni, Mediaset, Albacom holding) per una possibile alleanza
a tre nella telefonia fissa.
Un ulteriore dato, questa volta intuitivo, conferma che la situazione
del lavoro in questo settore è quanto meno poco chiara: abbiamo
provato a chiedere agli uffici stampa di tutte le principali società
di telefonia quanti sono stati i dipendenti assunti negli ultimi
due anni, quanti i contratti di formazione lavoro o di collaborazione
confermati, quanti quelli non confermati, quali le previsioni in
questo senso per il futuro. Ci siamo trovati di fronte a un certo
imbarazzo e a una dichiarata difficoltà generale sia di reperire
che di dare questo tipo di informazioni. Siamo riusciti ad ottenere
dati generici e solo da alcune delle società interpellate:
per esempio da Edisontel sostengono che avevano 360 dipendenti alla
fine del 2000, e gli stessi alla fine del 2001; dal luglio del 2000
al 31 dicembre del 2001, Albacom sostiene di aver assunto oltre
550 persone, confermando tutti i contratti di formazione; Atlanet
dichiara di avere 454 dipendenti, dei quali 129 assunti nell'ultimo
anno; nel gruppo Tim, l'incremento appare di 1464 unità. La sensazione
che si ricava da questa indubbia reticenza è che la situazione è
certamente molto fluida, ma palesemente critica. Per lo meno abbastanza
da indurre alla prudenza.
Inoltre, come ribadiscono dai sindacati, anche se le riorganizzazioni
contrattuali sono all'inizio, le premesse non sono buone, perché
nonostante la situazione del settore sia palesemente negativa, c'è
una sottovalutazione politica del problema.
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