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Il contributo italiano alla Stazione spaziale

Un test per il crash spaziale

Alla ricerca dei detriti spaziali


Rifiuti spaziali

 

Il bit, protagonista assoluto dell'era della comunicazione, è il mattone elementare di informazione, senza sostanza, senza peso, perfettamente pulito e, per così dire, ecologico. Ma è proprio così? I bit, infatti, saranno anche eterei e impalpabili, ma hanno bisogno di autostrade su cui viaggiare, che sono fatte di cavi, fibre ottiche o, in molti casi, sono satelliti. Insomma: oggetti. Nel mondo digitale tutto invecchia piuttosto in fretta, soprattutto gli oggetti. Se un cavo vecchio si può sostituire, che ne facciamo di un vecchio satellite? E che fine fanno i pezzi degli enormi missili che servono a portare in orbita i satelliti nuovi?

Gli oggetti fabbricati dall'uomo, che rimangono in orbita anche se non assolvono più alcuna funzione utile e che anzi stanno aumentando in maniera sempre più preoccupante, ufficialmente si chiamano detriti orbitali, ma nel gergo meno ufficiale degli addetti ai lavori sono "space junk", spazzatura spaziale. Ce ne sono circa novemila con dimensioni superiori ai 10 centimetri, attorno ai 100mila tra 1 e 10 centimetri di diametro, mentre quelli più piccoli sono probabilmente decine di milioni. Si tratta, perlopiù, di parti di satelliti ormai fuori servizio, pezzi degli stadi finali dei missili che li hanno portati in orbita, vecchi serbatoi, bulloni, guarnizioni o rottami di collisioni precedenti. Questi detriti sono concentrati soprattutto tra 500 e 2000 chilometri di quota e viaggiano a una velocità compresa tra 7 e 10 chilometri al secondo. A tale velocità, anche l'impatto con un piccolo frammento può avere conseguenze piuttosto gravi.

Per esempio, nel 1996 il satellite francese Cerise entrò in collisione con un frammento di un razzo Arianne e solo dopo molti sforzi i tecnici riuscirono a ristabilizzare la rotta del satellite. Due anni dopo, nel gennaio 1998, un missile americano Minuteman scomparve improvvisamente dagli schermi radar a circa 400 chilometri di quota, probabilmente distrutto dall'impatto con un detrito. Anche lo Space Shuttle è vittima della spazzatura spaziale: all'inizio della sua carriera i finestrini dovevano essere sostituiti dopo ogni missione per i danni provocati dai microdetriti. Oggi la navetta in orbita vola capovolta e a "retromarcia" in modo da tenere il più possibile al riparo dagli impatti le parti più vulnerabili e delicate.

I detriti spaziali, oltre ad essere un problema etico, sono anche un problema pratico ed economico, visto che danneggiano apparecchiature che costano miliardi. La Mir, l'agenzia spaziale russa, ha esaurito i fondi e ha deciso che la stazione, lanciata nel 1986, concluderà la sua gloriosa carriera con un tuffo nell'Oceano Pacifico. Il 20 febbraio del 2001 le 136 tonnellate di rottami si spargeranno in un'area tra 1500 e 2000 chilometri a est delle coste australiane. Si chiuderà così un'epopea che doveva durare appena tre anni e che invece ha superato i quindici. Più di cento cosmonauti hanno abitato sulla Mir, alcuni vi hanno passato mesi interi, come Valerij Poljakov che detiene il record assoluto di permanenza in orbita con 438 giorni consecutivi. L'operazione di rientro si preannuncia delicata, soprattutto considerando le esperienze del passato. Sia nel caso del rientro dello Skylab che dell'altra stazione russa Salyut-7, infatti, alcuni frammenti fuori controllo non finirono in mare ma colpirono l'Australia e l'Argentina, fortunatamente senza danni. I tecnici russi assicurano che questa volta tutto andrà bene, anche perché potrebbero chiedere il contributo dei colleghi della Nasa e dell'Agenzia spaziale europea con i quali la collaborazione è ormai ben collaudata.

E in effetti, difendersi dai detriti spaziali è possibile: basta prendere le adeguate misure di sicurezza e soprattutto rendersi conto che un problema esiste e va risolto.