"Il lavoro è un incubo"
Secondo l'economista Christian Marazzi la mentalizzazione
del lavoro ci fa sentire "unici": per questo così
tante persone lavorano in condizioni di "schiavismo"
di Wanda Marra
Professor Marazzi, nel suo libro, Il posto dei calzini,
lei sostiene che produzione e comunicazione non sono che un'unica
cosa e che il linguaggio dell'economia attuale è il linguaggio
performativo di John Austin, un "enunciato linguistico che
non descrive uno stato di cose, ma produce immediatamente un fatto
reale". Secondo lei é quello che succede con Internet?
Quando ho scritto quel libro, non pensavo ad Internet, ma Internet
è stata la massima realizzazione della compenetrazione
tra azione comunicativa e azione produttiva. La Rete, inoltre,
ha una valenza che eccede il puro linguaggio; ormai è parte
integrante dell'economia, anche se si era sperato costituisse
una sfera di libertà.
Il linguaggio diventa performativo e ha la forza di trasformarsi
in cose e produrre azioni, senza riferimento a cose preesistenti.
L'entrata del linguaggio nell'economia permette di organizzare
l'ambito produttivo secondo modalità impensabili con la
fabbrica, che aveva una sua rigidità sociale e organizzativa
quasi fisica.
Con le nuove tecnologie, una serie di mansioni vengono delegate.
Si produce un crescita della ricchezza che ha una serie di risvolti
negativi, come la flessibilità e l'aumento del lavoro.
Si è creato un universo lavorativo nel quale la differenza
tra tempo lavorativo e tempo privato è inesistente. In
questo modo, il lavoro è un incubo.
Bill Lessard e Steve Baldwin nel loro libro dedicato ai Netslaves
dividono i lavoratori della new economy in undici caste, che vanno
dal grado più basso a quello più alto della scala
lavorativa. I Netslaves, gli schiavi della nuova economia, sono
in realtà tutti i lavoratori di questo settore. Lei è
d'accordo?
Nella new economy, in particolare nella fetta in cui si produce
per la Rete, il lavoro è simile a un lavoro schiavistico:
non ci sono orari, non ci sono coperture assicurative, i lavoratori
sono dipendenti delle oscillazioni e degli umori del mercato.
Questo settore della new economy è di tipo schiavistico,
quasi castale, i padroni assomigliano ai vecchi padroni delle
ferriere.
Milioni di giovani sono stati attirati dal miraggio di una ricchezza
facile. Nel 1998, la rivista americana Fortune pubblicò
un'inchiesta, secondo la quale il 77 per cento degli studenti
americani prevedeva di diventare ricco in poco tempo. Si tratta
di un miraggio costruito sul successo di pochissimi. In questo
mondo produttivo si fa molta leva sul tipo di lavoro. Le persone
si sentono insostituibili, perché la mediazione del lavoro
manuale è diventata banale. Non esiste più il lavoro
concreto tradizionale, per esempio quello dell'albergatore che
controlla le stanze dell'albergo. Ora il lavoro concreto che caratterizza
ciascuno è un lavoro cognitivo, mentale: e questo ci fa
sentire unici, insostituibili. Altrimenti lo sfruttamento non
si spiega. Adesso la crisi la sta ridimensionando, ma si deve
tentare di capire perché la new economy ha attirato tante
persone in condizioni come queste.
Lo stress è al centro della vita dei netslaves. Uno
stress soprattutto mentale e psicologico che non risparmia nessuno.
In un certo senso il lavoro sembra essere diventato l'unica dimensione
della vita. Dunque, tutto questo è accaduto perché
ci sentiamo unici?
Prima c'era una distinzione netta tra il tempo dedicato a lavorare
e il resto del tempo. Un operaio usciva dalla fabbrica e smetteva
di lavorare. L'alienazione tanto deprecata era anche una separazione
dal lavoro, con il quale si aveva un rapporto di indifferenza.
Con l'avvento delle nuove tecnologie e la mentalizzazione del
lavoro, c'è stato un tentativo di fondere lavoro e lavoratore:
non si smette mai di pensare al lavoro, si fanno propri gli obiettivi
della propria impresa, anche se questi magari non portano nulla
di concreto al singolo individuo. Questo passaggio si può
certamente analizzare come una perversione diabolica del capitale,
ma si deve tentare di capire il perché di quello che è
successo. Molti sono stati costretti a lavorare in questo modo,
ma molti l'hanno fatto per entusiasmo. Non c'è dubbio che
la new economy ha funzionato anche per questa capacità
di assorbimento e di immedesimazione spontanea.
Secondo lei si andrà avanti per questa strada o si
tornerà indietro?
Non si tornerà indietro. Ma per rispondere a questa domanda
bisogna anche cercare di capire cosa sta succedendo in queste
settimane di crisi. Sicuramente stiamo entrando in una fase di
riorganizzazione. Mi capita di leggere di persone che si sono
organizzate per fare delle rivendicazioni normative. Non ci sono
sindacati, ma si stanno ponendo all'attenzione una serie di questioni,
come i licenziamenti, le vacanze ecc. La tendenza è verso
una normalizzazione del lavoro, un ampliamento del lavoro dipendente,
diversamente da quanto si era creduto in passato. Che si arrivasse
a un mondo di lavoratori indipendenti è stata un'illusione.
La rivendicazione dell'autonomia, con l'automatizzazione è
stata una trappola. Adesso ci sarà la rivendicazione della
sicurezza e della separatezza, rispetto alle oscillazioni del
lavoro: in questa new economy i lavoratori hanno pagato le conseguenze
della crisi, molto più dei padroni.
In una recensione al libro di Mandel, Internet depression,
lei afferma che la new economy è in realtà una anti-economy.
Ci può spiegare che cosa significa?
Le potenzialità economiche internettiane sono tantissime.
Ma pensiamo alla vicenda Napster, che ha mostrato che i beni possono
essere messi in circolazione liberamente. È nella natura
della new economy e delle nuove tecnologie poter "clonare"
all'infinito.Il processo contro la Microsoft per il monopolio,
ha messo l'accento su un problema centrale: come conciliare la
natura sociale e collettiva di ciò che la new economy produce
con la sua appropriazione privata?
Secondo me il passaggio dalla fase euforica alla fase di crollo
si può ricercare proprio nel momento del processo a Bill
Gates. Questo è emblematico. Il problema principale è
quello della proprietà privata di qualcosa che è
sociale perché riproducibile. In questo senso la nuova
economia si può considerare un'antieconomia.
Christian Marazzi ha insegnato Economia e Sociologia alla
State University di New York, all'Università di Losanna
e all'Università di Ginevra. E' stato economista-ricercatore
presso il Dipartimento Opere Sociali e attualmente lavora presso
la SUPSI, Dipartimento di lavoro sociale. Tra le sue pubblicazioni:
La povertà in Ticino (Bellinzona, 1987), Il posto
dei calzini (Casagrande, Bellinzona, 1994), E il denaro
va (Casagrande-Bollati Boringhieri, 1998).
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