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Georgia Garritano

Emanuele Levi, partner di Pino Venture, ripercorre il recente cammino della new economy e indica le tendenze evolutive per il prossimo futuro: dopo la corsa frenetica agli investimenti e il periodo di panico è il momento del consolidamento

C'è stato un tempo in cui il suffisso ".com" creava di per sé valore, la disponibilità di risorse finanziarie era quasi infinita, il principale driver del mercato era la crescita, il controllo sui ritorni degli investimenti era limitato. Ovviamente non poteva durare a lungo e, infatti, quel periodo, il boom degli anni 1997-2000, è finito, la bolla è scoppiata, non senza lasciare sul campo morti e feriti. All'euforia è seguito, tra il 2000 e il 2001, il ritorno alla realtà: il mercato dei capitali, scottato dall'esperienza di fallimenti eccellenti, è tornato a dare la priorità alla sostenibilità del modello di business e alla profittabilità, alla graduale copertura dei costi fissi e alla selettività degli investimenti. Se questa è la breve storia della new economy, quali sono gli scenari per il 2002? Lo chiediamo a Emanuele Levi, partner di Pino Venture, la più importante società italiana di venture capital e consulenza strategica, che proprio in questi giorni, ha reso noti i risultati del suo programma di investimenti Kiwi che mostrano un incremento sia di fatturato che di margini.

Dalla Silicon Valley arrivano notizie che fanno pensare a una nuova fase di fermento nel settore hi-tech. Si può parlare di ripresa o ancora no?

Sicuramente ci sono dei segnali incoraggianti che provengono dall'economia fondamentale, anche se oggi è molto difficile determinarne la tipologia, cioè la forza e la durata. Dal punto di vista di un venture capital, ci sono poi anche altri segnali, in particolare le indicazioni dei mercati finanziari che fanno pensare a un graduale anche se ancora lento ritorno dei capitali verso iniziative legate a Internet e al commercio elettronico. Nel mese di marzo, ad esempio, è stata quotata un'azienda Internet americana, chiamata PayPal, che offre un sistema complementare a quello bancario per i pagamenti online, soprattutto per transazioni di piccole dimensioni (tipicamente peer to peer), che ha avuto un'ottima accoglienza. Il mercato, insomma, sembra gradualmente riaprirsi ad aziende di buona qualità.

Cosa è cambiato rispetto al boom degli anni Novanta?

Nel corso degli anni Novanta, soprattutto verso la fine, abbiamo assistito, specialmente nel contesto italiano, a una corsa frenetica agli investimenti in alta tecnologia. Nel settore del commercio elettronico, in particolare, c'è stata un'enorme offerta di capitali, anche per iniziative che sono partite con modelli di business non sostenibili e con management team che avevano una focalizzazione esclusivamente legata alla crescita. In seguito a questo quadro iniziale, tra il '97 e il 2000, siamo entrati in una fase di panico e ripensamento, che va da metà del 2000 fino alla fine dello scorso anno e ai primi mesi di questo, in cui dal fatto che essere un'azienda Internet rappresentasse un punto di vantaggio si è passati alla situazione opposta in cui sia per trovare finanziamenti che persone disposte a lavorare essere un'azienda Internet era diventato addirittura un ostacolo: le banche erano scettiche e le persone di miglior talento che uscivano dalle business school voltavano le spalle; queste aziende hanno avuto serie difficoltà ad attrarre talenti manageriali e a mantenere le persone che avevano al loro interno. D'altra parte, c'è stato anche un aspetto sano: si è cominciato a considerare queste iniziative anche dal punto di vista del business, a parlare di redditività, di margini, di maggiore selettività negli investimenti. Oggi, anche alla luce dell'andamento del mercato americano, ci sono sufficienti motivazioni per immaginare un 2002 migliore: ho l'impressione, soprattutto per il commercio elettronico, che siamo di fatto entrati in un nuovo stadio, in cui ci sono aziende che riescono a dimostrare capacità di generare reddito, una maggiore attenzione ai costi, un'ottimizzazione gestionale. Stiamo entrando, cioè, nella fase in cui le aziende diventano adulte e hanno modelli di business sostenibili. Ciò, probabilmente, cambia anche il campo su cui competere. Se nei primi anni, infatti, si parlava solo di crescita e negli ultimi 18 mesi solo di sopravvivenza ora, invece, entriamo in una fase in cui la competizione si vince su presupposti nuovi, ad esempio sulla capacità di queste aziende di far leva sulla base informativa relativa ai clienti che gli deriva dal fatto di aver venduto i propri prodotti su Internet.

Da dati americani risulta che prima del 1995 perché una start-up arrivasse alla quotazione in borsa occorreva un tempo medio di 6,5 anni, sceso a 1,7 nel periodo di massima euforia della new economy. Ora la tendenza si invertirà nuovamente? Dopo lo scoppio della bolla speculativa le nuove imprese dovranno dimostrare di essere solide prima di accedere al mercato azionario?

Assolutamente sì. Bisogna ricordare che c'è un ritardo dei mercati finanziari europei rispetto a quelli americani. Nei mercati americani tra il '98 e il 2000 il numero di Ipo (Initial public offering) è esploso e il tempo tra la creazione di un'azienda e la sua quotazione si è molto accorciato. Questo è successo soprattutto perché le istituzioni finanziarie hanno spostato il rischio tipico da venture capital sul mercato: aziende che in un normale corso di business avrebbero dovuto effettuare dei round di finanziamento con investitori professionali tipo appunto venture capital o operatori di private equity si sono trovati invece a raccogliere capitali con maggiore facilità e a condizioni molto favorevoli direttamente sui mercati finanziari. Quindi i mercati finanziari, che sono tipicamente caratterizzati anche da investitori non specializzati, hanno finanziato aziende che avevano profili di rischio assolutamente inadatti al mercato e al tipo di investitori cui si proponevano. Sono convintissimo che torneremo a tempi di quotazione simili a quelli precedenti la bolla speculativa, tempi, cioè, che vanno dai 5 ai 7 anni.

Rispetto al boom degli anni Novanta diminuiscono gli investimenti in venture capital: quali altre formule di finanziamento potranno aiutare le nuove imprese a decollare?

Noi ci caratterizziamo per essere un tipo di investitore che interviene in maniera significativa nella fase di cosiddetto early stage cioè dal primo al secondo anno di vita delle aziende. Esistono poi una serie di altri investitori, che sono tipicamente di origine bancaria, che invece entrano in gioco nella fase di cosiddetto development capital cioè nella seconda fase di crescita delle aziende, prima di arrivare in borsa. Certamente il ruolo del development capital è fondamentale, è quello che nel corso del 2001 è completamente mancato, fatto da cui sono derivati anche molti fallimenti: tante aziende si sono oggettivamente trovate nell'impossibilità di raccogliere nuovi fondi anche a prescindere dalla bontà del loro business, semplicemente perché il mercato finanziario si era completamente ritirato. Le istituzioni finanziarie che intervengono in fase di sviluppo delle aziende rappresentano un elemento fondamentale: c'è, quindi, da augurarsi un ritorno di questo genere di investitori. Un'altra fonte potenzialmente interessante, il cui perimetro è complicato da definire, potrebbe essere qualche forma di incentivazione di natura pubblica. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che lo strumento del venture capital è quello che accende la scintilla per la creazione di nuove aziende e che da metà anni Ottanta e nel corso dei Novanta è stato il principale motore di sviluppo dell'economia americana: la Silicon Valley è di fatto stata sviluppata in maniera intensiva proprio dal fenomeno del venture capital che ha avviato una serie di iniziative e costruito una colossale infrastruttura economica e ha creato aziende anche di grande successo: società con capitalizzazioni enormi che tuttora sono ai vertici mondiali nei loro settori, come ad esempio Oracle, sono nate grazie al venture capital. Quindi, in un'ottica di medio termine, il venture capital certamente potrebbe beneficiare di forme di sostegno per lo sviluppo delle aziende in cui investe che, in ultima istanza, va poi a incidere sullo sviluppo dell'economia reale.

Negli Stati Uniti al lieve recupero dell'economia non si sta accompagnando una crescita dell'occupazione. Perché? Questa tendenza vale anche per l'Europa? ed è destinata a durare?

Innanzitutto dobbiamo ricordare che i livelli occupazionali americani sono ancora estremamente elevati, quindi il fenomeno della disoccupazione negli Stati Uniti non è molto significativo in termini assoluti, anzi, secondo alcuni economisti americani, una situazione con un livello disoccupazionale attorno al 4-5 per cento può essere definita di piena occupazione. In Europa il mercato del lavoro, soprattutto in alcuni paesi come la Francia e l'Italia, è un po' meno liberalizzato e dinamico, quindi anche gli effetti di un incremento nell'occupazione o nella disoccupazione seguono più lentamente i cambi e i punti di riflesso dell'economia.