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Pasquale Pistorio, amministratore delegato di StMicroelectronics, uno dei principali produttori mondiali di chip, e membro della United Nation Information and communication technologies task force, il gruppo di lavoro dell'Onu impegnato nella riduzione del digital divide, parla di sviluppo, lavoro e investimenti in questa fase dell'economia

Alcuni economisti dello sviluppo sostengono che il divario tecnologico non è colmabile come non lo è quello economico; che ogni rivoluzione, quella digitale come quella industriale, crea vincitori e vinti; che se anche i paesi avanzati si fermassero ora occorrerebbero decenni e investimenti enormi per risollevare i paesi poveri anche perché le tecnologie informatiche non sono una priorità di intervento sociale. La task force di cui fa parte quali obiettivi realisticamente raggiungibili ha individuato?

È ovvio che ogni rivoluzione industriale crea un divario. Quei paesi o, all'interno di un paese, quelle categorie di persone che arrivano a impadronirsi prima delle nuove tecniche, aumentano la distanza dagli altri: questo problema effettivamente esiste. Nel campo delle tecnologie dell'informazione, comunque, siccome si tratta di tecnologie "leggere", facilmente trasportabili senza grossi investimenti fissi, esiste anche la possibilità di evitare questo problema. È proprio questo che si vuole fare con la task force dell'Onu. Nel contesto della Millennium declaration, che nel settembre 2000 venne firmata da tutti i paesi dell'Onu, Kofi Annan lanciò la sfida di dimezzare la povertà estrema nel mondo entro il 2015 e furono avviate diverse iniziative: quella della task force si propone di fornire raccomandazioni, di generare idee, coordinamento, informazione, conoscenza, in modo che ci siano una serie di attività che scaturiscano da queste idee, da questi suggerimenti, per contribuire a ridurre il digital divide che si sta creando nel mondo. La task force, per la prima volta, rappresenta quattro diversi elementi: ci sono organizzazioni delle Nazioni Unite, rappresentanze dei governi, rappresentanze delle organizzazioni non governative e, finalmente, le società private. Sono in tutto 36 membri e io sono un rappresentante delle società private. La task force non ha compiti esecutivi ma di indicazione, di ideazione e, finora, nel sito ci sono già 5500 idee, proposte e raccomandazioni.

Quali iniziative di formazione avete avviato?

Effettivamente, ci sono due condizioni necessarie se si vuol ridurre il digital divide: l'accesso fisico e la formazione delle persone. Noi come società, e io personalmente come membro della task force, abbiamo lanciato un'idea che riteniamo molto importante: ogni società medio-grande, al di sopra dei 250 dipendenti, si auto-tassino, si impongano un impegno economico pari all'uno per mille del loro fatturato annuo e all'uno per mille delle ore lavorate, destinando queste somme e queste ore all'insegnamento e all'acquisto di strumenti (personal computer, modem, banda) per diffondere l'accesso. Se tutte le aziende del mondo lo facessero i risultati sarebbero imponenti. Noi come St abbiamo iniziato: è una nostra idea, ha avuto echi molto positivi, la stiamo mettendo in pratica e stiamo cercando di coinvolgere il più possibile le aziende sulla stessa idea.

Cosa significa essere sempre in rete e come cambia il modo di lavorare?

Grazie a Dio, non siamo "always on line": ci vuole anche un contatto umano. Le nuove tecnologie permettono di lavorare in un modo diverso: bisogna rendersi conto che la e-society si basa su due grandi fenomeni: la digitalizzazione e la rete. Questi due fenomeni eliminano lo spazio e il tempo. Oggi si può avere la trasmissione di una quantità illimitata di dati in tempo reale in qualsiasi parte del mondo. Questo cambia tutto, nel modo di lavorare e nel modo di interagire delle persone. Per esempio, dal nostro punto di vista di azienda, invece di avere dei grandi centri concentrati, si può avere una rete di centri. In Italia abbiamo le nostre sedi storiche nel nord a Milano e nel sud a Catania ma è molto più semplice allargare la capacità di progettazione e di ricerca mediante una serie di centri delocalizzati a Napoli, a Palermo, creando una rete. Portiamo le workstation dove sono gli ingegneri, anziché portare gli ingegneri dove sono le workstation. Grazie al fatto di essere online, il nostro ingegnere a Napoli lavora col suo collega di Catania come se stesse nella stanza accanto. Organizzativamente è un mondo diverso: non sono più necessarie organizzazioni piramidali, verticalizzate, per gestire il controllo e la supervisione: l'organizzazione diventa molto più leggera, si può avere accesso immediato ai dati, si può diffondere l'informazione immediatamente. Si hanno, quindi, strutture più leggere, che reagiscono in tempo reale, che sono molto più capaci di dare autonomia decisionale alle persone: un cambiamento profondo, per chi lo sa cogliere.

Dopo un periodo di crisi delle dotcom la ripresa sta iniziando. Che cosa rimane di positivo dopo che la crisi ha effettuato una selezione nel mercato della new economy?

Siamo ancora all'inizio di questa nuova fase creata dalle nuove tecnologie ed è chiaro che in una fase iniziale ci siano sempre degli eccessi. Molte società attiravano capitali: bastava dire "e-qualcosa" e tutti investivano. Però bisogna distinguere: c'è e-economy basata su aspettative e c'è e-economy basata su sostanza, know how, persone. è il caso della nostra azienda: abbiamo stabilimenti, personale, brevetti. Che il mercato faccia una selezione è normale, non c'è da preoccuparsi. Il fenomeno della new economy è solo agli inizi. Ci sono delle oscillazioni, degli aggiustamenti iniziali, ma abbiamo davanti a noi parecchi anni, forse decenni, di crescita fortissima, basata sulla rivoluzione informatica, che consiste proprio nella rete e nella digitalizzazione dell'informazione.

La difficoltà nel raccogliere finanziamenti per le start up è un limite al mercato o un'opportunità di selezione che garantisce il mercato da rischi?

Credo che sia un male, nel senso che il limite dovrebbe essere posto dall'esame, dal controllo, non dalla disponibilità di capitale. Il capitale ci dovrebbe essere e dovrebbe esserci la capacità di selezionare adeguatamente piuttosto che rischiare di non far nascere nuove idee per mancanza di capitali. Se si considera la realtà americana, il capitale non è un limite, anzi buona parte del boom è stato causato proprio dalla disponibilità di venture capital. In Europa il fenomeno è arrivato più tardi, da principio in Inghilterra, dove è abbastanza esteso, e si sta diffondendo anche in Italia. Più capitali di rischio sono disponibili, meglio è per l'innovazione. Queste start up portano innovazione, idee. È chiaro che chi investe deve stare attento, deve essere selettivo ma la selezione deve essere fatta non perché non c'è abbastanza capitale ma perché si deve cercare di investire nelle idee più valide.

Quali caratteristiche devono avere le aziende che lei finanzierebbe?

Gli investimenti sono sempre a rischio. Quello che si deve guardare sono due cose: le idee e le persone. Quest'idea ha una validità? Ha una probabilità di successo? E, soprattutto, come sono le persone che la realizzano? La scelta di un investimento, secondo me, va fatta su questi due elementi: gli individui che portano avanti l'idea e l'idea stessa. Il resto andrà col mercato.