Musicisti di Napoli, cittadini del mondo

Dalla world music al dub all'hip hop, dal raggamuffin al jazz allo ska, sono tanti i cantanti e i gruppi di Napoli che hanno assimilato la tradizione partenopea eludendone le convenzioni. Sull'evoluzione della napoletanità nell'era della globalizzazione abbiamo chiesto il punto di vista di alcuni artisti che, con percorsi diversi, sono protagonisti di una forte innovazione nella cultura musicale non solo italiana e mediterranea ma internazionale: 'O Zulù dei 99 Posse, Raiz degli Almamegretta ed Eugenio Bennato.

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'O Zulù dei 99 Posse sottolinea l'importanza della dimensione comunicativa della melodia per cantare la realtà e lottare per una globalizzazione più umana

Il pubblico, soprattutto quello più giovane, sembra ormai consapevole del pluralismo della produzione musicale di Napoli eppure i media continuano a privilegiare l'immagine più oleografica e stereotipata della tradizione napoletana. Come mai questo ritardo?

Probabilmente perché è un'immagine più comoda: fa piacere a chi tornando a casa accende la televisione sapere che a Napoli si balla la tarantella e si mangia un'ottima pizza. Fa sicuramente meno piacere sapere che a Napoli si muore di fame o di stenti oppure non si muore proprio di fame - perché ci sono i soliti modi di arrangiarsi dei napoletani - ma si fa una vita da schifo e si lavora in nero (nel più produttivo nord hanno inventato il lavoro interinale che, più o meno, provoca lo stesso tipo di tarantelle quotidiane a livello di sopravvivenza ma che è legale).
Noi abbiamo sempre avuto un rapporto fortissimo oltre che con l'area politica dalla quale siamo scaturiti - che è quella dei centri sociali occupati, che a sua volta faceva riferimento a ciò che rimaneva del movimento di Autonomia operaia degli anni Settanta - con la realtà in generale, sia essa di Napoli o di Milano, perché poi le realtà di un certo tipo di classe sociale si assomigliano un po' tutte. È la realtà che fa paura, non la musica.

Con la globalizzazione dei consumi, anche culturali, si apre la possibilità di portare nel mondo i linguaggi e le identità locali o si rischia di subire una nuova colonizzazione musicale?

Il rischio della colonizzazione, non solo musicale, c'è. La tendenza è quella di globalizzare tutto, dall'alimentazione alla musica fino alle cose più intime, ai bisogni e alle aspirazioni di ogni singola persona per farli diventare simili se non uguali in tutto il pianeta e poterli vendere in maniera standard più facilmente. La lotta che a mio avviso il popolo definito no global porta avanti è per un concetto di globalizzazione opposto, inteso come un continuo contatto e un continuo scambio di culture e differenti punti di vista. In questa prospettiva il dialetto assume una valenza fondamentale anche laddove perde qualcosa in capacità di comunicazione: è innegabile che con una lingua unica si potrebbe comunicare più velocemente ma andrebbero perse delle caratteristiche, dei modi di esprimersi che significano anche modi di essere. La nostra storia non è stata mai legata alla tradizione napoletana "da esportazione" ma alla necessità di comunicare col maggior numero di persone possibile senza però rinunciare ad essere quello che siamo, cioè persone che hanno vissuto gli anni della loro formazione politica e culturale non a Oslo ma a Napoli. Nella nostra produzione si trovano testi in italiano e testi in dialetto benché quelli in dialetto non sono proprio in dialetto così come quelli in italiano non sono proprio in italiano. Più che altro, cerchiamo di cantare nella lingua che parliamo tutti i giorni: la lingua italiana piena di influenze dialettali ma anche della micro-comunità nella quale viviamo.

Quali sono nelle radici musicali di Napoli gli elementi che hanno più futuro?

La melodia sicuramente, qualcosa dalla quale, per fortuna, non riusciamo a staccarci, melodia intesa, ovviamente, non come ricerca di un ritornello accattivante. Il fenomeno 99 Posse si è distinto dagli altri analoghi proprio per la presenza, all'interno di una produzione fondamentalmente raggamuffin o hip hop, della melodia: c'è sempre, più o meno, una nota ed è sempre, più o meno, in minore. Altra caratteristica fondamentale della cultura napoletana è la sua fortissima musicalità e la sua capacità di arrivare direttamente al cuore: si esprime con immagini che il pubblico può immediatamente trascinare nel proprio universo intimo e nelle quali inquadra l'emozione che il cantante cerca di comunicare. Infine, l'ironia e l'autoironia. L'approccio autoironico è sempre quello più convincente dal mio punto di vista: mi fido molto poco di quelli che sono pieni di certezze e di solito apprezzo quelli che sono pieni di dubbi.

La contaminazione tra i generi rischia di diventare di maniera?

Si, sicuramente, ma anche la purezza etnica rischia di diventare una maniera, tutto rischia di diventare una maniera. Non deve essere questo pericolo a spaventarci. Anche le posse sono state una maniera: bastava che tre ragazzini si incontrassero al bar sotto casa e diventavano un gruppo politico. Ciò, per fortuna, non ci ha fatto venire meno al progetto forte che ritenevamo di avere e penso che abbiamo fatto bene. Sì, esisteranno gruppi che esprimono scarso valore artistico e comunicativo o che nascono esclusivamente per motivi di business, però nulla toglie alla validità di quelli che hanno qualcosa da dire e cercano di andare avanti col massimo della coerenza possibile.

Quali sono, tra gli artisti che dialogano con la tradizione napoletana, quelli che stanno dando i contributi più originali?

Escludo, ovviamente, i 99 Posse. Sicuramente gli Almamegretta, che nascono come progetto culturale fortemente legato alla tradizione melodica e anche espressiva napoletana e che, però, da sempre, ricercano analogie, similitudini e compatibilità di questa cultura con musicalità che vengono da altre parti del mondo, dal centro America, dal sud America e anche da Londra.

Avete da poco festeggiato col doppio cd antologico NA_99_10° il vostro decimo compleanno. Cosa è cambiato nella vostra musica e nel panorama musicale di Napoli in questi dieci anni?

È cambiato tutto. Dieci anni fa a Napoli c'era il grande fenomeno dei neomelodici. Esisteva, sì, anche l'underground ma non riusciva a uscire dalla scena napoletana. Era una scena fortemente punk, a volte hardcore, all'interno della quale c'erano anche gruppi abbastanza conosciuti in Italia e qualcuno perfino all'estero ma si trattava di un fenomeno marginale rispetto al mainframe culturale di quel periodo e questo perché il punk, come si sa, non ha nessuna volontà né di mediazione né fondamentalmente di macro-comunicazione in quanto linguaggio di un piccolo gruppo che sceglie di essere tale e non aspira a diventare un grande gruppo. Nei primi anni Novanta, quando abbiamo scoperto l'uso del rap come mezzo di comunicazione privilegiato, abbiamo dato inizio a un cambiamento radicale nel modo di rapportarsi alla musica: fino ad allora quelli che si avvicinavano a uno strumento lo facevano avendo in tasca dischi e cassette di importazione, quasi tutti statunitense qualcuno inglese, e si esprimevano anche quando facevano testi e musica propri in quella lingua. Con l'avvento delle posse si è avuto un grande recupero della lingua italiana e della comunicazione col pubblico nel momento stesso in cui si fa musica e non solo durante le interviste.

Tra pochi giorni esce il libro Cartoline zapatiste. In viaggio con Marcos e con la 99 Posse. Da anni sostenete la causa del Chiapas, quali altre istanze politiche, in particolare poste dalla globalizzazione, sollecitano il vostro impegno?

La globalizzazione è un processo irreversibile che però può essere affrontato diversamente a seconda degli obiettivi che ci si pone. Gli obiettivi che si pone chi in questo momento ha i mezzi per lavorare realmente alla globalizzazione sono obiettivi fondamentalmente di mercato e legati agli interessi delle multinazionali che governano il mercato nel pianeta. Chi sta dall'altra parte non può che soffrire per queste scelte; chi sta dall'altra parte è la grande massa operaia dislocata un po' in tutto il pianeta che ha bisogno di regole come ne ha bisogno chi governa; solo che chi governa le regole se le costruisce: hanno abolito i dazi doganali, hanno la libertà di dislocare la produzione, di aprire conti in banca ovunque, hanno la possibilità di non pagare le tasse semplicemente investendo nelle loro aziende. La classe operaia, invece, non ha un salario minimo uguale per tutti i lavoratori del mondo, ovviamente distinto per categorie: è questo che tiene in piedi la necessità e la volontà delle multinazionali di aprire le sedi dove la forza lavoro costa di meno ed è questo che noi oggi combattiamo. Lo facciamo in Messico con gli zapatisti del Chiapas che da quella situazione di estrema periferia del mondo della cultura e della produzione riescono a porre la centralità di questi problemi. Lo faremo tra meno di un mese partecipando a una carovana in Palestina. Lo abbiamo fatto a Praga. Lo abbiamo fatto a Genova. Lo facciamo dovunque ci sia la possibilità di opporsi o dando solidarietà o organizzando momenti di lotta reale.