Musicisti di Napoli, cittadini del mondo

Dalla world music al dub all'hip hop, dal raggamuffin al jazz allo ska, sono tanti i cantanti e i gruppi di Napoli che hanno assimilato la tradizione partenopea eludendone le convenzioni. Sull'evoluzione della napoletanità nell'era della globalizzazione abbiamo chiesto il punto di vista di alcuni artisti che, con percorsi diversi, sono protagonisti di una forte innovazione nella cultura musicale non solo italiana e mediterranea ma internazionale: Eugenio Bennato, Raiz degli Almamegretta e 'O Zulù dei 99 Posse.

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Eugenio Bennato parla del futuro della musica partenopea nell'era della mondializzazione: contro la napoletanità più convenzionale il ritmo trasgressivo della taranta in dialogo con tutte le energie del Mediterraneo

Il pubblico, soprattutto quello più giovane, sembra ormai consapevole del pluralismo della produzione musicale di Napoli eppure i media continuano a privilegiare l'immagine più oleografica e stereotipata della tradizione napoletana. Come mai questo ritardo?

I media sono in ritardo in generale. Per quanto riguarda la mia esperienza, negli ultimi due anni con Taranta Power ho tenuto concerti in tutto il mondo, nei più prestigiosi festival di musica internazionali, a Londra, Reading, Singapore, Melbourne, Buenos Aires, Los Angeles; l'anno scorso abbiamo partecipato al Womad di Peter Gabriel in tre edizioni. Ciò dovrebbe costituire una notizia importante per l'Italia, invece questa notizia non attecchisce. Comunque non me ne preoccupo, continuo a fare musica e mi aspetto che i mass media comincino a stare al passo con la realtà e la realtà è che noi stiamo diffondendo delle cose nuove. È vero, l'immagine di Napoli veicolata nel mondo è ancora quella oleografica: è questo il nemico da abbattere. Ma accanto a questa immagine, che si rivolge ed è alimentata dal pubblico degli italiani all'estero, c'è anche un'immagine nuova.

Con la globalizzazione dei consumi, anche culturali, si apre la possibilità di portare nel mondo i linguaggi e le identità locali o si rischia di subire una nuova colonizzazione musicale?

Penso e spero che si realizzi la prima ipotesi. Questo confronto continuo opererà una selezione per cui sopravviverà chi ha da dire qualcosa di realmente legato alle radici. Se non avessi una musica radicata nell'Italia del sud, se non avessi strumenti tradizionali come la tammurra e la chitarra battente, resi però moderni da un'interpretazione musicale nuova, non avrei diritto di cittadinanza nel mondo. Gli spagnoli che arrivano da noi sono quelli che fanno il flamenco; lo stesso discorso vale per il fado portoghese: se dal Portogallo uscisse un gruppo rock non susciterebbe lo stesso interesse. Sono queste le espressioni che hanno diritto di cittadinanza in tutto il mondo. Nella globalizzazione è ancora più importante l'identità di ciascun paese, di ciascuna regione, di ciascuna etnia.

Quali sono nelle radici musicali di Napoli gli elementi che hanno più futuro?

Napoli è stata la capitale del Regno delle Due Sicilie e questa è la sua storia. Napoli è un porto di mare e questa è la sua geografia. Da questa storia e da questa geografia derivano gli elementi che caratterizzano Napoli. Da una parte la capitale acquisisce e sintetizza la musica delle campagne, dalla Puglia alla Calabria alla Sicilia. Dall'altra, centro internazionale, viene a contatto con le altre corti. Il porto, meta di continui arrivi, dai saraceni agli spagnoli agli americani, ne fa una città aperta a tutte le influenze. La più recente è quella degli americani che negli anni 43-45 e nel dopoguerra portano la loro musica e i loro strumenti. Napoli, immediatamente, secondo una caratteristica che le è propria, riesce a interiorizzare altre culture. Napoli, prima francese, spagnola, aragonese, angioina, borbonica è infine anche americana. Personaggi come Renato Carosone, Peppino Di Capri, Pino Daniele hanno sicuramente ricevuto una grande influenza proprio dalla storia del dopoguerra quando i mandolini si fondono con le orchestrine jazz.

La contaminazione tra i generi rischia di diventare di maniera?

Dipende dall'energia artistica. La contaminazione è il passo che fa girare il mondo: non esiste la musica etnica originale che esca fuori dal suo ambito rituale. Il jazz è una contaminazione, il blues è una contaminazione. L'importante è che il punto di partenza, la materia che si contamina sia talmente forte, talmente ben posseduta che non muoia nella contaminazione. Ad esempio, il ritmo terzinato della taranta si può fare anche con la chitarra elettrica. Il problema è aver sempre presente il filo tecnico e artistico; poi che si fonda con il flamenco o con il fado non è essenziale. Oggi viviamo nella realtà delle comunicazioni veloci in cui memorizziamo tutto il rock che ci arriva dall'America, tutto il fado che ci arriva dal Portogallo.La cosa importante, forse geniale, è che in questa globalizzazione un musicista italiano continui a essere italiano tenendo, però, presenti tutte le altre musiche.

Quali sono, tra gli artisti che dialogano con la tradizione napoletana, quelli che stanno dando i contributi più originali?

Ci sono artisti napoletani "forti". Vorrei escludere me perché sono io che parlo, posso solo dire che siamo quelli che stanno veicolando in questo momento un'immagine nuova di Napoli nel mondo. Vorrei citare i 24 Grana, i 99 Posse, gli Almamegretta.
C'è anche una contaminazione che a volte, secondo me, cade troppo nell'imitazione, però è comunque interessante perché la matrice napoletana, l'essere scugnizzi, l'essere metropolitani, c'è sempre.

La ricerca sul tarantismo non è ovviamente solo un'operazione di rilancio ma crea qualcosa di nuovo a partire da un ritmo antico. Perché? Cosa può comunicare la tarantella agli ascoltatori di oggi?

Trasmette un coinvolgimento sorprendente, superiore al flamenco, superiore alle danze latino-americane. È una danza di trance liberatoria che mantiene la sua forza anche al di fuori degli spazi rituali. La tarantella nasce come cura per il morso della tarantola e continua a vivere nei centri sociali, nei raduni etnici mondiali come una danza di gruppo liberatoria e con una grande energia trasgressiva.

I dischi, la scuola di tarantella a Bologna, la partecipazione al Womad, il festival di musica etnica promosso da Peter Gabriel, la tarantella della pace ad Algeri. quali le prossime iniziative del progetto Taranta Power?

A fine marzo uscirà un nuovo disco che si intitola Che il Mediterraneo sia. Sono fermamente convinto che nel Mediterraneo nel nome della taranta ci sia un grande affiatamento tra i nostri tamburi, i tamburi algerini, i tamburi tunisini. I nostri, per certi versi, prevalgono, hanno una carica in più, la magia della taranta appunto, però il dialogo con tutte le energie del Mediterraneo è apertissimo.

In una sua vecchia canzone (Frutta originale, 1982) lei cantava: "la musica non è solo colore", una frase che ha un valore generale ma si addice anche alla tradizione partenopea e al modo in cui viene presentata: cos'è allora la musica, quella napoletana in particolare?

Il testo diceva "la musica non è solo colore ma si ce sta a freschezza è meglio ancora". La musica, cioè non è solo luogo comune, non è solo frase fatta. È qualcosa che deve essere vivo, che deve avere a che fare con la libertà. La canzone napoletana può essere qualcosa di superato, di arcaico, o può invece esplodere in una voce della realtà contemporanea. Dipende dalla capacità dell'artista, e vorrei aggiungere dell'esecutore, di legarsi alla realtà che vive. Io non credo nella musica da museo, credo nella musica della vita, della verità.