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Cristina Pini

Breve viaggio nella metropoli del futuro dove la fantasia diviene realtà

"Chist'è 'o paese addó tutt''e pparole, só doce o só amare, só sempe parole d'ammore", tra i versi della più popolare canzone, famosa in tutto il mondo, cantata finanche dai giapponesi e tradotta persino in scandinavo e che non hanno bisogno di traduzione essendo il linguaggio e la poesia della canzone napoletana assolutamente universale.

Un territorio di conquista, spesso presentato come un insieme informe, ove si succedono senza alcuna tregua greci e romani, viceré e svevi, angioini, aragonesi e spagnoli, senza -apparente- alcuna opposizione popolare, quasi nella più assoluta accondiscendenza.
E' la Napoli che nasce dal mito della sirena Partenope che cerca la morte come rimedio al fallimento di non aver saputo ammaliare Ulisse con il suo canto, e approda sullo scoglio di Megaride primigenia matrice della successiva Neapolis. La Neapolis che ha spinto i suoi dominatori alla conquista a causa della sua posizione strategica, ma anche -e forse soprattutto- a causa della bellezza della natura e della dolcezza del clima, terra che si apre all'invasione, il cui popolo è sicuramente più pacifico e accomodante che guerriero e belligerante. E' la Napoli "femmina" che accoglie chiunque senza opporre alcuna resistenza. E risulta essere ineluttabilmente femminea la sua identità nel corso della storia e intrecciata nel vissuto di ispirazioni culturali ed estetiche ineluttabili. L'epicureismo greco commisto all'immediatezza della passionalità che affonda le sue radici in un sentimento di ispirazione romanticamente spagnola -forse araba- tutta mediterranea, all'origine del processo genetico ed evolutivo del popolo napoletano. Popolo pervaso da quella gioia di vivere ispirata all'edonismo, seppure impuro poiché non esclusivamente finalizzato alla ricerca del bello e del sublime in tutte le sue forme, ma frammisto a una sorta di dolore di sofferenza di sogno, un piacere volutamente 'instabile' composto di piccoli momenti, in una sorta di 'carpe diem' tutto napoletano. Ma è anche la Napoli della povertà e dell'opportunismo, città che ha portato Benedetto Croce a scrivere nella sua "Storia del Regno di Napoli" 'Franza, Allemanna basta che se magna', somma conclusione del pensiero filosofico partenopeo del "vivi e lascia vivere".

E non poteva che trovarsi qui - in questa terra dove la fantasia è considerata realtà, in cui sensibilità, passionalità e istintività sono prepotentemente commiste a una tradizione colta e matura - il terreno più fertile per accogliere il germe di una musica dolorosa, giocosa e provocatoria, una musica universale come, forse, solo la musica e la canzone napoletana sa essere. Dai suoi primordi, da quell' "Jesce sole" del 1200 citato anche da Boccaccio nel suo Decameron, passando per Michelemma (pieno 1600) scritta da Salvator Rosa -primo tentativo di avvicinare la letteratura al popolo, in una commistione di poesia e musica dolce e dove si riescono a intravedere le sonorità proprie della futura tarantella- al riconoscimento e alla consacrazione come fenomeno musicale a sé stante nella barcarola "Te voglio bene assaje", che leggenda vuole musicata da tale Gaetano Donizetti e subito riportata dal popolo nel tripudio della festa di Piedigrotta. Era il 1835 e il periodo d'oro della canzone napoletana stava iniziando in un tripudio di ritmo e musicalità, fusione di sentimenti nostalgici e di umori contrastanti, umori tipici dello spirito napoletano, in cui si contrappone un senso di povertà atavico a una dirompente espolosione di vitalità. La tradizione continua negli anni a venire, da "Funiculì Funiculà" (1880), canzone composta per l'inaugurazione della prima funicolare e tutt'ora una delle canzoni più cantate al mondo -cantata persino dai tifosi della squadra di calcio Manchester United per infondere carica ai giocatori- agli anni '50 e '60 del secolo scorso in cui sono rinverditi gli antichi fasti di quella napoletanità -commista alle influenze d'oltreoceano- che il 'Ventennio' aveva oscurato.

La musica napoletana ha seguito il ritmo del tempo, si è oltremodo evoluta in fondendo sonorità non insite nel suo spirito ma fortemente contaminanti, di Jazz, Rock 'n Roll, Blues arrivando persino al Rap, rimanendo sempre poeticamente fedele a sé stessa, fedele a quel popolo e a quella città che, forse a ragione, può essere considerata l'unica terra di vera contaminazione culturale, vera metropoli del futuro.