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La corsa della tartaruga

Eleonora Giordani

Breve viaggio nel concetto di velocità dalla fisica aristotelica ad Einstein

Proviamo ad immaginare un mondo senza velocità. E' semplicemente impossibile: senza velocità non c'è movimento e il movimento, per quanto impercettibile, è necessario alla vita. Va in tal senso anche il preambolo di Aristotele alla sua Fisica: non esiste scienza della natura senza scienza del movimento. Ogni volta che qualcosa si muove da un punto ad un altro si crea un traiettoria che si può misurare in un lasso di tempo anch'esso misurabile. Di qui la definizione tradizionale di velocità come il rapporto di misure tra la distanza percorsa da un oggetto e il tempo impiegato a completare il tragitto

Un numero enorme di studi sono stati consacrati alla storia dei concetti di spazio e di tempo, ma la velocità in se stessa, in quanto oggetto centrale della cinematica, non ha avuto questo privilegio.

Fino a circa 400 anni fa, lo studio del moto era impostato su criteri spesso più filosofici che scientifici. Ad esempio, nella concezione aristotelica, la caduta verso il suolo di una palla di cannone era interpretabile come la manifestazione, o la conseguenza, di una tensione del corpo verso la sua posizione naturale; agli oggetti celesti, il Sole, la Luna e le stelle, si attribuiva un moto circolare intorno alla Terra, perché ritenuto il moto perfetto per antonomasia.

A Galileo si deve il merito di aver cominciato ad analizzare il moto dei corpi con criteri scientifici, in termini di spostamenti compiuti a partire da una data posizione iniziale, in un determinato intervallo di tempo. Egli mostrò che la velocità di un corpo in caduta libera aumenta a un ritmo costante nel corso della caduta e che questo ritmo, se si trascurano gli effetti dell'attrito, è uguale per tutti i corpi. Isaac Newton poi, definì rigorosamente i concetti di forza, massa e accelerazione ed enunciò il principio, noto oggi come seconda legge della dinamica, che descrive la relazione esistente tra queste grandezze. Le leggi di Newton sono tuttora valide per la descrizione dei fenomeni ordinari; sono invece inappropriate a descrivere il moto dei corpi dotati di velocità prossime a quella della luce, per i quali fu concepita la teoria della relatività di Albert Einstein ("Nessun segnale può viaggiare ad una velocità superiore a quella della luce nel vuoto" recita uno dei principi della relatività ristretta). Idem per il comportamento delle particelle atomiche e subatomiche, che sono invece oggetto di studio della teoria quantistica.

L'espressione quantitativa della velocità tuttavia non basta ad esprimere la sua essenza. Già Zenone d'Elea, nel celebre paradosso di Achille e della tartaruga mostrava il fallimento del ragionamento logico di fronte al problema della possibilità del movimento e delle differenze qualitative dello stesso: se Achille pié veloce parte dopo la tartaruga e la vuole raggiungere, non ci riuscirà mai perché mentre lui percorre un tratto di strada, la tartaruga ne percorrerà un altro e sarà sempre davanti.

Il paradosso è inattaccabile dal punto di vista logico, se si vuole spiegare la velocità solo in termini di spazio e di misura. Per questo il filosofo Henri Bergson lo critica, notando che i passi di Achille devono essere considerati come degli atti e non soltanto come traiettorie spaziali. In queste condizioni, l'atto di Achille include anche un aspetto temporale che crea un velocità superiore a quella della tartaruga. Per Bergson nelle formule matematiche manca ciò che è essenziale nel movimento: la sua durata e la sua percezione come esperienza soggettiva in termini di intensità, frequenza, concentrazione, impiego d'energia, accelerazione, rallentamento.

Tempo assoluto, tempo relativo, velocità naturale, velocità soggettiva. In questo mare di spunti di riflessione nasce una domanda e si rischia il delirio. Bisogna cercare o no la velocità? Se questa esiste già indipendentemente da noi come elemento oggettivo della realtà, la questione potrebbe essere: perché uniformarci alla natura? La rapidità e la lentezza si trovano comunque in noi e quindi piuttosto che scegliere tra l'una e l'altra forse sarebbe il caso di cercare il giusto equilibrio tra queste due istanze, sia nella nostra comprensione del mondo che nel nostro modo di vivere.