Bifo: "Nessuna patologia, qui si tratta di mutazione
sociale"
Ma quale net-addiction? Per Franco "Bifo" Berardi, il
discorso del rapporto tra individui e nuove tecnologie non è tanto
un discorso di patologia più o meno marcata. Piuttosto si tratta di
un vero e proprio cambiamento, in profondità dell'individuo.
"Per la verità, questa storia dell'assuefazione al virtuale
non mi ha convinto mai. Perché noi non stiamo parlando di una
malattia. Stiamo parlando di una mutazione. La mutazione è una vera
e propria trasformazione irreversibile dell'organismo individuale e
dell'organismo sociale. Questo è ciò che produce il virtuale, in
bene e in male. È evidente che in un processo di mutazione
l'organismo, fisico e psichico, attraversi delle fasi di malessere,
di febbre, ma questa è parte di una mutazione irreversibile e
inevitabile".
D'altra parte si può dire che Internet non crei patologie, ma
sottolinei delle patologie già esistenti.
Se una patologia della relazione nel nostro tempo esiste, ed
esiste di sicuro, questa non dipende dal fatto che c'è Internet,
dipende dal fatto che la vita, la sessualità, il lavoro, la
famiglia, i rapporti sociali, sono a tal punto frenetici,
competitivi, malati, che spesso noi preferiamo staccare tutto,
chiuderci di fronte ad una scatola colorata e rimanere in rapporto
con la virtualità. Ma questo non vuol dire che Internet sia una
malattia o un fattore patogeno. Significa che Internet è un rifugio
inevitabile in una vita che tende a diventare patologica, uno dei
tanti rifugi possibili.
Cambiare identità in Rete è un gioco o una patologia?
Quanto più siamo capaci di rinunciare ad un'identità fissa,
tanto più possiamo diventare ricchi conoscitivamente e
psicologicamente. Quindi, l'abbandono e la moltiplicazione
dell'identità non è affatto una patologia. Può diventare una
patologia, ma per ragioni che non dipendono dalla tecnologia. Può
diventarlo per ragioni che dipendono dalla nostra relazione con gli
altri. O per ragioni che dipendono dal lavoro che facciamo. Ripeto:
non credo che qui si tratti di una malattia. Credo che si tratti di
un processo di mutazione, che ha certo degli aspetti spaventosi, ma
che non sono isolabili dal contesto sociale.
Hai mai esagerato nel tuo rapporto con la Rete?
Francamente no, ad un certo punto sono stanco e mi capita di
dover fare qualcosa di più interessante. Se esagero è perché il
lavoro mi costringe a farlo. Non è colpa della Rete, è colpa del
lavoro che mi costringe a stare davanti ad uno schermo più a lungo
di quanto vorrei.
A questo punto cosa ci rimane da fare, ci disconnettiamo
tutti?
Disconnettersi sarebbe una vera stupidaggine, perché perderemmo
molto del piacere intellettuale del nostro tempo. Però è vero che
dovremmo essere capaci di modulare meglio il nostro rapporto con la
connessione. In verità io credo che se c'è un vero pericolo sta
più in strumenti come il telefono cellulare, che entra
continuamente nella nostra vita. Mentre Internet, proprio per il suo
carattere volontario, non entra nella nostra vita. Siamo noi che
entriamo in Internet. Quindi l'importante è mantenere il governo
del proprio tempo e della propria connessione. Se talvolta perdiamo
questo controllo, la colpa non è di Internet. La colpa è semmai
della relazione sociale, produttiva ed economica rispetto alla quale
Internet è solo un elemento.
Tu hai scritto un libro dedicato alla new economy che si
intitola "La fabbrica dell'infelicità". Un titolo da
apocalittico, ma sembri più un integrato.
Io sono un apocalittico e un integrato. Sono apocalittico quando
parliamo dei regimi sociali che ci costringono a trasformare tutta
la nostra intelligenza, la nostra vita, le nostre comunicazioni in
lavoro, denaro, accumulazione. Invece sono perfettamente integrato
quando si tratta di parlare di tecnologia e comunicazione. Amo la
connessione, a patto di essere io a decidere come, quando e perché.
Da anni Clifford Stoll sostiene la necessità di
disconnetterci. Non è che nel suo modo di pensare, oltre ad una
sincera preoccupazione, c'è lo snobismo di chi era presente
all'inizio e non ci sta più ora che Internet è diventato un
fenomeno di massa?
Stoll è molto simpatico, e dice più cose vere. La prima è che
il nostro rapporto con il nostro corpo e con il corpo delle persone
che abbiamo intorno tende a diventare qualcosa di disturbato. Ma
questo è colpa delle tecnologie solo in misura minuscola. In
realtà è colpa dell'economia, è colpa del modello sociale nel
quale noi viviamo, a cui le tecnologie sono organiche. Poi è anche
vero che Clifford Stoll ricorda un'epoca leggendaria della Rete, in
cui la Rete era frequentata solo da gente piena di lauree. È vero,
la Rete si è popolarizzata, e quindi ha perduto gran parte del suo
fascino. Ma questo non è il punto. Quello che mi preoccupa nel
discorso di Stoll è una specie di integralismo, di idea della
purezza di una vita senza tecnologie. Io non credo nella purezza:
credo nella contaminazione, nell'intreccio di cose diverse. Non mi
fa paura la tecnologia, il problema è fino a che punto siamo in
grado di governarla felicemente. In questo Stoll ha ragione, anche
se rischia di diventare un integralista. Senza integralismo, io sono
d'accordo con lui che il modello nel quale tendiamo a vivere, è un
modello in cui la tecnologia prende il posto del corpo. E questo non
mi piace.
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