Introduzione
Nella prima parte del nostro corso ci siamo occupati
soprattutto delle componenti interne di un computer: abbiamo esplorato la
piastra madre, abbiamo parlato della CPU (Central Processing Unit), ci siamo
soffermati sui diversi tipi di memoria utilizzati.
Per prima cosa, può
essere forse utile fare alcuni esempi. Un tipico dispositivo di input è la
tastiera: alla pressione dei tasti corrisponde l’invio verso l’unità di
elaborazione dei caratteri corrispondenti (o meglio, della codifica digitale dei
caratteri corrispondenti). Anche il mouse è un dispositivo di input: attraverso
appositi sensori, il computer riceve informazioni (naturalmente, in formato
digitale!) sullo spostamento della pallina collocata alla base del mouse stesso,
e le interpreta come spostamenti da far eseguire al cursore sullo schermo;
analogamente, il ‘click’ del mouse (la pressione di uno dei suoi tasti)
viene ricevuto e interpretato in accordo con le istruzioni fornite dal programma
che si sta utilizzando.
Figura 1 - Dispositivi di input:
il mouse
Altri dispositivi di
input sono ad esempio uno scanner (attraverso di esso il computer ‘riceve’
immagini tradotte in formato digitale; ne parleremo in dettaglio tra breve) o
una scheda di acquisizione sonora.
Quanto ai
dispositivi di output, vengono subito in mente la stampante e lo schermo; uno
schermo sensibile al tatto, o touch screen, come quelli disponibili nelle
biglietterie ferroviarie, è naturalmente sia un dispositivo di input sia un
dispositivo di output.
Figura 2 - Dispositivi di output:
la stampante
Figura 3 - Dispositivi di
input-output: lo schermo touch screen di un punto informativo
Vi è poi una classe di dispositivi un po’ particolare, quella
rappresentata dagli strumenti che permettono al computer di leggere (e
dunque ricevere) e di scrivere (e dunque inviare) dati – le nostre
lunghe catene di ‘0’ e ‘1’ - da e verso un supporto in grado di
conservarli anche quando il computer è spento. Si tratta delle cosiddette
memorie di massa, come i floppy disk e i dischi rigidi: ne abbiamo già
parlato nella prima dispensa. Spesso le memorie di massa non vengono
considerate dispositivi di input e output, perché i dati che vi vengono
conservati sono comunque in formato digitale: in un certo senso, sono dati
che il computer conserva nel suo linguaggio, dunque questi dispositivi di
memorizzazione non servono direttamente a noi per comunicare – nel
nostro linguaggio - con il computer. D’altro canto, è indubbio che i
dispositivi di memoria di massa vengano usati dal computer per ricevere
informazione in entrata, e inviare informazione in uscita: da questo punto
di vista, anch’essi potrebbero essere visti come dispositivi di input e
output.
Abbiamo fornito qualche esempio di dispositivi di input e output.
Vogliamo provare a riepilogarne in maniera un po’ più sistematica le
caratteristiche?
La tastiera è il dispositivo di input probabilmente più importante.
Serve a immettere nel computer testo e numeri (per velocizzare quest’ultima
operazione, le tastiere includono di norma un particolare tastierino
numerico), ma anche a guidare, attraverso la pressione dei tasti
opportuni, lo svolgimento dei programmi.
Figura 4 - Dispositivi di input
per eccellenza: la tastiera
Per quest’ultimo scopo, alcuni tasti hanno una particolare
importanza: innanzitutto le frecce, tasti direzionali che controllano di
norma lo spostamento del cursore sullo schermo (il cursore è un ‘oggetto’
virtuale e non fisico, e compare nelle schermate di lavoro di molti
programmi - ad es. programmi di videoscrittura - ad indicare il punto del
testo sul quale si sta al momento operando). E poi i tasti funzione,
presenti di norma nell’area superiore o in quella laterale della
tastiera: si tratta di tasti la cui funzione varia da programma a
programma, e che vengono in genere fatti corrispondere ai comandi più
frequentemente usati. Una convenzione piuttosto diffusa collega il primo
tasto funzione (F1) all’attivazione dell’aiuto in linea (help) del
programma.
Il mouse affianca la tastiera come dispositivo di input, in particolare
quando si lavora all’interno di ambienti o sistemi operativi ad icone
(ne parleremo più diffusamente in seguito). Al movimento del mouse su un
piano (molto spesso quello del ‘tappetino’ o mousepad) viene fatto
corrispondere il movimento del puntatore nello schermo. Il puntatore del
mouse costituisce un altro familiare ‘oggetto virtuale’ che ci aiuta a
selezionare aree e oggetti nello schermo; anche sulla funzione del
cursore, che rappresenta un po’ il nostro ‘alter ego’ nello ‘spazio
virtuale’ aperto da un programma, avremo modo di soffermarci in seguito.
Il movimento del mouse viene comunicato al computer attraverso i segnali
inviati da sensori collocati intorno alla pallina posta sulla superficie
inferiore del mouse stesso.
Il mouse ha sulla superficie superiore uno o più tasti, alla cui
pressione il programma fa corrispondere ‘azioni’ sugli ‘oggetti’
situati nell’area dello schermo indicata dal puntatore.
Talvolta, il mouse viene sostituito da dispositivi quali la trackball
(una sorta di ‘mouse rovesciato’, che permette il controllo dei
movimenti del puntatore attraverso la rotazione di una pallina) o il
trackpoint (i movimenti del puntatore sono controllati attraverso la
pressione nelle varie direzioni di un piccolo bottone di gomma),
utilizzato soprattutto nei computer portatili. Sempre nei portatili,
possiamo trovare il touchpad, un’area di forma rettangolare sensibile al
tatto: il movimento del puntatore è in questo caso controllato dal
movimento del dito sul touchpad.
Anche il joystick è un dispositivo di input concettualmente non troppo
lontano dal mouse; è molto usato nei giochi: la direzione di spostamento
della levetta del joystick viene fatta in genere corrispondere alla
direzione del movimento del personaggio o del veicolo da noi controllato,
e la pressione del bottone corrisponde a specifiche azioni all’interno
del gioco (ad esempio, al ‘fuoco’ di un’arma).
Figura 5 - Joystick
Fra i dispositivi di input, parleremo fra breve in maniera più
approfondita dello scanner, utilizzato per far acquisire al computer
immagini e (con l’aiuto di un programma OCR per il riconoscimento
automatico dei caratteri) testi a stampa.
Un dispositivo di input relativamente meno diffuso (ma utilissimo ad
esempio per lavori grafici) è la tavoletta grafica; i movimenti di una
sorta di ‘penna’ sulla sua superficie vengono registrati da appositi
sensori e vengono fatti corrispondere ai movimenti di una ‘penna
virtuale’ sullo schermo del computer. In associazione con un programma
grafico, la tavoletta grafica permette di ‘disegnare’ al computer.
Figura 6 - Una tavoletta grafica
Fra i dispositivi di output, ricordiamo subito
lo schermo. Molto spesso
si tratterà di un tradizionale monitor (di dimensioni variabili; proprio
come nel caso dei televisori, le dimensioni vengono misurate in pollici, e
le più frequenti vanno dal ‘piccolo’ 14” al ‘grande’ 21”).
Nel caso di un computer portatile avremo invece a che fare con uno schermo
a cristalli liquidi delle dimensioni generalmente comprese fra i 9” e i
13”; gli schermi a cristalli liquidi possono essere basati sulla
tecnologia dual scan (più economica ma di qualità lievemente inferiore)
o sulla tecnologia a matrice attiva (più cara ma di miglior resa). Negli
ultimi anni si stanno diffondendo monitor a cristalli liquidi anche per l’uso
con computer da tavolo, in alternativa ai monitor tradizionali. Sono per
ora piuttosto cari (la produzione di schermi a cristalli liquidi di grandi
dimensioni è abbastanza costosa), ma garantiscono una elevata qualità
dell’immagine, oltre a risultare più riposanti per la vista.
Figura 7 - Un monitor a cristalli liquidi
(LCD) da scrivania
L’altro fondamentale dispositivo di output è
la stampante. In questo
campo, le tecnologie fondamentali sono tre: stanno ormai scomparendo le
vecchie stampanti ad aghi, a favore delle stampanti laser (lievemente più
care, ma preferibili per la stampa di qualità di un alto numero di copie)
e di quelle a getto d’inchiostro (più economiche, soprattutto nella
stampa a colori; la relativa tecnologia ha compiuto negli ultimi anni
notevoli passi avanti). La qualità delle stampanti è talmente migliorata
nel tempo da relegare a un mercato molto specializzato i cosiddetti
plotter, stampanti grafiche a ‘pennini’ utilizzate per la
progettazione e il disegno architettonico.
Il piccolo elenco che abbiamo cercato di stilare non esaurisce certo le
periferiche e i dispositivi di input-output possibili; in particolare,
resta da dire qualcosa su quei dispositivi che servono non solo a
acquisire dati, ma anche a trasformarli in formato digitale.
La funzione specifica dei dispositivi di input è, abbiamo visto,
quella di fornire dati in ingresso al nostro computer. In molti casi,
tuttavia, questa operazione presuppone un passaggio molto importante: la
codifica in formato numerico dell’informazione acquisita. Come sappiamo,
infatti, il computer utilizza unicamente lunghe catene di ‘0’ e ‘1’.
Quando vogliamo far lavorare il computer su testi, suoni, immagini,
occorre prima convertire questa informazione, che in partenza non è in
formato digitale, nelle catene di ‘0’ e ‘1’ che il computer è in
grado di comprendere. A questo processo di conversione ci si riferisce
spesso col termine digitalizzazione.
Si capirà, allora, che molti dispositivi di input, oltre inviare al
computer dati in formato digitale, svolgono l’importantissima funzione
di strumenti di digitalizzazione: strumenti cioè per convertire
informazione non digitale (come testi stampati, la voce umana, i suoni
prodotti da strumenti musicali, fotografie, filmati) in informazione in
formato digitale che il computer sia immediatamente in grado di
utilizzare.
Vogliamo provare a vedere più da vicino alcuni di questi dispositivi?
Parleremo, nell’ordine, di dispositivi per l’acquisizione e la
digitalizzazione di immagini, testi, suoni e brani video.
Immagini
Come si è già accennato, lo strumento utilizzato più spesso
per trasformare in formato digitale delle immagini statiche è lo scanner.
Ne esistono di vari tipi; il più diffuso è lo scanner piano, che dall’esterno
assomiglia molto a una fotocopiatrice. L’immagine da digitalizzare (che
sarà in genere una fotografia stampata, ma potrà anche essere,
attraverso l’uso di particolari dispositivi, un negativo fotografico o
una diapositiva) si appoggia sul piano di vetro dello scanner, e viene
progressivamente illuminata e ‘letta’ da una testina scorrevole. In
sostanza, lo scanner sovrappone idealmente all’immagine una griglia (la
cui risoluzione dipenderà dalla risoluzione di cui è capace lo scanner,
o da quella per la quale l’abbiamo impostato) e ‘legge’ il colore
che si trova in ogni singola celletta (pixel) della griglia, sulla base
della palette di colori da lui riconosciuta (così, uno scanner a 16 bit
potrà distinguere 65.536 colori diversi, e uno scanner a 24 bit potrà
distinguere oltre 16 milioni di colori diversi). È anche possibile
acquisire un’immagine, anziché a colori, in tonalità di grigio: in
questo caso il singolo pixel sarà codificato sulla base della sua
intensità luminosa o luminanza. Il familiare apparecchio fax può essere
pensato come uno scanner che lavora su una (ristretta) scala di grigi, e
che trasmette l’informazione in formato digitale risultato della
scansione (convertita in segnali sonori), anziché al computer, all’apparecchio
gemello che si trova all’altro capo della linea telefonica. Man mano che
acquisisce l’immagine, lo scanner - collegato al computer di norma
attraverso la porta parallela (la stessa attraverso la quale il computer
dialoga in genere con la stampante) o attraverso una più veloce porta
SCSI - trasmette al computer la lunga catena di ‘0’ e ‘1’ che è
il risultato del processo di digitalizzazione. Il computer potrà poi,
attraverso appositi programmi, elaborare ulteriormente l’immagine,
applicandovi ad esempio filtri ed effetti particolari.
Figura 8 - Uno scanner piano
Se lo scanner svolge la funzione sia di strumento di digitalizzazione
che di strumento di input, sempre più diffusa è ormai la tendenza ad
acquisire le immagini direttamente in formato digitale, senza bisogno di
passare attraverso lo stadio ‘analogico’ rappresentato dalla
tradizionale fotografia stampata, dal negativo fotografico o dalla
diapositiva. In questo caso, si utilizza di norma una macchina fotografica
digitale, che salva direttamente l’immagine su un supporto che potrà
essere una scheda di memoria interna (fissa o - più spesso - rimovibile)
o un dischetto. L’immagine è poi trasferita su computer, in genere
collegandovi direttamente la macchina fotografica tramite un cavo di
trasmissione dati (nel caso di macchine che memorizzano l’immagine su
dischetti, basterà estrarre il dischetto dalla macchina e inserirlo nel
lettore del computer).
Figura 9 - Una macchina
fotografica digitale
Testi
Il sistema più semplice per digitalizzare un testo è sicuramente
quello di... scriverlo alla tastiera di un computer (lo strumento di
input!). Come sappiamo, infatti, i testi che immettiamo attraverso un
normale programma di videoscrittura sono gestiti e conservati dal computer
in formato digitale.
Quando si parte da un testo su supporto tradizionale (ad esempio da un
libro), l’idea di digitalizzarlo copiandolo tutto, parola per parola,
può naturalmente risultare assai poco attraente. In questi casi, se la
qualità di stampa dell’originale è buona, si utilizza spesso uno
scanner associato a un programma di riconoscimento ottico dei caratteri (OCR
- Optical Character Recognition). Sappiamo che lo scanner, infatti,
acquisisce un documento - sia esso una pagina scritta o una fotografia -
come una immagine composta di minuscoli pixel (dei quali, come abbiamo
visto, viene di norma codificato il colore): non ha alcun modo per capire
che invece quella particolare immagine contiene del testo scritto, e che
ci interessa rappresentare in formato digitale non già il colore (o la
tonalità di grigio) dei suoi singoli pixel, ma i caratteri scritti che vi
compaiono. Il programma di riconoscimento ottico dei caratteri ha proprio
il compito di trasformare lo scanner in uno strumento adatto a questo
secondo lavoro: gli richiede innanzitutto di trascurare, nella codifica,
colori e tonalità di grigio, e analizza poi l’immagine restituita dallo
scanner cercandovi le ‘forme’ delle familiari lettere dell’alfabeto,
e ricostruendo, carattere per carattere, il testo di partenza. Può
sembrare un compito semplice, ma in realtà non lo è affatto: testi a
stampa diversi possono infatti utilizzare tipi di carattere diversi, e
anche in uno stesso testo le procedure di stampa possono portare a
variazioni anche notevoli nell’aspetto di uno stesso carattere. Un
programma OCR deve imparare a trascurare questi fattori: deve in sostanza
imparare a leggere, anche se naturalmente non capisce quello che legge.
Proprio perché il compito è difficile, un OCR si aiuta in genere
confrontando le parole che legge con un dizionario (naturalmente in
formato digitale...) della lingua nella quale è scritto il documento;
anche così, comunque, gli errori di riconoscimento non mancano, e -
almeno nell’attuale situazione della tecnologia - se vogliamo una
digitalizzazione pienamente affidabile il testo ‘letto’ da un OCR
dovrà sempre essere controllato da un revisore umano.
Una terza possibilità per acquisire un testo in formato digitale è
quella di... leggerlo ad alta voce al computer. Per farlo, serviranno una
scheda sonora con un buon microfono (vedi oltre) e un programma di
riconoscimento vocale, che dovrà fare col suono della nostra voce un po’
quello che un OCR fa con l’immagine della pagina stampata: analizzarlo
per riconoscere le singole lettere (in questo caso, i singoli fonemi) e le
singole parole. Compito tutt’altro che facile - anche perché le
tonalità e le inflessioni di pronuncia variano non solo da persona a
persona, ma anche, per una stessa persona, di momento in momento. Il
programma di riconoscimento vocale dovrà quindi innanzitutto essere ‘addestrato’
alla pronuncia del suo utente, al quale sarà richiesto di leggere ad alta
voce una serie di frasi prestabilite. La percentuale di errori introdotta
da un programma di riconoscimento vocale è ancora molto alta, ma si
tratta di un campo in cui l’evoluzione è continua, ed è prevedibile
che in futuro la ‘dettatura’ di testi al computer potrà rivelarsi
assai più semplice e sicura di quanto non sia attualmente.
Suoni
Per quanto riguarda i suoni, l’acquisizione (input) e la
conversione in formato digitale avviene in genere attraverso una scheda di
acquisizione sonora: ve ne sono di molti tipi, dalle economiche schede
sonore montate sui normali personal computer a vere e proprie stazioni
dedicate usate in studi di registrazione professionali. La scheda sonora
di un normale computer multimediale è comunque quasi sempre in grado di
digitalizzare in tempo reale il suono, anche stereofonico, proveniente da
un microfono o da un apparato analogico (radio, giradischi, registratore a
cassette) ad essa collegato, permettendo di scegliere fra diverse
frequenze di campionatura e fra diversi standard di codifica sonora. La
qualità del risultato naturalmente dipende, dando per scontata una
sufficiente velocità del computer e la buona qualità della scheda
sonora, anche da fattori che esulano dall’ambito strettamente
informatico, come la qualità dei dispositivi e dei supporti analogici di
partenza (nel caso di registrazione in diretta, ad esempio, dalla qualità
del microfono) e dei collegamenti. Anche nel caso dei suoni, comunque, l’acquisizione
in formato digitale può ormai avvenire attraverso apparati dedicati
piuttosto lontani dal computer tradizionale, come i registratori digitali,
che utilizzano spesso la tecnologia DAT (Digital Audio Tape) o sono
direttamente in grado di ‘masterizzare’ supporti digitali ottici o
magnetico-ottici come i dischetti MD.
Figura 10 - Registratore Dat
Anche nel caso del video, potremo trasformare in formato digitale una
sorgente video analogica e fornire come input al nostro computer i
relativi dati attraverso una scheda di acquisizione video alla quale
collegare un apparato video tradizionale (un televisore, un registratore,
una cinepresa). Dato che il video digitalizzato richiede un notevole
impiego di memoria, per la sua acquisizione ed elaborazione sarà
essenziale disporre di risorse informatiche sufficientemente potenti: in
altre parole, computer piuttosto veloci, dotati di parecchia memoria e di
dischi rigidi molto capienti. È anche possibile acquisire brani video
direttamente in formato digitale, attraverso una videocamera digitale. Per
la loro maggiore flessibilità (ad esempio, la possibilità di inserire
automaticamente complessi effetti di ripresa o di montaggio), le
telecamere digitali e il relativo standard rappresentato al momento dal
formato DV (digital video) hanno conosciuto negli ultimi anni un
notevolissimo successo: pur essendo per ora più care di quelle
analogiche, si avviano probabilmente a sostituirle.
Dall’hardware
al software
Fino a qui, abbiamo parlato
soprattutto di componenti fisiche del computer, il cosiddetto hardware.
Sappiamo però che il funzionamento di un computer non dipende solo dall’hardware
ma anche, e in maniera determinante, dai programmi che il computer è in grado
di eseguire, il cosiddetto software. In un certo senso, il software ‘dà
vita’ all’hardware.
Figura 11 - Giochi per computer (Quake III)
All’inizio, i più diffusi programmi per computer ricadevano in poche
categorie abbastanza determinate: programmi
di calcolo di vario genere, utilizzati soprattutto per il lavoro
scientifico, giochi (non
sottovalutate mai l’importanza dei giochi: si tratta del campo in cui
sono state sperimentate per la prima volta alcune fra le tecnologie più
innovative, un campo che si è rivelato decisivo per la diffusione di
massa dei personal computer, in particolare fra bambini e ragazzi), e poi
programmi di videoscrittura (word
processor), fogli elettronici (spreadsheet;
si tratta dei programmi utilizzati per creare tabelle di dati, in genere
numerici: ad esempio, un bilancio contabile), e programmi per la creazione
e gestione di ‘schedari’, ovvero basi di dati (i cosiddetti database).
Col tempo, e con il miglioramento delle capacità dei computer, queste
categorie si sono moltiplicate, tanto da rendere ormai praticamente
impossibile una classificazione esaustiva dei vari tipi di software
esistente. Ricordiamo solo, al volo: programmi grafici, programmi di
manipolazione sonora e di manipolazione video, programmi di comunicazione,
programmi per la navigazione su Internet, programmi didattici, editoria
multimediale, e così via.
Il software più
importante: il sistema operativo
Di un tipo particolare di programmi, tuttavia, è
bene parlare subito, almeno in termini generali: si tratta dei cosiddetti sistemi
operativi (operating systems).
Abbiamo già visto nella prima dispensa che il BIOS comprende una
programmazione di base che mette il processore in grado di ‘conoscere’
le principali componenti installate sul computer e di comunicare con esse;
attraverso l’aiuto del BIOS il computer ‘riconosce’ ad esempio
l’esistenza del lettore di floppy disk e del (o dei) dischi rigidi.
Se il BIOS ha in un certo senso il compito di rendere
il nostro computer ‘cosciente di sé’ e capace di far circolare
informazione al proprio interno, esso tuttavia non svolge se non in
piccola parte un altro compito essenziale: quello di rendere il computer
capace di comunicare con noi,
ovvero con l’utente.
Non è un compito facile. Infatti, non vogliamo
semplicemente rendere il computer capace di riconoscere le istruzioni
impartite da un esperto informatico. Il nostro obiettivo è più
ambizioso: costruire un ambiente di lavoro che permetta anche a un non
esperto di interagire col computer in maniera semplice e intuitiva. Non ci
basta insomma che il computer sia in grado di comunicare con noi:
vogliamo, per quanto possibile, che esso impari a comunicare con noi
‘usando la nostra lingua’, usando cioè convenzioni di comunicazione
per noi familiari e intuitive.
Il sistema operativo ha proprio questa funzione
fondamentale. Ci occuperemo diffusamente dei sistemi operativi anche nella
prossima dispensa; in questa sede, ci limitiamo ad alcune considerazioni
di base. All’inizio, i sistemi operativi erano basati sull’idea della
comunicazione linguistica; i sistemi
operativi a caratteri, come MS-DOS (il Disk Operating System della
Microsoft) o UNIX, si basano appunto sull’idea che l’utente impartisca
i propri comandi in forma ‘scritta’, utilizzando la tastiera. Così ad
esempio in DOS per la visualizzazione dell’indice del contenuto di un
dischetto si usa il comando ‘dir’, per la preparazione di un dischetto
vergine si usa il comando ‘format’, per la visualizzazione e la
modifica della data e dell’ora di sistema si usano rispettivamente i
comandi ‘date’ e ‘time’, e così via.
Col tempo, tuttavia, l’evoluzione dei sistemi
operativi ha conosciuto una importante evoluzione proprio nel tipo di
interfaccia usata: al posto delle interfacce a caratteri sono comparse le
cosiddette interfacce ad icone o grafiche (GUI,
Graphical User Interface). Il primo sistema operativo con una
interfaccia grafica è stato sviluppato negli anni ’70 nei laboratori di
Palo Alto della Xerox, ma la loro diffusione si deve soprattutto ai
computer Apple: prima l’ormai dimenticato Apple Lisa, poi, a partire dal
1984, il diffusissimo Macintosh hanno
adottato sistemi operativi ad icone che hanno fatto scuola. Interfacce
grafiche ad icone avevano anche il Commodore Amiga – un computer che è
stato fra i più interessanti ed avanzati prodotti dell’industria
informatica degli anni ’80 -, l’Atari ST, e uno dei primi computer
basati su un processore RISC, l’Acorn Archimedes. Ben presto anche IBM e
Microsoft hanno seguito la tendenza: la prima con il sistema operativo OS/2,
la seconda con le varie versioni di Windows, al momento il sistema
operativo largamente più diffuso.
Figura 12 - Il sistema operativo a icone dell'Apple Macintosh
Figura 13 - Icone e menu a
cascata Windows 2000,
l'ultima versione del popolare sistema operativo
grafico di casa Microsoft
Accanto alla funzione di comunicazione con
l’utente, il sistema operativo svolge altri compiti importanti: ad
esempio, integra le poche e sommarie conoscenze sull’architettura del
sistema che il microprocessore ricava dal BIOS con informazioni
dettagliate sul tipo di periferiche usate, sulle loro capacità, sulle
istruzioni necessarie a garantirne il migliore funzionamento. Inoltre,
mette a disposizione dei diversi programmi che - a seconda delle sue
specifiche necessità - l’utente può di volta in volta eseguire, una
serie di ‘strumenti di base’ comuni che ne semplificano
l’utilizzazione.
Il sistema operativo è dunque il primo e più
importante programma (a rigore non si tratta ormai più di un programma
singolo, ma di un insieme integrato di programmi e strumenti) a
disposizione del computer. Ecco perché, una volta presa ‘coscienza di sé’
attraverso l’acquisizione delle informazioni contenute nel BIOS, la
prima operazione compiuta dal computer all’accensione è il caricamento
del sistema operativo, presente in genere sul disco rigido.
Come si è accennato, sul concetto di sistema
operativo avremo occasione di tornare nelle prossime lezioni; occorre
sottolinearne però fin d’ora il rilievo teorico e culturale. Un sistema
operativo, infatti, non è solo una realizzazione ingegneristica, ma
rispecchia in qualche misura la ‘filosofia’ che scegliamo di adottare
nel nostro rapporto con il computer: i tipi di compiti che ci interessa
far svolgere alla macchina, le tipologie di utente che con essa devono
interagire, i modelli di comunicazione adottati. Bisogna dunque guardarsi
dal considerare il sistema operativo come una sorta di ‘dato’
tecnologico: esso è piuttosto il risultato di un processo che ha sì
aspetti tecnici ed ingegneristici, ma anche fondamentali aspetti culturali
e comunicativi.
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