Verso i musei del postindustriale
Secondo il professor Paolo De Nardis, preside
della facoltà di Sociologia dell'università "La
Sapienza" di Roma, il nostro Paese ha scoperto con ritardo il
valore culturale dei musei etnografici perché la nostra società
ancora non si percepisce come società postindustriale. Internet e
le nuove tecnologie rappresentano sicuramente un importante
strumento per la diffusione delle culture etnografiche locali a
livello planetario.
Professore, la nostra cultura digitale ha già acquisito
valore per essere collocata in un museo?
La cultura digitale è molto diversificata. Proprio a livello
planetario - potremmo dire di globalizzazione - siamo di fronte a
una sorta di differenziata scacchiera, che vede Paesi molto avanzati
e Paesi molto arretrati dal punto di vista dell'alfabetizzazione
digitale. Addirittura si parla di "spartiacque digitale"
negli USA: lì dove è nata Internet c'è ancora una cospicua
percentuale costituita da coloro che non sanno usare la Rete. Quindi
non si può parlare in maniera così diffusiva di una cultura di
questo genere, però senz'altro siamo a buon punto rispetto a quello
che poteva essere la situazione appena sei mesi fa.
Come cambia il concetto di museo quando diventa disponibile
anche online?
Le nuove tecnologie ci danno un mezzo, uno strumento fondamentale
per poter fruire del museo anche a distanza. Sostanzialmente il
problema è quello di alfabetizzarsi alle nuove tecnologie. Nel
nostro paese siamo arrivati tardi a questo tipo di fruizione museale
- nella tradizione anglosassone, ad esempio, è già presente da
parecchi anni - perché siamo arrivati tardi all'idea di museo
etnografico, museo dell'artigianato, museo delle genti. Pensiamo
alla tradizione canadese, al museo del Québec, dove c'è
addirittura il museo della civilizzazione, cioè il museo di tutto
il processo di civilizzazione, oppure a un vecchio museo come il
Museo de l'Homme a Parigi, dove la conoscenza antropologica si fonda
proprio sull'artigianato, su quelle che sono le matrici culturali
dell'industria manifatturiera.
Perché siamo arrivati tardi?
Noi abbiamo una grande tradizione e un grosso patrimonio
culturale a livello di arti figurative e a livello archeologico per
cui abbiamo un'idea di museo intesa soprattutto da questo punto di
vista: per noi il museo conserva il passato "passato", al
massimo il passato "recente" purché sia artistico. Non è
un caso infatti che il museo della fotografia sia arrivato tardi o
che nelle nostre Accademie delle Belle arti la scenografia sia
arrivata tardi rispetto alle altre arti figurative. Abbiamo una
certa cultura umanistica, o "vetero-umanistica", che ha
bloccato questo progresso. Se da una parte il nostro patrimonio ha
costituito il nostro tesoro fondamentale, dall'altra, ha
rappresentato una sorta di freno rispetto a questa evoluzione.
È la stessa ragione per cui non abbiamo dei musei
industriali?
Si tratta, in questo caso, anche di una questione di carattere
storico-sociologico: ancora non ci percepiamo come paese
"postindustriale". La new economy non ha fatto breccia nel
nostro paese perché ci sentiamo ancora paese industriale: siamo
ancora agganciati, soprattutto nel Nord, a una visione di economia
industriale; non è ancora stato metabolizzato il fatto che il
Triangolo industriale non sia più tale, eppure è dal 1977 - quando
avevamo l'inflazione al 22 per cento - che il Triangolo non è più
quello; lo vediamo ancora nei discorsi che facciamo in tema di
concertazione e di relazioni industriali.
In Italia come si sta realizzando il passaggio da una cultura
industriale a una cultura postindustriale?
Negli ultimi tempi è diventata molto veloce ma senz'altro
sofferta perché se noi vogliamo alfabetizzare tutti a questo nuovo
tipo di approccio alla cultura sostanzialmente dobbiamo dare a tutti
le possibilità non soltanto culturali ma anche economiche,
materiali, per potervi far fronte.
Paradossalmente è proprio nel Meridione d'Italia e nelle aree
periferiche che si stanno sviluppando i musei etnografici. Come mai?
È vero, nel Meridione abbiamo musei di archeologia industriale
(il museo di Pietrarsa a Napoli, quello di San Leucio, presso
Caserta). Prima dell'unificazione politico-amministrativa del Regno
d'Italia, i tre quarti degli operai vivevano nell'Italia
meridionale, di cui i due terzi proprio nel napoletano. Potremmo
dire che il processo di industrializzazione è partito dal Sud, non
dal Nord; ovviamente, con l'unificazione politico-amministrativa e
militare del Regno d'Italia si è tutto trasferito al Nord. Milano,
però, veniva considerata ancora alla fine dell'Ottocento da
Benedetto Croce e Antonio Labriola, come la capitale della pianura
Padana, una città agraria. Mentre la cultura industriale e
l'archeologia industriale sono vissute dal Sud in maniera molto più
intensiva, al Nord non c'è questa metabolizzazione.
Il Nord, però, in qualche maniera si è "digitalizzato".
I musei dell'archeologia industriale sono più presenti al Sud o
almeno sono più famosi; dal punto di vista dello strumento,
ovviamente il Nord è più avanzato, più "fibrillante".
Tra le altre cose, c'è un'industria "sommersa", nel senso
buono del termine, che bisognerebbe tirare fuori per dare nuovi
stimoli e nuove occasioni di lavoro anche ai giovani.
È presto per parlare già di musei dell'avanguardia digitale?
L'avanguardia digitale riguarda gli strumenti: noi parliamo di
musei, cioè di oggetti riferiti al problema delle genti, alla
transumanza, ai costumi, alla vita preistorica e via discorrendo.
Sono aspetti che in qualche modo noi fotografiamo attraverso un
potentissimo strumento, come Internet, che dobbiamo valutare non
come fine ma come mezzo, un mero strumento.
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