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Fiabe, dall'oralità alle nuove tecnologie

Le fiabe da sempre sono un prodotto multimediale. Si modificano i contesti culturali e le modalità di trasmissione del sapere, ma gli archetipi sono resistenti alle nuove tecnologie. Lo afferma Gianpaolo Caprettini, docente di semiologia al Dams di Torino.

Dall'oralità alle nuove tecnologie: non è forse un salto eccessivo?

Il salto forte lo percepiamo noi che pensiamo che le tecnologie innovino completamente. In realtà, la fiaba è stata da sempre un "prodotto multimediale": se pensiamo alle fiabe di alcuni secoli addietro, ci rendiamo conto che erano raccontate attraverso il gesto, la mimica, le sonorità di vario tipo, e si ambientavano in un'aia o in una situazione di collettività condivisa. Considerata da questo punto di vista, la fiaba forse non presenta sostanziali differenze con la narrazione attraverso le nuove tecnologie. Tutt'al più, le differenze riguardano soprattutto la voce, le condizioni di ascolto, la disposizione psicologica del ragazzo o della collettività che l'ascolta: l'essere, in qualche maniera, più passivo che attivo.

Le favole, nella tradizione orale, venivano modificate e plasmate dai diversi contesti culturali.

Il destino dei testi dell'oralità antica era quello di essere trasformati ogni volta che venivano narrati: tutte le volte erano riconosciuti grazie a delle matrici resistenti - i simboli, i nuclei di storie, gli ideali dei personaggi, le capacità di compiere determinate funzioni - e poi adattati all'uso, al contesto, alla situazione concreta.

Come mai favole, come quella di Collodi che ha poco più di 100 anni, non perdono efficacia nel tempo?

Come ha insegnato il grande linguista Ferdinand de Saussure, il significato dipende dalla casualità. Quindi credo che l'efficacia dipenda da una trasmissione assolutamente casuale dei simboli, attraverso l'oralità o i mezzi più disparati, ma il contenuto - l'archetipo - ciò che è resistente alla storia, è resistente anche alla tecnologia.

Con le nuove tecnologie, si introduce anche un meccanismo di globalizzazione: una favola come quella di Collodi faceva fatica ad essere conosciuta in tutto il mondo, così come noi facevamo fatica a conoscere le saghe del Nord oppure i racconti del lontano oriente.

Certo, ma accanto alla globalizzazione ci sono dei processi di contaminazione nel senso che il prodotto industriale viene pensato su larga scala con differenti media, con differenti forme di realizzazione. A questo punto, l'idea della fiaba come prodotto di interazione sociale che muove l'immaginario è difficile da sostenere perché diventa - come ha insegnato Walt Disney - un fatto economico, un fatto di distribuzione globale.

In che maniera, secondo lei, è cambiato l'immaginario dei bambini?

Per vedere cosa c'è nell'immaginario dei bambini, è necessaria la pratica: il ragazzino che inventa qualche cosa in qualche modo deve essere stimolato a spiegare perché l'ha fatto, deve diventare, in un certo senso, regista delle sue espressioni visive, cioè deve fare quello che normalmente fanno i registi del cinema, spiegare cosa c'era nella sua mente, spiegarcelo facendo vedere qualcosa.