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A scuola del "fare"

A colloquio con Roberto Maragliano. Le tecnologie ci sono. I ragazzi disposti ad usarle, pure. È la scuola a dover cambiare il modo di vivere l'insegnamento

Editing di Rossella Romano

Incontriamo Roberto Maragliano, docente di Tecnologie dell'Istruzione presso l'Università di Roma 3, un pioniere dell'uso delle nuove tecnologie multimediali nell'ambito educativo.

Professore, i ragazzi cosa vedono nel computer di questi tempi?

Vedono il computer come un qualche cosa che appartiene al loro mondo e che può fare da tramite tra il loro mondo e quello della scuola. Ciò dipende ovviamente dalla capacità della scuola di mettersi in discussione e in gioco e, quindi, di accettare il dialogo con queste strumentazioni.

A che punto è la trasformazione tecnologica del sistema scolastico? Siamo avanti con l'hardware, non sufficientemente avanti invece con la testa. Non basta mettere solo i collegamenti, occorre anche farli funzionare. È proprio la testa della scuola che deve cambiare se vuole essere messa in condizione di poter dialogare con tutti i suoi utenti e, quindi, di poter anche investire su quelli che hanno più difficoltà a capire il senso di un apprendimento nuovo, di un nuovo modo di insegnare.

Forse queste trasformazioni sono più lente di quanto ci aspettiamo?

In questo, bisogna essere abbastanza pazienti: per un certo tempo dovremmo ancora aspettare, e poi le cose, a mio parere, si modificheranno e cambieranno. Così è stato anche al di fuori della scuola. Per tanto tempo la gente ha avuto da ridire sull'uso della carta di credito, poi improvvisamente la carta di credito si è affermata. Credo che capiterà la stessa cosa anche con la scuola: per molto tempo ancora avremo titubanze, resistenze, difficoltà nei confronti del computer, poi queste cose all'improvviso cadranno miracolosamente.

I tanti progetti nuovi che si servono delle tecnologie digitali sembra che stiano creando ambienti più divertenti e più stimolanti per l'apprendimento rispetto all'ambiente della scuola tradizionale che invece sta perdendo un po' il suo fascino. È così?

Sono pienamente d'accordo su questa osservazione. Anche presidi e insegnanti esprimono soddisfazione, piacere, gioia di stare in una condizione nuova e di mettere in discussione anche un modo di insegnare, e quindi di sperimentare nuove modalità. Vedere allievi e insegnanti che sorridono spontaneamente è un fatto decisamente positivo.

Si può usare questo approccio per tutte le materie e trasformare la scuola in qualcosa di divertente o si tratta di un utopia?

Anche se è un utopia, bisogna accettarla per orientare la propria azione in funzione di essa. Ci sono casi, come l'esperimento della "Bottega della Comunicazione" a Napoli, nei quali l'idea di andare nei retroscena dei media, imparare a manipolare immagini e suoni, imparare a muoversi su diversi ambiti di comunicazione, serve a "mordere" meglio i contenuti e elaborarli in maniera più compiuta. Questi contenuti, però, non devono essere di natura enciclopedica troppo invadenti o troppo ampi. È meglio fare poche cose ma bene piuttosto che tante e male all'interno di un solo medium.

Ci sono i soldi per acquistare le attrezzature?

I soldi ci sono e non ci sono. Se si pensa che i soldi debbano arrivare solo dal centro, allora la risposta è che non si sono e dobbiamo aspettare qualche millennio. L'altra risposta che, invece, si può dare, è che se non ci sono si possono trovare. Mentre prima era impossibile mettersi a cercare soldi, oggi con l'autonomia, interpretata correttamente anche dal punto di vista amministrativo, c'è la possibilità di andare a cercare delle risorse in base alle quali acquisire macchinari e fare operazioni di questo tipo. "La Bottega della Comunicazione" è un'esperienza fatta a Napoli: non credo che abbia avuto un finanziamento diretto dal MPI. Quindi può essere un modello anche per altri.

La "Bottega della Comunicazione" persegue anche l'obiettivo di recuperare i cosiddetti ragazzi "difficili". Chi sono in realtà questi ragazzi e sono davvero così "difficili"?

Credo che il ragazzo "difficile" molto spesso sia l'emblema di una scuola inutilmente difficile, in quanto credo che la scuola possa e debba essere difficile, ma con proprietà, cioè con cose che abbia senso di presentare come difficili. Molto spesso, invece, il ragazzo "difficile" è un ragazzo che rifiuta una falsa difficoltà della scuola, cioè una difficoltà che la scuola propone riguardo ai suoi contenuti, però, aldilà di una dimensione di senso. Questi ragazzi tramite il loro collegamento con il loro ambiente privilegiato, ovvero l'ambiente dei media, riacquistano la dimensione di senso, cioè trovano una scuola che non soltanto insegni loro a manipolare delle cose, ma fornisca anche uno stimolo per vedere dei contenuti e per acquisire delle consapevolezze e dei significati.

Cosa perche' questi progetti isolati diventino più universali?

Cercando di vedere nel nuovo le radici antiche. Secondo me, bisogna ridefinire il senso della scuola in questa direzione: una bottega all'interno della quale con il mutuo insegnamento, si riesce meglio a "mordere" il contenuto, il significato, il valore, il principio, cioè si riesca a toccare le cose, farle, costruirle e realizzarle.

Che ruolo hanno i ragazzi in questo nuovo modello di scuola?

Parlare di autonomia vuol dire dare più spazio e valorizzare meglio ciò che la società ha investito su ciascuno di questi ragazzi che non sono nati dentro la scuola, ma fuori della scuola. Prima di arrivare a scuola, hanno fatto tante esperienze che la scuola deve valorizzare, non nel senso di accettarle per quello che sono, ma accettarle e investire su di esse come una ricchezza che deve essere portata a frutto.