Clicca su oggi in TV


Eppur si muove…

Anche se lentamente, nella scuola, si stanno attuando radicali cambiamenti. Le tecnologie didattiche hanno un ruolo sempre più rilevante e sarà sempre più necessario formare i formatori. Progetti come il Pstd hanno dato buoni frutti, ma bisogna c'è ancora molto da fare. Ne parliamo con Michele Fabbri, insegnante e giornalista per il "Sole 24 Ore".

Si è concluso, proprio lo scorso anno, il Piano di Sviluppo delle Tecnologie Didattiche, il cosiddetto Pstd. Qual è il suo bilancio di questo progetto?

Sicuramente si è attuato un profondo cambiamento nella scuola. Nonostante la scuola sia considerata un luogo in cui l'innovazione è lenta ad affermarsi, molte cose sono cambiate grazie al Pstd, un piano coerente e molto articolato a livello nazionale. La prima osservazione è che gli insegnanti si sono mostrati interessati alle novità e alla necessità di essere aggiornati sulle nuove tecnologie nella scuola. Non è una semplice percezione, ma è una conclusione supportata dai dati raccolti: negli ultimi anni, la formazione alle nuove tecnologie è quella che coinvolge il maggior numero di insegnanti e per la quale viene impiegato il maggior numero delle ore.

Quanti, invece, hanno mostrato resistenza all'innovazione?

E' difficile dirlo: Se consideriamo che un 20% è costituito da chi già sa usare il computer, altrettanti sono quelli più restii. Bisogna pertanto fare in modo che questo 20% di insegnanti, in grado di utilizzare il PC, faccia da traino per gli altri. L'altro problema da risolvere è che un folto gruppo, in termini di percentuale, di insegnanti hanno ormai imparato e capito che questo strumento è utile, ma lo usano prevalentemente per sé, per il proprio aggiornamento, trasferendo queste competenze con difficoltà nella pratica didattica di tutti i giorni: un conto è saper navigare o usare la posta elettronica, un conto è usare il computer con gli studenti.

Allora, è necessario formare gli insegnanti anche sotto questo aspetto, ma mancano i formatori dei formatori?

Questo è il problema grosso: si tratta di formare centinaia di migliaia di docenti. Quindi, da un lato, sono necessari gruppi di formatori per i formatori, dall'altra metodi per la formazione: il vecchio piano dell'informatica tradizionale che puntava a formare tutti a scala ha dato i suoi risultati, ma ha anche segnato molti limiti. L'idea fondamentale del piano è quella di dare alle singole componenti locali, quindi all'interno del progetto dell'autonomia, grandi facoltà agli insegnanti di chiedere ciò di cui hanno bisogno, trattarli cioè come veri professionisti che già sono depositari di certi saperi, che vanno aiutati ne loro percorso individuale di formazione.

Lei crede sia decaduto il modello di lezione frontale?

Io spero che la lezione frontale non tramonti nel senso che nel rapporto fra l'insegnante e lo studente, soprattutto quando si tratta di ragazzi e bambini, non passa solo la formazione o i contenuti disciplinari: si tratta di una crescita collettiva. Effettivamente con l'introduzione delle nuove tecnologie, i cambiamenti ci sono: parlerei di cambiamenti diffusi, lenti, ma profondi.

Come bisogna procedere ora?

Credo che dalle indagini fatte sia emerso un dato importante: abbiamo superato, innanzitutto, la prima fase, potremmo dire di "esplorazione del campo". Tutti i docenti devono avere la competenza di base per poter utilizzare nelle proprie discipline i nuovi strumenti. Tra l'altro, è un'esigenza che emerge anche dai nuovi programmi che stanno per essere approvati. Ma la cosa più interessante è che forse oramai c'è una segmentazione abbastanza precisa: da un lato, gli insegnanti che utilizzeranno la didattica normale, dall'altro un gruppo di insegnanti ormai con competenze tecnologiche precise che facciano funzionare le macchine. La cosa interessante è che proprio in questi ultimi giorni il Ministero ha approvato - o sembra in corso di approvazione - un piano che consentirà di fare questo tipo di formazione scandita in diverse fasi.

Il Sole 24 Ore