(Una versione lievemente abbreviata del testo qui riportato è stata pubblicata su "Iter. Scuola, cultura, società" anno I n. 2, maggio-agosto 1998, pp. 24-30)
Del rapporto fra didattica e nuove tecnologie si discute ormai da tempo. Sembrerebbe dunque legittimo pensare ad un settore di ricerca ormai sviluppato e maturo, capace di produrre esperienze e indicazioni pratiche ben definite, la cui validità pedagogica possa essere sottoposta al vaglio intersoggettivo attraverso il ricorso a criteri e parametri generalmente accettati.
Eppure - si tratta di un dato di fatto che colpisce chiunque si sia occupato, anche marginalmente, dell'uso didattico di strumenti multimediali - nella maggior parte dei casi non è affatto così. L'introduzione nelle scuole delle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione avviene spesso a fatica, navigando 'a vista' e non di rado controcorrente. Le recenti iniziative ministeriali - pur se lodevoli - non riescono a togliere l'impressione di uno sviluppo fortemente affidato all'iniziativa individuale di singoli docenti o di singoli istituti, un'iniziativa alla quale le istituzioni scolastiche centrali riescono ad offrire solo in parte punti di riferimento e di coordinamento.
Si potrebbe obiettare che in questo campo la 'germinazione spontanea' di iniziative sia preferibile ad una loro imposizione d'autorità, e che un rinnovamento didattico che parta dal basso sia preferibile rispetto a modelli astratti calati dall'alto. Considerazioni senz'altro valide, che però richiederebbero un ambiente di sviluppo più omogeneo, consapevole e maturo di quello che sembra disponibile. Per quali motivi questo ambiente di sviluppo fatica ad emergere?
Sicuramente, giocano qui un loro ruolo i molti ritardi della scuola italiana, in particolare per quanto riguarda il processo di formazione, reclutamento e aggiornamento dei docenti. E sicuramente i problemi di budget (e spesso la mancanza di razionalità nelle spese) non facilitano l'aggiornamento in un campo che richiede comunque investimenti notevoli. Tanto più che parte di questi investimenti devono indirizzarsi verso attrezzature che, considerati anche i tempi d'attesa richiesti dalla complessità delle procedure di autorizzazione e gestione delle spese nel settore pubblico, sono a rischio di rapida obsolescenza.
Queste considerazioni, pur fondamentali, spiegano tuttavia solo in parte le difficoltà e le resistenze che il processo di introduzione delle nuove tecnologie in ambito didattico ha incontrato e continua ad incontrare. Un altro fattore, non meno rilevante, è rappresentato a mio avviso da una mancanza di elaborazione teorica: in molti casi, a rivelarsi decisamente carente è la comprensione delle caratteristiche e della portata dell'influsso che le nuove tecnologie possono avere sul mondo della didattica e - più in generale - sui processi di produzione e trasmissione della cultura. Disponiamo al riguardo di un'armamentario terminologico in apparenza assai ricco (interattività, multimedialità, virtualità, ipertestualità, ipermedialità...), ma inflazionato da un uso sovrabbondante ed impreciso, legato più a slogan pubblicitari che all'effettivo contenuto semantico dei concetti ai quali ci si vorrebbe riferire. Come risultato, la comprensione di molti fra i concetti-chiave utilizzati in questo settore è vaga, o troppo direttamente dipendente da singoli esempi concreti che la rapidità dell'evoluzione tecnologica modifica incessantemente.
Fra le molte conseguenze negative di questa carenza di elaborazione teorica, una in particolare sarà risultata del tutto palese a chiunque abbia frequentato qualcuno degli innumerevoli incontri, convegni, congressi dedicati all'uso delle nuove tecnologie in campo didattico e, più in generale, in ambito culturale: la difficoltà nel superare il livello, certo poco produttivo, della pura contrapposizione fra 'apocalittici' e 'integrati', fra i profeti di una 'barbarie digitale' in grado di distruggere in pochi anni un bagaglio culturale costruito faticosamente nel corso di secoli, e gli apostoli di un progresso tecnologico capace di guidarci in maniera quasi automatica verso una terra promessa nella quale scompaiano per incanto la maggior parte delle nostre limitazioni.
Certo, la contrapposizione di norma non è così schematica; ma egualmente resta l'impressione di due schieramenti che parlino lingue diverse, o che si riferiscano a diverse realtà. In effetti, proprio questo è il problema: la poca chiarezza sulle assunzioni e sui concetti di base utilizzati rende difficile, se non impossibile, quel processo di verifica ed elaborazione delle rispettive posizioni attraverso procedure comuni, razionali e verificabili che dovrebbe costituire la via maestra per uscire da conflitti teorici di questo tipo.
Vorrei qui discutere brevemente alcuni aspetti di un caso a mio avviso emblematico della situazione sopra delineata: il dibattito sulla fine della 'cultura del libro' (il fatto che spesso si parli indifferentemente a questo proposito di 'fine della cultura del testo' non è che un esempio della confusione concettuale alla quale si faceva riferimento). Si tratta di una tematica che ha evidenti ed immediate ricadute in ambito didattico, giacché la pratica pedagogica tradizionale appare in qualche misura figlia della 'cultura del libro', basata sul libro di testo da un lato, e sulla lezione frontale (vista troppo spesso come una sorta di 'lettura ad alta voce', lineare, unidirezionale e scarsamente interattiva) dall'altro.
Stabilire se e in che misura questa immagine corrisponda a realtà è evidentemente questione complessa, e la sola discussione del concetto di 'cultura del libro' ci porterebbe ad affrontare un insieme di questioni teoriche (e di auctoritates) che richiederebbero un'ampiezza di trattazione certo impossibile in questa sede. Scegliamo quindi una prospettiva particolare, e consideriamo per un momento le due galassie terminologiche che si vorrebbero contrapposte. Può aiutarci a farlo la citazione di un passo di Roberto Maragliano, uno dei più avvertiti sostenitori della necessità di un superamento, in ambito didattico, della 'cultura del libro': «la pedagogia (...) continua a pensarsi, a volersi pensare come libro: secondo una forma, cioè, che privilegia l'articolazione lineare della conoscenza, la sua divisione in blocchi autonomi, la logica dimostrativa, il ragionamento ipotetico-deduttivo, ecc. (...) I media post-gutenberghiani sono indubbiamente destabilizzanti, perché attivano altre forme: la contemporaneità, la contaminazione, la logica mostrativa, il ragionamento analogico, ecc.» (Maragliano 1994). Una rapida e certo incompleta rassegna del vivace dibattito sull'argomento ci porta a allargare ulteriormente i due cluster concettuali: dal lato della 'cultura del libro' troviamo così una famiglia di connotazioni associate ad espressioni quali libro a stampa, tradizione tipografica o gutenberghiana, testualità, linearità, astrazione, ragionamento deduttivo, monomedialità, contesti chiusi. Dal lato della 'nuova cultura' multimediale troviamo invece espressioni quali multimedialità, ipertestualità, ipermedialità, multilinearità, immersione, ragionamento analogico, contesti aperti.
Personalmente, sono un convinto (e spesso entusiasta) sostenitore dell'importanza e dell'interesse, sia teorico che pratico, dell'uso delle nuove tecnologie in ambito culturale. Eppure questo tipo di schematizzazioni teoriche mi lasciano estremamente perplesso. Certo, le possibilità aperte dai nuovi media hanno una portata rivoluzionaria. Ma siamo sicuri che il modello migliore per comprendere questa rivoluzione sia la contrapposizione radicale fra il 'vecchio' e il 'nuovo', o, semplificando, fra il libro e il computer?
Nel parlare della rivoluzione rappresentata dai nuovi modi di produzione della cultura viene spesso - e giustamente - citato un bel passo di Notre-Dame de Paris, 1482 di Victor Hugo. Affacciato alla finestra della sua cella, l'arcidiacono - sul tavolo uno dei nuovi libri a stampa frutto della 'macchina' gutenberghiana - guarda assorto la mole immensa della cattedrale di Notre Dame: «L'arcidiacono si soffermò per qualche momento, in silenzio, a contemplare il gigantesco edificio, quindi con un sospiro indicò con la mano destra il libro stampato aperto sul suo tavolo, e con la sinistra Notre Dame, volgendo uno sguardo triste dal libro alla chiesa. "Ecco", disse, "Questo distruggerà quella"». Difficile esprimere la portata della rivoluzione gutenberghiana in maniera più sintetica ed efficace del "Ceci tuera cela" di Victor Hugo: il sistema culturale e sociale rappresentato dalla cattedrale è destinato a soccombere davanti alle nuove forme di produzione e diffusione della cultura rese possibili dall'invenzione della stampa. Jay Bolter, uno dei principali teorici della scrittura ipertestuale, sceglie di aprire il suo Writing Space (Bolter 1991) con questa citazione, letta nella chiave di un superamento delle forme di scrittura rappresentate dalla cattedrale: i manoscritti della tradizione medievale conservati al suo interno, ma anche la scrittura 'visiva' incarnata nella cattedrale stessa, nelle scene bibliche e di vita dei santi scolpite o affrescate sulle sue navate. Attenzione, però: il sistema culturale rappresentato dalla cattedrale è destinato a soccombere non perché la scrittura manoscritta o la rappresentazione per immagini siano in quanto tali condannati a scomparire. Come nota lo stesso Bolter, «la gente ha continuato a contemplare la propria tradizione religiosa nelle cattedrali, e ha continuato a comunicare attraverso carta e penna per molti scopi». E tuttavia queste forme di scrittura sono diventate parte di una nuova sintesi, all'interno della quale il modello privilegiato e il principale punto di riferimento concettuale è stato rappresentato dal testo a stampa. Nel 1938, un articolo del New York Times prevedeva che la matita sarebbe scomparsa, sostituita dalla macchina da scrivere elettrica (Duguid 1996). Non è andata così: siamo al contrario perfettamente in grado di integrare l'uso della matita con quello della macchina da scrivere, o del computer. In generale, l'evoluzione delle tecniche di produzione e trasmissione della cultura non comporta un annichilamento delle tecnologie preesistenti, ma piuttosto una sorta di superamento-conservazione, al quale potrebbe forse essere applicato il concetto hegeliano di Aufhebung.
Anche l'attuale situazione di passaggio da un modello 'gutenberghiano' a un modello 'post-gutenberghiano' di cultura richiede una forma di sintesi. Eppure 'cultura del libro' e nuovi media vengono spesso rappresentati come due schieramenti contrapposti e schierati in battaglia, più che come forme di produzione culturale e di gestione dell'informazione tra le quali stabilire collegamenti e individuare possibili sintesi. E all'idea di superamento-conservazione si preferisce quella di superamento-sostituzione, efficacemente discussa da Duguid nei termini del "tropo futurologico" della supersession (Duguid 1996).
In realtà, questa contrapposizione è artificiale e fuorviante. E' possibile rendersene conto esaminando un po' più da vicino proprio la composizione delle due galassie concettuali sopra considerate. I passaggi logici che portano ad accostare fra loro i concetti raccolti in uno di questi cluster terminologici, e a contrapporli a quelli raccolti nell'altro, restano spesso inespressi. Se cerchiamo di esplicitarli (e di verificarne la fondatezza), le sorprese non mancano.
Partiamo da un tipo di esempio particolarmente caro ai difensori più radicali della 'cultura del libro'. Quello a cui stiamo assistendo, nella loro ottica, è il tentativo di sostituire il computer al buon vecchio testo a stampa. Da un lato, ci si immagina un ragazzino al computer che, tra un videogioco e l'altro, trova (a fatica, e presumibilmente dietro sollecitazioni superiori) un ritaglio di tempo per navigare attraverso qualche pagina di una versione ipertestuale dei Promessi Sposi, illustrata attraverso un terribile sceneggiato televisivo. Dall'altro, lo stesso ragazzino (che per qualche motivo immaginiamo ora con gli occhiali e il volto assorto dello studioso) legge con tutta calma i Promessi Sposi da un bel volume rilegato, seduto in poltrona, o alla scrivania, o magari sdraiato sul letto (potete fare tutto questo con un computer?); la sua fantasia immagina situazioni e personaggi, con una ricchezza e una partecipazione assai maggiori di quanto non sarebbe possibile attraverso il miglior film. Lungi dal rendere più libero il lettore, si afferma, i Promessi Sposi al computer, trasformati in una mostruosità "ipermediale e interattiva", limitano e stravolgono l'esperienza della lettura, imbrigliano la fantasia, finiscono per portarci da un libro a un videogioco.
Un'analisi di questo tipo ha diversi punti deboli; disgraziatamente, però, la risposta dei sostenitori della 'nuova cultura multimediale' raramente vi si sofferma. Si preferisce o affermare tout court il superamento del modello rappresentato dalla lettura tradizionale di un testo tradizionale (perché mai un ragazzo di oggi dovrebbe leggere i Promessi Sposi, o la Divina Commedia, o le poesie di Montale? Il videogioco o il film sono più vicini alla sua esperienza, al suo modo di interpretare il mondo, e in questo non c'è niente di preoccupante o di scandaloso), o affidarsi alla speranza (spesso illusoria) che la versione "ipermediale e interattiva" dei Promessi Sposi rappresenti comunque una forma efficace di avvicinamento al testo.
Eppure (e lo sanno molto bene gli insegnanti che hanno avviato lavori di questo genere) una strategia alternativa è non solo possibile ma anche immediata e didatticamente efficace: partire dal testo e accompagnare la tradizionale lettura del testo con una serie di operazioni di approfondimento, ricerca, integrazione che utilizzino il computer come ambiente di lavoro. Se il testo è il nostro punto di partenza, anche l'eventuale integrazione nel lavoro didattico di un'immagine, di un brano filmato (incluso quello dell'ipotetico sceneggiato televisivo), o materiali di altro genere non avrà la funzione di sostituire la lettura del testo, ma di integrarla. Partire dal testo vuol dire in questi casi partire dalla scrittura lineare, e vuol dire - nella situazione attuale dello sviluppo tecnologico - partire dal libro a stampa, eventualmente per arrivare a trasformarlo in testo elettronico. In questi casi, la 'sintesi' fra cultura del libro e nuovi media sembra assolutamente naturale, il rapporto fra libro e computer, fra testo lineare e ipertesto, sembra prospettare alleanze più che conflitti. Perché, allora, il tema della morte della cultura del libro rimane tanto centrale nel dibattito di questa fine millennio?
Si obietterà che la strategia che abbiamo illustrato (partire dal testo) ha senso soltanto in una situazione 'di passaggio' come l'attuale: entro pochi anni il libro sarà già nel computer, l'oggetto fisico 'libro', così come oggi lo conosciamo, avrà perso il suo ruolo, la linearità sarà già trasformata in ipertestualità. Si obietterà anche che il nostro esempio riguarda un ambito molto particolare: la cultura strettamente umanistica, la lettura dei classici. Perché mai, ad esempio, un manuale di scienze o di matematica dovrebbe conservare la sua forma tradizionale di 'libro di testo', quando un CD-ROM o l'uso di Internet permettono di utilizzare preziosi materiali audiovisivi, o di svolgere interattivamente esercizi e test di comprensione? Infine, si obietterà ancora che la compresenza di codici comunicativi diversi (testo scritto, suoni, immagini, video...) propria della multimedialità tende progressivamente a distruggere il ruolo del testo scritto come veicolo privilegiato per la trasmissione del sapere, e rende discutibile l'utilità di una pratica didattica che attribuisca al testo scritto (quello dei Promessi Sposi o qualunque altro) il ruolo centrale che esso ha avuto nel passato.
Si tratta di tre obiezioni diverse, che meritano di essere esaminate con calma e separatamente. Cominciamo dalla prima. Cosa vogliamo dire quando affermiamo che nel breve o medio periodo "il libro sarà già nel computer", e che l'oggetto fisico che conosciamo tenderà a scomparire? La correttezza di queste affermazioni, e le loro conseguenze, dipendono fortemente dal significato che diamo al termine 'libro' e al termine 'computer'. Come si è già accennato, parlando indifferentemente di fine della cultura del libro e di fine della cultura del testo si confondono due piani che è invece essenziale mantenere distinti. Il libro stampato, risultato della rivoluzione gutenberghiana, corrisponde in realtà a una particolare tecnologia di produzione, trasmissione e conservazione del testo. Sappiamo bene che questa tecnologia non manca di influenzare il tipo di testualità che viene prodotta, trasmessa e conservata, sappiamo cioè che i testi prodotti all'interno di un 'ambiente gutenberghiano' ne conservano un'impronta anche strutturale. Ma sappiamo altrettanto bene che testi lineari (così come testi non lineari - ma questo è un altro discorso) erano prodotti prima dell'invenzione della stampa, e - a meno di non essere ammalati in modo inguaribile di un qualche morbo decostruzionista - sappiamo altrettanto bene che testi lineari continuano e continueranno ad essere prodotti anche in ambiente elettronico.
Distinzioni analoghe vanno fatte a proposito del termine 'computer'. Quando parliamo del computer pensiamo probabilmente a un oggetto fisico ben definito, con una tastiera, un monitor, una unità centrale simili a quelli che abbiamo in casa o in ufficio. Eppure la forma fisica che assume il computer, la tipologia della nostra interfaccia fisica con la macchina, è il risultato - non casuale, ma certo tutt'altro che definitivo - di una evoluzione che è appena iniziata. La contrapposizione fra la comodità e la praticità di un libro a stampa e la scomodità dello schermo di un computer (anche di un computer portatile) riguarda in realtà lo stato di due tecnologie una delle quali ha alle spalle diversi secoli di sviluppo (pensiamo alle differenze esistenti anche solo fra un libro di oggi e un libro di un secolo fa), l'altra una decina di anni.
In che direzione si svilupperà, allora, l'interfaccia fisica di un computer pensato (anche) come macchina per leggere? Ebbene, è probabile che una delle direzioni fondamentali sia proprio quella rappresentata dal modello del libro! L'idea di un computer che abbia le dimensioni, il peso, la portabilità di un libro a stampa, che non richieda fili elettrici o lo studio di complicati manuali, che non si rompa per piccoli urti o cadute, che si apra come un libro a stampa, ma che abbia al posto delle pagine due sottili schermi paper white sui quali leggere, proprio come faremmo sulle due pagine affiancate di un libro aperto, il testo dei nostri Promessi Sposi (o di Dante, o di Montale), è probabilmente molto lontana dall'immagine un po' terroristica che del computer hanno i difensori più ortodossi delle forme tradizionali della cultura del libro, ma è ben presente agli ingegneri informatici e agli esperti di design industriale delle multinazionali di elettronica. 'Libri elettronici' di questo tipo (se lo spazio non fosse tiranno sarebbe estremamente interessante, anche dal punto di vista strettamente teorico, passare in rassegna le caratteristiche tecniche di alcuni dei principali progetti esistenti in quest'ambito) sarebbero in grado di offrire, come 'bonus' aggiuntivo, la possibilità di utilizzare a piacere una o entrambe le 'facciate' come blocco di appunti o come strumento di schedatura, di effettuare ricerche veloci sul testo, di permettere il confronto a pagine affiancate di testi diversi, di includere immagini, suoni, filmati, insomma di sfruttare al meglio caratteristiche e potenzialità dell'ambiente elettronico. Permetterebbero al nostro ipotetico studente di leggere Manzoni sdraiato sul letto o nella vasca da bagno, e conquisterebbero probabilmente senza troppe difficoltà le simpatie dell'umanista più incallito.
Il livello delle interfacce (volume a stampa, computer) va dunque distinto dal livello delle forme di testualità, non perché le due sfere non si influenzino reciprocamente (cosa che non mancano di fare), ma perché la loro stessa capacità di influenza reciproca nasce e dipende dall'esistenza di una essenziale distinzione concettuale. Quando parliamo di mettere "il libro nel computer" è bene pensare innanzitutto alla trasformazione di un testo scritto in testo elettronico, e distinguere questo livello da quello delle interfacce attraverso le quali utilizzeremo il testo elettronico. Interfacce di lettura per i testi elettronici che siano non nemiche ma prodotti della 'cultura del libro' sono perfettamente ipotizzabili, anche se del libro estenderanno in maniera considerevole (e per molti versi rivoluzionaria) le possibilità e le caratteristiche.
La considerazione del piano delle interfacce, tuttavia, non basta a rispondere interamente alla nostra prima obiezione. La 'rivoluzione digitale' non prevede forse un passaggio ulteriore e ben più destabilizzante, quello dal testo lineare all'ipertesto? L'ambiente multimediale non mette in crisi un modello - la rappresentazione lineare dell'informazione - che era sopravvissuto ed era anzi stato rafforzato dalla rivoluzione gutenberghiana? Resterà uno spazio - un qualsiasi spazio - per un testo lineare come i Promessi Sposi, fuori dallo scaffale polveroso degli antiquari?
Per rispondere a questo interrogativo, occorre - al solito - capire un po' meglio di cosa stiamo parlando. Un ipertesto consiste di un insieme di frammenti testuali più o meno autosufficienti (spesso chiamati lessie) collegati fra loro attraverso una serie di percorsi (link) che, nel caso più semplice, portano da una porzione di una lessia a un'altra lessia, o a una porzione di un'altra lessia. Il lettore 'sfoglia' l'ipertesto passando da una lessia all'altra, e lo fa scegliendo, fra i vari percorsi disponibili, quelli che meglio rispondono ai suoi interessi, allo scopo della sua lettura, alle sue curiosità. Oltre che lessie testuali, un ipertesto può collegare fra loro anche brani sonori, immagini, brani video. In questo caso, si parla spesso di ipermedia. L'esempio più noto (e più importante) di ambiente ipermediale è World Wide Web, l'immensa ragnatela di pagine multimediali disponibile sulla rete Internet. Ma anche un qualsiasi CD-ROM ha in genere una struttura ipermediale: si naviga attraverso l'informazione scegliendo, attraverso il 'click' del mouse, gli argomenti che vogliamo approfondire, i percorsi che ci interessa seguire, fra le diverse opzioni che ci vengono proposte.
La forma ipertestuale non è un'invenzione dell'informatica - le note a piè di pagina, le glosse, i meccanismi di rimando incrociato all'interno di un'enciclopedia non sono che alcuni esempi di strutture ipertestuali già presenti nella tradizione gutenberghiana - ma indubbiamente raggiunge la sua piena maturità solo attraverso il computer, che permette di costruire strutture ipertestuali (o ipermediali) complesse e di navigare con facilità al loro interno. E la strutturazione ipertestuale dell'informazione si rivela in molti casi potente e preziosa: un manuale tecnico, un'enciclopedia, un gioco vi trovano spesso le proprie forme di rappresentazione più naturali, e un ambiente di questo tipo offre le soluzioni ottimali per integrare fra loro testo scritto e contenuto multimediale. Disgraziatamente, però, la riflessione teorica sugli ipertesti e sul loro uso è stata fortemente influenzata dall'impostazione decostruzionista di alcuni fra i primi studiosi che se ne sono occupati. L'ipertesto è stato così visto come lo strumento da usare per permettere la "liberazione" dal paradigma chiuso e autoritario rappresentato dal testo lineare, una vera e propria arma di battaglia in grado di decostruire la tradizionale rigidità del testo, di sostituire il paradigma dell'"apertura" a quello della strutturazione, di dar voce al carattere intrinsecamente frammentario e multilineare del pensiero post-moderno (si vedano in particolare Landow 1992 e 1997).
Questa concezione 'militante' dell'ipertesto ha portato a mettere in ombra il fatto che la strutturazione ipertestuale dell'informazione non deve affatto corrispondere necessariamente a un disordinato affastellarsi di frammenti collegati fra loro in maniera più o meno casuale. Al contrario, ogni ipertesto ha una propria struttura ben determinata (tanto da essere rappresentabile e analizzabile matematicamente, attraverso grafi), ipertesti diversi possono avere gradi di complessità ipertestuale diversa (in grado di rispondere alle caratteristiche specifiche di tipi diversi di informazione, o ai particolari obiettivi che ci siamo posti), e, soprattutto, lo stesso testo lineare al quale ci avrebbe abituato la tradizione gutenberghiana costituisce un caso particolare (un caso limite nel quale la complessità ipertestuale è pari a zero) di ipertesto. Ho affrontato altrove queste tematiche (Roncaglia 1997), argomentando fra l'altro che l'associazione fra la prospettiva fuorviante dell'impostazione decostruzionista e un paradigma di 'testualità tradizionale' troppo concentrato sul modello lineare rappresentato dalla narrativa, portano a non riconoscere o a limitare l'importanza di tutta una serie di strutture ipertestuali presenti a pieno titolo anche nella nostra tradizione culturale 'gutenberghiana'. Ma qui interessa soprattutto sottolineare che, come occorre riconoscere che per certi tipi di informazione e per certi obiettivi una strutturazione ipertestuale complessa apre possibilità ed orizzonti nuovi, così occorre riconoscere che un aumento innaturale della complessità ipertestuale di altri tipi di informazione può peggiorare, e non migliorare, la nostra capacità di fruizione dell'informazione stessa.
Una strutturazione lineare, o a bassa complessità ipertestuale, dell'informazione, corrisponderà in particolare a situazioni nelle quali vogliamo 'prendere per mano' il nostro lettore e guidarlo attraverso uno specifico percorso. E' questa una caratteristica comune alla maggior parte delle opere narrative, e non è un caso che gli esperimenti di 'narrativa ipertestuale' abbiano dato risultati complessivamente scarsi, tranne che in alcuni casi nei quali erano sperimentati modelli letterari fortemente aforistici, o nei quali (è la situazione di molti libri-game) l'autore rinuncia programmaticamente a dotare la propria narrazione di un plot definito, affidandone l'emergere all'interazione fra l'utente e una serie di ambienti, situazioni, personaggi. Ma la scelta del 'prendere per mano' il lettore può essere comune anche a molte situazioni didattiche, nelle quali si ritenga utile far passare lo studente attraverso una serie ordinata (sia essa lineare o a bassa complessità ipertestuale) di tappe di apprendimento. Può essere la scelta più opportuna per un saggio che intenda dimostrare una tesi partendo da certe premesse (in questi casi, un basso livello di complessità ipertestuale può essere preferibile alla pura linearità, ma una eccessiva complessità ipertestuale può rendere difficile far emergere con chiarezza le posizioni dell'autore e le loro motivazioni).
In sostanza: la pura opposizione fra ipertesto e testo lineare, come proposta in molte teorizzazioni dei sostenitori della 'nuova cultura multimediale', e che trova espressione nella netta separazione fra le due 'galassie concettuali' sopra considerate, rappresenta non solo una ipersemplificazione, ma una ipersemplificazione fortemente fuorviante. Nel caso specifico dei Promessi Sposi, o di qualunque testo della nostra tradizione letteraria, la sperimentazione (anche didattica) di forme di costruzione ipertestuale può essere solo subordinata e logicamente successiva alla lettura e alla fruizione del testo nella sua forma originale, che è la forma lineare tipica di un testo letterario. Si badi che a questo proposito è del tutto irrilevante se il testo sia accessibile attraverso un libro a stampa o in formato elettronico: se è vero che la forma ipertestuale richiede, oltre certi livelli di complessità, una gestione attraverso strumenti informatici, non è affatto vero che la forma lineare debba essere collocata unicamente o preferibilmente all'interno del 'campo' rappresentato dalle interfacce di lettura gutenberghiane.
Ricordiamo brevemente l'obiezione alla quale abbiamo cercato di rispondere: la strategia del 'partire dal testo' tipica della cultura e della didattica 'del libro' avrebbe senso soltanto in una situazione di passaggio come l'attuale, giacché entro pochi anni il testo sarà nel computer, l'oggetto fisico 'libro', così come oggi lo conosciamo, avrà perso il suo ruolo, la linearità sarà già trasformata in ipertestualità. La nostra risposta può riassumersi nelle seguenti considerazioni: il fatto (sul quale concordiamo) che nel breve o (più probabilmente) nel medio periodo il nostro rapporto con i testi avverrà attraverso testi elettronici anziché attraverso testi a stampa non implica affatto la scomparsa della 'cultura del libro', ma semmai un suo allargamento e una sua apertura a prospettive e possibilità nuove. Le stesse interfacce che useremo per leggere i nostri testi elettronici saranno figlie del matrimonio fra 'cultura del libro' e nuove tecnologie. Né la possibilità di creare testi ad alta complessità ipertestuale implica un necessario e generalizzato abbandono di forme di scrittura lineare o a bassa complessità ipertestuale: i Promessi Sposi non cambieranno natura per il fatto di essere letti attraverso interfacce non-gutenberghiane, la narrativa lineare non sarà sostituita ma semmai affiancata da forme letterarie a più alta complessità ipertestuale.
Passiamo ora alla seconda delle obiezioni proposte, secondo la quale l'esempio che abbiamo discusso vale per un settore importante ma limitato della 'cultura del libro', quello che riguarda l'ambito strettamente umanistico, e in particolare la letteratura. Alcune delle considerazioni svolte nel rispondere alla prima obiezione suggeriranno già in che senso questa obiezione possa essere accettata, e in che senso vada invece respinta. Certo, un lavoro didattico che 'parta dal testo' ha senso soltanto in certi campi, ad esempio per lo studio della letteratura o della filosofia. E non vi è alcun dubbio che in molti, moltissimi casi (ivi compreso lo studio delle materie umanistiche) il tradizionale 'libro di testo' possa (e debba) essere vantaggiosamente sostituito o affiancato da strumenti nuovi, in particolare da strumenti multimediali. Questo, tuttavia, non richiede affatto che l'insegnante debba rinunciare a una strutturazione del percorso formativo proposto, che debba necessariamente abbandonare l'uso di modelli di ragionamento dimostrativi e deduttivi a favore di modelli 'analogici' o di flusso (occorrerebbe peraltro anche a questo proposito capire esattamente di cosa si stia parlando - basti qui l'osservazione certo un po' generica secondo cui è bene avere a disposizione gli uni e gli altri, e saperli adoperare nelle situazioni opportune), che debba preferire la contemporaneità alla linearità. Anche qui, vi saranno situazioni in cui è bene 'prendere per mano' lo studente e accompagnarlo attraverso uno specifico percorso (anche se questo percorso prevede l'impiego di forme e codici comunicativi diversi), altre situazioni in cui lo si potrà lasciare libero di scegliere in tutta autonomia le strade e le direzioni da prendere, e molte situazioni intermedie. Non si tratta di abbandonare la strada della linearità che sarebbe propria della cultura del libro per sostituirla con la cultura del flusso, della contemporaneità, dell'analogia che sarebbe propria dei nuovi media. Si tratta al contrario di integrare al meglio vecchie e nuove possibilità, tenendo presente che in questo campo (ma non solo in questo) è bene cercare di mettere le tecnologie al servizio delle nostre scelte culturali e formative, e non viceversa.
Ma - e arriviamo così alla terza obiezione proposta - l'uso, attraverso la multimedialità, di forme e codici comunicativi diversi non rappresenta esso stesso un abbandono del presupposto fondamentale della cultura del libro, lo status privilegiato della scrittura come strumento di trasmissione culturale?
Anche in questo caso, mi sembra più corretto parlare di un allargamento di prospettiva piuttosto che di una pura sostituzione. Non dimentichiamo che anche la nuova 'cultura multimediale' è basata su una scrittura: abbiamo costruito un alfabeto - l'alfabeto digitale fatto di bit, di lunghe catene di zero e uno - nel quale codificare non solo testo, ma anche suoni, immagini, immagini in movimento. Il termine multimedialità, lo sappiamo, è un termine equivoco: si riferisce sia alla moltiplicazione dei media intesi come supporti dell'informazione (carta stampata, fotografia, radio, cinema, televisione, computer...) sia alla pluralità dei codici comunicativi (testo scritto, suoni, immagini...). Il fattore rivoluzionario rappresentato dall'introduzione dell'informatica non consiste nell'aggiunta di un nuovo medium - il computer - agli altri già esistenti, ma nel far convergere - attraverso l'unificazione rappresentata dalla codifica digitale - la molteplicità di codici comunicativi verso un unico strumento in grado di gestirli ed interpretarli tutti. Questa 'scrittura' ci permette di creare oggetti informativi che integrino tipi di comunicazione che eravamo abituati a pensare come separati ed indipendenti. Stiamo appena cominciando a imparare come usarla. Ma, anche qui, pensare che i prodotti informativi che possiamo creare attraverso la convergenza al digitale debbano essere comunque fluidi, destrutturati, basati sull'analogia e sulla compresenza più che su uno sviluppo strutturato (anche se non necessariamente e non sempre lineare) costituirebbe un'inferenza non giustificata. La strutturazione che daremo all'informazione dipenderà, anche nel caso di informazione multimediale, dai nostri scopi e dal tipo di informazione con la quale abbiamo a che fare. Ma il fatto di saper inserire nel nuovo 'libro' multimediale anche suoni e filmati non implica automaticamente la cancellazione della 'cultura del libro', anche se certo ne modifica radicalmente alcune caratteristiche.
Nella sostanza, la linea interpretativa che abbiamo proposto suggerisce di leggere - anche (e non solo) in ambito didattico - il rapporto fra cultura del libro e nuove tecnologie attraverso il modello del superamento-conservazione anziché attraverso quello del superamento-sostituzione. Suggerisce inoltre di guardare con una certa diffidenza alla costituzione, anche a livello concettuale, di due schieramenti rigidi e contrapposti che oppongano connotazioni tipiche della 'cultura del libro' a connotazioni tipiche della 'cultura dei nuovi media'. Come abbiamo visto, in molti casi l'inclusione o l'esclusione dall'un campo o dall'altro di concetti quali quelli di testualità, ipertestualità, strutturazione lineare, ragionamento deduttivo, ragionamento analogico, finisce per essere un'operazione arbitraria: i confini fra i due settori sono, questi sì, fortunatamente fluidi, e le nostre scelte, in un campo in cui bisogna sempre guardarsi dalla pericolosa illusione che lo sviluppo tecnologico determini da solo le linee dell'evoluzione culturale e sociale, non sono prive di conseguenze.
Le difficoltà che si incontrano nella definizione di modelli definiti e generalmente condivisi per l'uso didattico delle nuove tecnologie della comunicazione dipendono da motivi pratici, ma anche e forse principalmente da una carenza di elaborazione teorica. Questa carenza contribuisce spesso a trasformare il dibattito in questo campo in una sterile contrapposizione fra apocalittici e integrati. Un esempio centrale sia per la sua portata culturale sia per i suoi riflessi didattici è fornito dalla discussione sulla fine della 'cultura del libro'. Discussione che tende spesso a contrapporre acriticamente una galassia concettuale (libro a stampa, testualità lineare, monomedialità, ragionamento deduttivo, contesti chiusi...) collegata alla 'cultura del libro' di tradizione gutenberghiana e un'opposta galassia concettuale (multimedialità, ipertestualità, ragionamento analogico, contesti aperti...) collegata alla nuova cultura multimediale. In realtà, un'analisi più attenta dei concetti coinvolti mostra che molto spesso le opposizioni e i collegamenti stabiliti attraverso questo schema teorico sono discutibili e arbitrari. Molti aspetti della cultura del libro vengono non già cancellati, ma ripresi e ampliati attraverso l'uso degli strumenti informatici.
Gino Roncaglia - Ricercatore presso l'Istituto di scienze umane dell'Università della Tuscia, divide i suoi interessi fra la storia della logica (campo in cui ha recentemente pubblicato il volume Palaestra rationis. Teorie della copula e modalità nella logica 'scolastica' protestante del secolo XVII, Firenze, Olschki, 1996) e l'informatica per le scienze umane. E' coautore dei manuali Internet '96, Internet '97 e Internet '98 (Bari, Laterza), vicepresidente della biblioteca elettronica di testi in rete del Progetto Manuzio, ed è fra gli autori dei testi dei del programma televisivo MediaMente di RAI Educational.