INTERVISTA:
Domanda 1
Prof. Masullo, nella videosfera non ha più senso parlare di spettacolo: non si è più
davanti all'immagine, ma nel visuale. Il flusso delle immagini non è più propriamente
oggetto di visione, di contemplazione. Il verbo che esprime il nuovo rapporto tra soggetto
e oggetto è: navigare. La pratica dello zapping non fa che aumentare il gioco della
casualità e della contingenza, senza uscire dalla forma-flusso. Come può ancora l'occhio
ritirarsi da ciò che vede, prendere le distanze e produrre quello sguardo critico che è
il presupposto di ogni riflessione? Forse paradossalmente passando dall'altra parte del
tubo catodico, guardando nella videocamera?
Risposta
Quello che si osserva oggi è una sorta di dispersione, di dissipazione della esistenza in
una miriade di occasioni dovuta alla moltiplicazione degli strumenti di distrazione, di
divertimento, in una miriade di occasioni, come si dice oggi, consumistiche. E' come se
l'uomo si trovasse sempre più fortemente e velocemente esposto a consumare e, consumando,
consumarsi. Io sono sempre molto impressionato da ciò che avviene quando si guarda la
televisione: quasi nessuno riesce ormai a resistere alla tentazione di utilizzare il
telecomando e si diverte a un certo punto a premere i pulsanti il più rapidamente
possibile, cambiando il più rapidamente possibile i canali finché - forse è capitato
perfino a noi stessi- perde interesse la narrazione continua che si svolge all'interno di
un programma televisivo e spezziamo tutti i programmi possibili in tanti frammenti che
mescoliamo nella successione casuale in cui ci troviamo a lasciarli scorrere innanzi a
noi. E questo provoca una sorta di ebbrezza che io chiamo "estasi della
contingenza" perché non c'è più nessuna necessità narrativa da cui ci lasciamo
prendere, ma c'è soltanto questa dedizione ed esposizione alla occasionalità di
successioni rapidissime. E' come se il nostro tempo - che è tempo di vita, di sequenze
collegate, di mediazioni, di narrazioni - questo nostro tempo lo perdessimo dissipandolo
in una molteplicità di istanti ciascuno senza relazione con l'altro. Questo caso limite
è in qualche modo il sintomo del tipo di cultura entro cui siamo immersi, una cultura
sempre più forte per la potenza delle sue costruzioni e che, paradossalmente, rende
l'individuo sempre più debole di fronte alle potenzialità di quelle costruzioni. Accanto
però a questo fenomeno che è un fenomeno di estrema frantumazione dell'esistere e quindi
di perdita del senso stesso dell'esistere in una ebbra molteplicità di occasioni senza
rapporto tra di loro, noi assistiamo anche a un continuo avanzare, a un continuo erompere
di richieste di filosofia. Basta che leggiamo un qualsiasi giornale o rotocalco o una
qualsiasi rivista anche di quelle che corrono a titolo di pura e semplice informazione,
per notare la sempre più forte necessità di interrogazione: i lettori che scrivono, gli
ascoltatori che vogliono essere sentiti, se non addirittura visti in televisione. Questo
bisogno secondo me non è tanto un bisogno di protagonismo, che pure avrebbe il suo
significato come contromanovra rispetto al rischio della dissipazione, quindi una sorta di
conquista della propria identità mentre questa si va dissolvendo, quanto piuttosto il
bisogno di introdurre un elemento chiarificatore e quindi critico e filosofico anche nelle
vicende più banali della nostra vita.
|
|