INTERVISTA:
Domanda 1
Il fenomeno della rete coinvolge diverse dimensioni culturali: quella epistemologica,
quella etica, la dimensione politica, la dimensione estetica, e quella strettamente
tecnologica.
Risposta
Il punto di partenza di ogni discorso sulla rete è quello di considerarla un fenomeno
quantomeno bifronte, nel senso che la rete è i suoi aspetti tecnologici, i quali, a loro
volta, sono in gioco in uno scambio che comprende la politica, l'economia e lo sviluppo
tecnologico in senso stretto. Sull'altro versante, ha a che vedere con i problemi che
riguardano la vita quotidiana, con i soggetti che sono implicati nelle grandi decisioni
strategiche. Quindi, da un lato, non c'è dubbio che le due dimensioni siano comuni,
poiché fanno parte dello stesso fenomeno; dall'altro verso, però, possono essere
logicamente distinte. I costruttivisti degli anni Ottanta hanno detto, a proposito delle
tecnologie, che esse sono un tessuto senza cuciture; in altre parole, non si possono
separare nelle tecnologie gli aspetti della complessità. Però, a mio avviso, si possono
distinguere. L 'idea, quindi, di articolare l'analisi delle reti su diversi aspetti, con
diversi punti di vista, attraverso sguardi diversi, deriva da questa convinzione: non
separare, ma distinguere logicamente.
Domanda 2
Uno di questi aspetti è la dimensione etica.
Risposta
Tutte le grandi trasformazioni culturali implicano nuove calibrature della dimensione
etica, delle regole che motivano le scelte dei nostri comportamenti. Questo significa, da
un lato, che ci si pongono nuovi problemi, e dall'altro che abbiamo uno sguardo nuovo sui
problemi tradizionali. Rispetto al controllo sociale, per esempio, ci si pone il problema
se sia lecito o no controllare la nostra utenza. La forza con cui le reti pongono questo
problema è del tutto nuova; si tratta, tuttavia, di un problema antico che viene
ricalibrato, perché la dimensione del controllo sociale, soprattutto nelle grandi
società di massa, è un tema fortissimo. Era presente nelle grandi esposizioni
universali, era presente nelle manifestazioni di massa della Rivoluzione Francese. La
differenza sta nel fatto che, per quanto riguarda le reti, si tratta di un controllo
individualizzato, di un controllo, quasi, potenzialmente poliziesco, nel senso negativo
del termine. In questa direzione la dimensione etica, quella delle scelte, diventa
fondamentale. Fino a che punto è lecito esercitare una attività di conoscenza, anche
individuale, su un altro soggetto? Fino a che punto si può entrare nella sua
"privacy", fino a che punto si può "squadernare" la propria
"privacy" davanti agli altri? Ecco: le reti pongono in un modo molto forte
questo problema.
Domanda 3
Remo Bodei riflette sulla possibilità di un'etica planetaria. Quali sono, a Suo avviso, i
tratti che caratterizzano un'etica planetaria?
Risposta
Il discorso di Bodei è un po' più complesso dell'individuazione di una sola etica. Dice
innanzi tutto che nella comunicazione esiste una dimensione plurietica. Non si può
dimenticare che, nell'era della globalizzazione, ci sono tante etiche differenti che si
incontrano. Basti pensare all'incontro delle grandi religioni e degli integralismi, che
fanno parte, come fenomeno non esclusivo, di alcune grandi religioni. Per gli integralismi
esistono delle etiche molto rigide, che si devono scontrare necessariamente con le etiche
alternative. Quindi, esiste una pluralità di etiche, ed è difficile pensare di rimuovere
tale pluralità. Insieme, però, si può pensare di trovare una dimensione etica generale,
nel senso che si può ritornare a pensare ad un interesse collettivo, più che generale;
ad un interesse che appartiene a tutti quanti i soggetti, a tutte quante le comunità, e
che possiede, come contenuto, proprio le diverse etiche locali. Anche in questo caso credo
che si possa semplificare dicendo: se tutti quanti abbiamo comportamenti diversi, abbiamo
regole differenti - esistono, in sintesi, molte etiche -, allora ci dev'essere un'etica
capace di consentire a tutte le etiche locali di sopravvivere, capace di garantire il
rispetto delle etiche altrui.
Domanda 4
Un'altra dimensione è quella epistemologica.
Risposta
Non c'è dubbio che la centralità dell'informatica e dei linguaggi informatici, comporti
una nuova dimensione epistemologica, perché il modo di pensare si modifica. Gli studi
sull'intelligenza artificiale ci hanno portato, bene o male, a ricalibrare quello che noi
pensiamo della nostra intelligenza. Esiste, probabilmente, la necessità di pensare un
rapporto fra il sapere e le sue regole che inglobi le tecnologie. Intendo dire che le
tecnologie ci offrono la possibilità di pensare il pensiero in un modo diverso. Un
esempio è offerto dalle tecnologie della memoria, che implicano un'idea di sapere e di
codificazione del sapere, di ricordo, completamente nuova, anche se attinge a forme
tradizionali. Le stanze della memoria consistono nell'idea stessa di cos'è un metodo di
ricerca. Il metodo deduttivo e il metodo induttivo sono stati, per lungo tempo, i due
cardini del pensiero classico; o l'idea di abduzione, che è emersa con Pierce, sul finire
dell'Ottocento: l'idea di un percorso umano che si muove sempre bilanciando, rischiando,
muovendo delle ipotesi, che, forse, possono integrarsi con un'idea di ricerca come
percorso insieme, guidato da altre esperienze. E, ancora, l'idea che, ormai, ogni percorso
di ricerca sia anche il percorso attraverso la ricerca altrui; ciò implica anche una
nuova idea di autorità. Noi, in qualche modo, abbiamo rimesso insieme l'idea di autorità
nella ricerca, perché quando facciamo un percorso di ricerca in rete, qualcun'altro l'ha
già fatto prima di noi per rendercelo possibile. E' stato, almeno potenzialmente, reso
possibile. Non si tratta più di un'esperienza immediata, ma di un'esperienza sempre
mediata dalla conoscenza altrui che noi inglobiamo nella nostra idea di conoscenza.
Possiamo conoscere ciò che, in qualche modo, è già stato predisposto per la conoscenza
da un'operazione conoscitiva. Questo mi sembra un dato interessante.
Domanda 5
E la dimensione estetica?
Risposta
La dimensione estetica è una dimensione curiosa, perché, in effetti, tutte le tecnologie
nel loro aspetto artistico ci rimandano alla versione di azione. Così come le avanguardie
avevano messo in luce che ogni atto artistico può essere considerato solo in quanto atto,
non per il suo prodotto. Duchamps mette un oggetto pronto in mostra e dice: la
caratteristica artistica di questo oggetto non consiste nel fatto che esso esiste, quanto
in quello di mostrarlo come un oggetto d'arte! Per quanto riguarda l'attività in rete, il
processo è lo stesso: quello che conta, nell' estetica della comunicazione, è di essere
presenti, di affermare la propria esistenza e di collocarsi in una dimensione che non è
quella utilitaristica. Io sono qui perché comunico e comunico come atto estetico, come
atto di affermazione della mia identità espressiva. Io sono qui perché quello che dico
ha un senso, non per il suo contenuto, ma per la forma che io adotto. Pensiamo, per
esempio, a quei curiosi modi, a quella vera arte grafica che consente di creare questi
grafemi nella rete. Pensiamo a quelle piccole icone, che si chiamano "smiles" o
"emotikons", che nelle reti segnalano lo stato d'animo. C'è un modo di
segnalare questi oggetti: battere una 'o', i due punti, una parentesi chiusa, per cui
l'utente, girando la testa da una parte, vede una faccina che sorride, oppure è triste,
oppure fa una smorfia. Questa faccina segnala lo stato d'animo di chi sta parlando. Ecco:
questa necessità di comunicare lo stato d'animo è propriamente la dimensione estetica.
Domanda 6
E dalla parte del ricettore? Da un certo di vista, nella società della comunicazione e
con la moltiplicazione delle fonti di comunicazione, siamo in presenza di una sorta di
continua sensibilizzazione dal punto di vista della fruizione estetica, di sovrabbondanza
di stimoli.
Risposta
Il centro dell'esperienza estetica non è l'oggetto, ma il soggetto, e quindi è la
scelta. Così come l'artista compie la scelta di mettere in campo l'oggetto, così il
fruitore mette in campo la propria percezione: sceglie, in modo rituale, di definire la
sua percezione come percezione estetica. Detto in altri termini, se io mi metto in rete
con l'intenzione di navigare velocemente, non sono predisposto ad un'esperienza estetica.
Se, viceversa, cerco un determinato tipo di comunicazione e la fruisco col tempo
necessario, con l'atteggiamento necessario, allora, questa ricerca, configura la
possibilità di una dimensione estetica. La quantità di possibilità di fruizione che si
possiede, distrugge la possibilità della percezione estetica solo se il soggetto che
vuole percepire non ha la sufficiente attenzione, non si colloca in una dimensione
estetica. Ma è il soggetto che riceve, che deve scegliere la propria dimensione di
consumo; non basta ridurre la quantità di offerta per generare la dimensione estetica.
Domanda 7
Nella dimensione sociale vengono individuate da un lato una nuova comunità, con l'ipotesi
che filosoficamente si potrebbe legare all'idea dell'intelligenza collettiva, e dall'altro
canto il telelavoro. Ce ne può parlare?
Risposta
La dimensione sociale è, ovviamente, una dimensione che può essere esplorata attraverso
molti punti di vista. Un aspetto è quello della identità sociale. Come cambia
l'identità sociale in rete? L'identità tribale si afferma attraverso una compresenza
spazio-temporale. La comunità, nelle tribù, è tale, perché essa usa determinati
linguaggi collettivi. Nelle società moderne, l'identità si sfrangia, diventa più
complicata, ma viene ricostruita attraverso una serie di comportamenti che possono essere
o di gusti comuni, come può essere l'appartenenza ad una classe, o, nelle fasi recenti,
l'appartenenza ad un gruppo di consumo, oppure, può essere l'appartenenza ad una
generazione. Che cosa avviene con le reti? Vi nascono delle comunità che hanno come unico
collante iniziale quello di comunicare contemporaneamente. Quindi, la nozione di comunità
si lega a quella di comunicazione, e non il contrario. Invece che comunicare in un certo
modo, perché si appartiene ad una determinata identità sociale, ci si riconosce come
un'identità perché si comunica con specifiche modalità. Questa è certamente la
novità. Non va enfatizzata, perché le altre forme di identità sopravvivono. Però,
necessariamente, entrano in gioco queste doppie dimensioni. Sul fronte del telelavoro
bisogna dire che si tratta di una possibilità concreta che le tecnologie mettono in
campo, cambiando la nostra idea di lavoro, cambiando la nostra di idea di tempo. Il fatto
che si possa lavorare a casa modifica la percezione del ruolo temporale. Una persona che
sceglie di lavorare a casa, come distribuirà il proprio tempo con la famiglia, con gli
amici, coi figli? Sceglierà di lavorare di notte. Questo lavoro sarà compatibile con la
sua vita privata? Sarà più compatibile? Abbiamo un tempo sociale in grado di reggere
questa individualizzazione del lavoro? Questa è la grande domanda. Si tratta, per ora, di
un fenomeno minoritario; in prospettiva, però, può diventare un fenomeno di massa. In
questa prospettiva occorre che l'intera società ripensi il tempo del lavoro
complessivamente. Forse non si tratta più nemmeno di una questione di riduzione in
termini orari, ma di flessibilità in un altro senso: lavorare quando è possibile. Penso,
per esempio - un esempio banale -, alle molte coppie con figli che spendono parte dei loro
stipendi per organizzare la vita dei figli perché loro non sono presenti. Ci sono,
quindi, persone che vengono pagate per svolgere il ruolo che i genitori dovrebbero
svolgere e che non sono in grado di svolgere. Mi chiedo: il telelavoro può rispondere,
per esempio, a questa questione?
Domanda 8
La dimensione economica.
Risposta
La dimensione economica è quella più complessa. Non si può certo sintetizzare
rapidamente. Alcune linee di risposta, o meglio, alcune linee di domanda, possono essere
raccolte attorno ad una grande questione: le nuove tecnologie costituiscono un incentivo
allo sviluppo economico? O invece sono responsabili della perdita di vecchie professioni e
mettendo in crisi una determinata società? La risposta è ambigua. Certamente, da un
certo punto di vista, l'investimento nelle nuove tecnologie e nelle opportunità che esse
offrono, è in incremento continuo. Certamente quest'incremento è in parte o tutto o in
proporzione ancora maggiore ai vantaggi, ed in condizione di creare svantaggi
sull'occupazione e sugli investimenti. Facciamo un esempio che ci riguarda un po' tutti:
la possibile evoluzione, legata alle nuove tecnologie, del sistema televisivo. La nascita
di "pay per view", di "pav T.V.", di sistemi di televisione
satellitare a pagamento e non, cambierà la televisione generalista? Che cosa
significherà: che ci sarà più televisione, più investimento pubblicitario? O che ce ne
sarà di meno? Non ci potrà essere più consumo, per esempio, e meno occupazione? Questa
è una delle grandi questioni. Ed è una questione - è bene sottolinearlo - del tutto
aperta. In realtà siamo di fronte ad un fenomeno nuovo, e non possiamo aggiustare delle
previsioni, compiute per altri campi, a questo settore. Si tratta di un terreno che
scopriamo di volta in volta. In questo caso la politica gioca un ruolo forte, poiché non
si tratta di un segmento in cui la politica possa entrare a cose compiute. Si sente la
grande necessità di un governo, di una progettazione, di uno scopo finale dello sviluppo.
Non si può pensare di lasciare l'economia dei media, soprattutto di questi nuovi media,
libera di agire secondo "leggi" - tra virgolette - di mercato. Si sente
l'esigenza di un governo. E questo è un problema molto importante anche al livello
internazionale, sovranazionale, e certamente anche a livello nazionale, locale.
Domanda 9
Stefano Rodotà ipotizza la nascita di un'"apartheid informatica" come
differenziazione tra chi ha accesso alla conoscenza, al sapere e chi non ne ha. A suo
avviso è un rischio reale?
Risposta
Si capisce che è un rischio reale! Il problema dell'accesso alle nuove tecnologie è
fondamentale. E' in primo luogo un problema di costi, ma anche di cultura. Il problema dei
costi è una delle grandi chiavi dello sviluppo economico futuro. Finché il costo di un
computer parte da un minimo di mille dollari, è ovvio che l'accesso ad esso è selettivo,
tanto più se bisogna aggiornarsi e, quindi, continuamente comprare "software".
E poi il "software" diventa sempre più sofisticato: il mio "hardware"
non regge più il "software", debbo fare allora un aggiornamento, un
"upgrading" del mio "hardware". La possibilità del cosiddetto
"netcomputing" - del computer di trecento dollari, cinquecento dollari, seicento
dollari - che si può usare senza il supporto di programmi perché si ha accesso alla
rete, e si ha la possibilità di scaricare sul computer i programmi che sono in rete, con
un conseguente calo dei costi, avrebbe certamente un effetto positivo. Gli aspetti
culturali sono comunque rilevanti. Esistono sacche di analfabetismo informatico molto
forti nei ceti bassi, in alcune generazioni. Si tratta di un analfabetismo che rischia di
creare delle nuove differenze sociali. Anche in questa prospettiva si pone il problema di
governo molto forte, perché si tratta di capire se queste differenze sociali siano
tollerabili, quanto siano rigide. Per esempio, cosa può offrire la scuola per evitare
l'emergere di queste differenze sociali? Può mettere a disposizione delle competenze, che
poi possono essere attivate? Che ruolo hanno le municipalità? Posso pensare che alcune
città - come avviene nel caso di Bologna - forniscano ai propri cittadini la
disponibilità per entrare in rete, diano l'accesso alla rete a basso costo o addirittura
gratuitamente. Che cosa fare delle tariffe telefoniche, per quello che riguarda lo scambio
dati? Queste sono grandi questioni che non si possono lasciare all'ottica del mercato e
agli operatori economici, perché riguardano il futuro sociale. Una società fortemente
frammentata rispetto alle nuove tecnologie, rischia veramente di esplodere; si può creare
un conflitto tra la superficie della società, che è fortemente tecnologizzata,
fortemente competente, giovane, un po' "yuppie" anche, se vogliamo, e
l'"underground", cioè lo stato basso della società che non accede alle fonti
informative, mortificandosi in una crescente tecnologizzazione "bassa". Allora:
solo televisione generalista, solo media poveri, scarso accesso alle fonti informative,
necessità della mediazione di qualcuno e quindi servizi di mediazione, per accedere a
determinati servizi. Questo sarebbe un futuro ben misero per le nazioni moderne!
Domanda 10
L'economista Rifkin, in un suo scritto - "La fine del lavoro" - riflette
sull'emergere di due grandi classi o caste, per certi versi: da un lato gli
"knowledge workers", gli "analisti di simboli", coloro che detengono
le conoscenze tecnologiche; dall'altro, un crescente numero di lavoratori, prevalentemente
in eccesso. Secondo molti altri, la possibilità di liberarsi dal lavoro materiale
rappresenta, viceversa, la possibilità di liberare energie creative. Cosa pensa in
proposito?
Risposta
Io non condivido affatto la previsione sulla fine del lavoro. Non so cosa significhi. Mi
sembra talmente evidente che la terzializzazione, per esempio, abbia comportato la
progressiva crescita di alcune grandi questioni che riguardano anche l'occupazione ed il
lavoro. L'esempio banalissimo - mi dispiace citarlo, perché rappresenta uno dei grandi
rimorsi dell'Occidente - è la spazzatura. Tanto più evolve la società dei consumi, e
con essa alcuni parametri che sono, di solito, anche connessi con la terzializzazione,
quanto più aumenta la spazzatura. Ma la spazzatura chi la liquida, chi la tratta, come
viene utilizzata? I residui, le scorie dove vanno a finire? Possiamo continuare a
trasferirle nel paese vicino, poi nella nazione vicina, poi nel continente più vicino,
poi in mare? Non è ragionevole pensare che l'"eco-business" diventi una delle
tendenze di sviluppo e quindi anche dell'occupazione? Io sono sempre scettico sulle
previsioni a medio e lungo termine in questi campi, perché, in realtà, la complessità
sociale fa sempre sì che ci siano degli scarti che riposizionano i grandi problemi. I
grandi problemi che si preconizzavano dieci anni fa per oggi, oggi sono puntualmente
diversi da come li si preconizzava. Credo però che esista il problema di una occupazione
qualificata e di una occupazione dequalificata. Non possiamo pensare ad una società che
funziona semplicemente ghettizzando alcune aree del sociale nelle occupazioni basse, più
a contatto con la realtà - appunto, con la spazzatura, anche in senso metaforico - e
occupazioni alte, in cui si naviga ad un livello totalmente differente. L'occupazione tra
queste integrazioni richiede la capacità di pensare alla società nel suo complesso. In
altri termini, credo ci siano dei costi che forse vale la pena di pagare. Ogni tanto,
forse, vale la pena di rallentare la propria crescita per non perdersi per strada altre
aree del pianeta, del continente, del paese, della regione e della città, poiché è bene
che anchesse crescano connesse allo sviluppo della società e non in modo separato.
Questa è una questione che non fa piacere sentirsi dire, quando ce lo ricordano, per
esempio, gli abitanti del Terzo o del Quarto Mondo. L'idea che bisogna correre ed è
meglio andare molto in fretta a costo di andare soli, piuttosto che rallentare ed andare
con gli altri, è un'idea, però, che domina nelle forme liberiste strette e che, a volte,
nel mercato della comunicazione, diventa dominante. Ci sono addirittura alcuni grandi
teorici della comunicazione americana - posso citare Gilbert - che sono assolutamente
convinti che lo sviluppo vada portato avanti a qualunque costo. Io non sono pessimista,
non penso che lo sviluppo porti sempre con sé una tragedia sociale; allo stesso tempo,
non sono neanche così ottimista. Credo che, anche in questo caso, la capacità di governo
sia l'elemento fondamentale e consista nel mediare costi e benefici di ogni innovazione
sociale.
Domanda 11
La dimensione politica?
Risposta
La dimensione politica delle telecomunicazioni, per molto tempo, è stata connessa
all'assoluta irrilevanza della progettazione del paese. Vorrei dire - spero di non essere
provocatorio - che le ultime grandi stagioni della progettazione del mercato della
comunicazione politica in Italia sono state connesse prima alla televisione del monopolio,
negli anni Cinquanta e Sessanta. Può non piacerci questa affermazione, ma quella era una
società che pensava alla televisione in funzione di un modello di sviluppo sociale. Oggi
possiamo discutere se fosse un buon modello, che però, tuttavia, funzionava. La metà
degli anni Settanta, con la riforma della R.A.I., rappresentò un momento in cui si tentò
di pensare una televisione adeguata ad un sistema che stava cambiando. Non si intuì che
il sistema sarebbe cambiato in un modo vorticoso, che avrebbe implicato le televisioni
private. Adesso, di fronte alla sfida delle nuove tecnologie, spero, caldamente, che non
si ripeta il solito balletto degli aggiustamenti progressivi, della necessità di
accontentare i singoli operatori economici, che il gioco non si riduca a quante reti
debbono avere i singoli soggetti televisivi, e che non si pensi a quanto
"budget" di comunicazione può avere un soggetto per costruire un
"trust" fra nuove tecnologie, televisione e telecomunicazioni. Spero che si
faccia un discorso di sviluppo del paese; che ci si chieda: ha senso cablare il nostro
paese, ha senso cablare alcune città? Se ha senso, si rifletta come reagirebbero le varie
aree del nostro paese, molto diversificato, peraltro, rispetto alle nuove tecnologie.
Quali sono i bisogni delle diverse aree del paese? Qual è la risposta migliore per ogni
area a questi bisogni? Che cosa bisogna fare per garantire a tutti gli utenti il servizio
universale? Quali autori si possono pensare per garantire ai cittadini il rispetto della
loro individualità e dei loro bisogni al primo posto nello sviluppo, e non all'ultimo,
come troppo spesso avviene? Questa è una grande questione. Per risolvere questo problema
bisogna avere una politica. In questo campo, ahimè, debbo dire che il nostro paese non ha
mai brillato. Speriamo che cominci una nuova storia in futuro.
Domanda 12
Infatti, in questepoca di trasformazione si avverte una sorta di incapacità della
classe politica a saper reagire agli stimoli differenziati di una società complessa. Per
certi versi, lidea di una democrazia diretta, crea una serie di stimoli, per cui la
politica non riesce più coerentemente e chiaramente a scegliere le strade. E' possibile
realizzare la politica così com'è stata finora o si apre una nuova fase, una nuova idea
di politica? E quali sono gli aspetti?
Risposta
Io credo che l'universo della scelta politica non sia irrilevante nello sviluppo
tecnologico. Troppo spesso noi pensiamo che l'occasione tecnologica sia qualche cosa che
sta a sé rispetto alle grandi scelte. Viceversa, forse bisogna rimettere alcune questioni
sui piedi, dopo essere state troppo a lungo sulla testa. Esiste, obiettivamente, nei
fatti, un primato della politica che riguarda anche le scelte che la politica non fa, le
regole che un paese non si dà e che si traducono in scelte politiche. Noi non sappiamo
quale modello entrerà rispetto alla televisione interattiva; abbiamo dei dubbi su quale
formato tecnologico prevarrà. Prevarrà un modello di evoluzione dal computer verso la
televisione? O un modello di evoluzione dalla televisione verso il computer? Prevarrà il
satellite, il cavo? Abbiamo ancora dei forti dubbi su queste questioni. E dunque
necessario aspettare che l'economia della tecnologia decida sulla scelta della tecnologia
da utilizzare e poi fare le scelte politiche sulla base della tecnologia eletta? Mi sembra
talmente folle questa ipotesi che non debba neanche esser presa in considerazione.
Bisognerebbe che le grandi scelte che l'economia della tecnica compie, vedessero, come
soggetto forte, anche le singole politiche nazionali e transnazionali: qualunque sia il
formato di queste tecnologie future, quali sono i servizi che comunque debbono essere
garantiti? Queste tecnologie devono coprire tutta l'area nazionale o possono essere
limitate a singole aree? Queste tecnologie devono promuovere quale tipo di
"software", quale tipo di programma, quale tipo di contenuto? All'interno di
questi "standard" poi, dovrebbe avere valore l'appalto per chi riesce a dare il
meglio, con più garanzie, questi servizi. Queste sono le scelte della politica che
dovrebbero guidare lo sviluppo tecnologico.
Domanda 13
Lei definisce la rete come "net", come "ground", come
"rizoma" e come "intelligenza collettiva".
Risposta
Quando parliamo della rete, noi, in realtà, intendiamo due grandi cose distinte. Per fare
un esempio: la rete telefonica tradizionale implica che ci siano i fili, che ci siano gli
apparecchi ricevitori. C'è un aspetto, però, che, di solito, viene sottovalutato: le
culture, i bisogni, i saperi che si servono di questa rete, e che questa rete serve. La
dimensione del "network", del "net", si evolve, di solito, secondo una
logica che definiremmo newtoniana: quanto più si investe in essa, tanto più si ricava. A
volte non è così semplice, per fortuna, poiché non si può sempre sapere se un
investimento andrà a buon fine. Sostanzialmente, però, si può contare su una certa
prevedibilità. Se si lavora sopra un progetto di cui si è verificata la fattibilità, si
è anche a conoscenza che in un determinato numero di anni si riesce a svilupparlo.
Viceversa, la dimensione del "ground", della società che si serve delle
tecnologie, ha un andamento molto meno prevedibile, perché è un andamento relativistico,
un campo di forze in cui ogni azione determina spostamenti anche imprevedibili. Cito la
famosa teoria del "caos" per la quale una farfalla, se batte le ali in Giappone,
può provocare una tempesta a New York o viceversa. Per quanto riguarda il problema della
rete, le due dimensioni non sono sempre così presenti; ragione per la quale spesso
pensiamo che tutti i problemi consistano nel lavorare sul "net", mentre i
bisogni di una società sono fondamentali. Per noi, forse, il problema consiste nella
quantità di informazione che riceviamo. Una volta ho sentito un esperto algerino farmi
questo esempio che ho trovato affascinante: pare che in Algeria - non vorrei sbagliar
paese, ma credo sia proprio l'Algeria - ci sia un tasso di intossicazione infantile molto
alto, e che solo ad Algeri si riesca a salvare una percentuale ragionevole di questi casi
di intossicazione. In questo caso, loro inseriscono in rete tutti gli ospedali locali in
connessione con l'ospedale di Algeri; i dati in arrivo all'ospedale via rete permettono,
attraverso la "telemedicina", di fornire poi le indicazioni per poter salvare i
bambini. Questo è un caso che a noi può forse sembrare di tecnologia banale, ma è
fondamentale per quel paese. Quindi, lo sviluppo della rete, in Algeria, avrà come uno
dei principali obiettivi quello di risolvere questo problema. Di conseguenza, il
"net" migliore sarà quello che risponderà al bisogno espresso da quella
società. Un altro aspetto, affascinante direi, della rete è quello del
"labirinto": una metafora che noi consciamente o inconsciamente utilizziamo per
esprimere l'idea che noi abbiamo della rete. Quando si viaggia in Internet, l'impressione
del "labirinto" è molto forte. Se noi cerchiamo un dato, ricorriamo ad una
serie di scelte progressive, anche utilizzando "netscape". Ogni scelta è
accompagnata dal dubbio, poiché noi abbiamo una prospettiva miope, e non riusciamo a
prevedere quale sarà la scelta successiva. Di volta in volta guardiamo. Aggiungerei che,
addirittura, i cosiddetti "book-marks", i "segnalibro", espletano la
funzione di filo d'Arianna: quando noi facciamo un percorso e diventa un po' complicato,
mettiamo dei segnali dove siamo arrivati; se poi ci dovessimo perdere ed il collegamento
dovesse saltare, possiamo tornare in quel punto, poiché rappresenta un punto fermo.
Questo processo dà l'idea della visione labirintica. Ogni tanto, navigando in rete, noi
applichiamo un modello di conoscenza che assume questa carica di "labirinto",
per la quale diventa meno importante sapere se abbiamo trovato esattamente la cosa che ci
serviva; esistono altri aspetti altrettanto rilevanti, che dovremmo analizzare, perché
questo modello labirintico ci porta in un certo posto e crea l'illusione che quello che
abbiamo trovato sia esaustivo: abbiamo trovato il Minotauro, l'abbiamo ucciso: questa, a
volte, non è esattamente la dimensione propria del sapere. L'altro aspetto molto forte è
quello dell'intelligenza collettiva. In inglese l'espressione per descrivere la
navigazione è bellissima: "surfing on the net" . L'espressione
"surfing" è molto bella, perché dà l'idea di una navigazione, non di
navigazione su grandi navi da crociera, ma di una navigazione a vela, per cui se si vuole
andare dal punto 'A' al punto 'B' ci si deve rassegnare a compiere una serie di virate
molto complicate. A volte si deve addirittura andare in direzione quasi opposta per
arrivare al punto scelto. Questo termine, "surfing", è affascinante perché mi
riporta ad un'idea di fondo: che la rete si evolve e cresce unendo assieme tante
dimensioni locali; di qui nasce l'idea di intelligenza collettiva, come grande matrice su
cui poter navigare. In realtà lo spostamento avviene fra tanti nodi di intelligenza. Ci
sono tanti nodi, tanti siti, ognuno dei quali specializzato in un contenuto specifico: ci
si può spostare dall'uno all'altro. E' come se l'intelligenza collettiva del pianeta si
esprimesse sulla rete. E ciò è certamente vero da un certo punto di vista. Però, l'idea
che sulla rete siano presenti i grandi soggetti forti del sapere riflette, in qualche
misura, l'idea di accademia. Quelle che Foucault chiamava le "memorie dei
perdenti" sono meno evidenti. Credo, quindi, che si possa usare benissimo questa idea
della rete come grande intelligenza collettiva, pensando però che non appartiene a tutta
la collettività, ma soltanto a qualcuno dei suoi aspetti, a qualcuno dei suoi soggetti.
Il problema è riportare alla luce anche quei "giacimenti" che alla rete non
arrivano. Che ne è delle culture non vincenti, delle culture africane, delle culture del
Quarto Mondo, delle culture che si esprimono anche nelle nostre città e che a volte non
arrivano sulla rete? Non a caso, alcuni soggetti come i centri sociali sentono la
necessità di testimoniare una presenza non istituzionale. Quindi, la metafora dell'
"intelligenza collettiva" è importante, a patto che non ci faccia credere che
tutta l'intelligenza del pianeta sia sulla rete.
Domanda 14
In un rapporto preparatorio al Convegno del Centro Studi "San Salvador", vengono
individuate alcune cause del ritardo tecnologico dell'Europa rispetto agli Stati Uniti.
Qual è, a Suo avviso, la più importante fra queste ragioni: la mancanza di capitale
umano, la mancata liberalizzazione di mercati o la mancanza di integrazione fra
informatica e telecomunicazioni?
Risposta
Io credo che sia un "mix" dei tre aspetti e sia legato al fatto che l'Europa non
riesce ancora a darsi una politica transnazionale forte. A me sembra che noi paghiamo
molto in Europa lo scotto di una separazione fra i vari paesi, di strategie differenti
all'interno dei vari paesi. Questo è certamente un limite, anche se non va dimenticato,
che oltre ai Paesi ci sono i soggetti economici. Non è detto che i soggetti economici dei
singoli paesi non abbiano fra di loro connessioni, stratificazioni differenti. Noi
abbiamo, in realtà, una forte capacità di innovazione, ma abbiamo una scarsa capacità
di investire su queste innovazioni in modo coordinato. Quindi, siamo in possesso delle
risorse anche tecnologiche per la ricerca, ma non per imporre i risultati di questa
ricerca sul mercato con la forza sufficiente. Io credo che questo sia il dato comune allo
sviluppo europeo. Viceversa, gli Stati Uniti, forse non sono sempre così avanzati, ma
hanno una straordinaria capacità di rendere immediatamente efficace sul piano operativo e
di mercato l'innovazione. In questo consiste la forza dell'America. Il Giappone, forse,
non è così innovativo, ma possiede questa grande capacità di riorganizzare il sapere,
anche altrui, e di renderlo immediatamente efficace ed operativo. Probabilmente questo è
il "gap" ancora dell'Europa.
Domanda 15
Bodei denuncia il rischio che le grandi "corporations" americane, così come
stanno facendo su altri campi, finiscano per imporre "le strategie guidate
oligarchicamente dall'alto, orientate a sagomare e a rendere malleabile e manipolabile il
senso comune e a introdurre contenuti e metodi d'istruzione e d'insegnamento, meno aperti
allo spirito critico".
Risposta
Certo, questo rischio è presente. Quando si segnalano questi rischi, non significa voler
essere catastrofici; non si vuole dire: saremo governati dalla cultura americana. Questo
periodicamente succede. Però si segnala un rischio autentico, un rischio limite:
l'omologazione culturale. Perché è un rischio? Per due motivi. Il primo: perché è
evidente che la riduzione della complessità nel campo culturale rappresenta una perdita,
una perdita della ricchezza. La seconda ragione: perché comunque sarebbe un'omologazione
di superficie, un'omologazione che tende a cancellare delle identità che, comunque,
permangono e risorgono. E risorgono al di fuori della capacità di integrarsi con le altre
culture. Non vorrei essere frainteso, e sono certo che non lo sarò, ma vorrei dire
questo: la soluzione dei nativi americani operata dai coloni, che è uno dei genocidi più
sconvolgenti della storia dell'Occidente, in qualche modo, ha avuto solo ricadute
residuali sul grande sistema proprio perché la cancellazione di questa realtà è stata
fisica. Gli Indiani d'America non sono stati azzerati solo come cultura, ma sono stati
anche messi in condizione di non nuocere in termini fisici: si sono ridotti come
popolazione, sono stati lungamente emarginati, tanto che ci sono ancora queste identità,
ma rimangono del tutto marginalizzate. Se noi riflettiamo su questo problema in termini
planetari e pensiamo che l'innovazione tecnologica tocca un'area molto limitata in termini
di popolazione del pianeta, allora proviamo a pensare cosa può significare rimuovere le
grandi identità culturali del pianeta in nome di un'identità culturale, che, comunque,
appartiene ad una minoranza della popolazione. Ciò significa mettere un coperchio su una
pentola in ebollizione, sperando che scoppi il più tardi possibile; Significa dare voce
agli integralismi, significa dare voce a forme di rivalutazione delle culture altre, ma in
modo esplosivo. Perché, giustamente, queste culture rivendicano un loro posto al sole.
Questo di cui stiamo parlando non è solo un problema etico, è anche un grande problema
di politica planetaria. Quanto più si crea l'omogeneizzazione di superficie delle culture
occidentali, quanto più si rischia che la pentola della popolazione mondiale, delle
culture mondiali, ci esploda sulla faccia.
Domanda 16
Alberto Abruzzese, nel definire l'opportunità delle nuove tecnologie per migliorare la
qualità della vita, ha usato quest'espressione: "Perché queste tecnologie hanno la
vocazione a sfuggire i linguaggi forti della tradizione moderna", intendendo i
linguaggi unidirezionali. E' d'accordo con quest'idea?
Risposta
Naturalmente ognuno mette il suo carattere in queste previsioni. Certamente le nuove
tecnologie sono affascinanti, perché, come in una certa fase lo è stata la televisione,
come in una certa fase lo è stato il fumetto, come lo è stato il telefono; un 'mix' di
queste tecnologie sembrano offrire la possibilità di un'uscita dai luoghi comuni della
cultura e anche dalle grandi istituzioni culturali, dalla guida istituzionale della
cultura. Poi, però, ci sono anche altri aspetti. I collegamenti a Internet in Italia sono
prevalentemente istituzionali. I grandi soggetti collegati sono le università, le
imprese, le aziende, poi ci sono i centri sociali; ma, voglio dire che c'è tutta una
un'ampia fascia intermedia di soggetti che non pratica questi nuovi linguaggi. Sul piano
dell'emergenza non c'è dubbio che, attraverso le reti, emergano nuovi comportamenti
comunicativi, nuove istanze comunicative. Sul piano della complessività del paese, non
c'è dubbio che questi fenomeni siano ancora minoritari Perché diventino un vero fenomeno
esplosivo, capace di provocare un salto culturale al paese, occorrono: governo,
progettazione, estensione delle tecnologie. E questa è una lunga strada, una strada che
va percorsa e non si percorre da sola: questo è il problema che, a mio parere, deve
essere sottolineato.
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