INTERVISTA:
Domanda 1
Quali caratteristiche avrà la televisione del futuro?
Risposta
La televisione, ha provocato, nell'arco di cinquant'anni, degli sconvolgimenti nelle
abitudini di vita e nei modi di pensare, paragonabile soltanto alla diffusione dei
giornali nel XIX secolo. Vi sono popoli, che hanno maturato una coscienza nazionale -
lingua, mentalità, conoscenza reciproca - solo grazie alla televisione. La televisione,
inoltre, ha incorporato mezzi espressivi di ogni genere - varietà, commedie, opere
liriche, cinema - amplificandone la diffusione. A questi due tratti storici degli apparati
televisivi di tutto il mondo - la diffusione a carattere nazionale e una programmazione
generalista - se ne può aggiungere un terzo, la struttura monomediale. cioè la rinuncia
a sfruttare le potenziali sinergie tra i diversi media - radio, televisione, produzione
editoriale e discografica - anche quando a detenerli era la medesima azienda. Da alcuni
anni questo modello televisivo è entrato in una crisi irreversibile. La televisione del
futuro è già all'opera: è internazionale, tematica, multimediale. Schematizzando quanto
sta avvenendo si può dire che il modello di televisione tradizionale è ancora dominante
ma non è più determinante; conoscerà una fase di ulteriore crescita nelle zone povere
del mondo ma nei paesi ricchi dell'occidente gli apparati televisivi del futuro prossimo
avranno una struttura organizzativa e una complessità produttiva talmente lontane da
quella attuale che dovranno cambiare la loro stessa denominazione. In altre parole, in
prospettiva, la televisione non sarà solo un'altra televisione ma semplicemente non sarà
più televisione.
Domanda 2
Non è detto tuttavia, che questo nuovo modello di televisione sia necessariamente
migliore di quello precedente?
Risposta
In effetti la fisionomia di questa televisione del futuro presenta dei tratti poco
raccomandabili: il cosmopolitismo della TV-satellite ha lo stile pacchiano del mondo degli
affari, del colonialismo culturale che annienta ciò che resta delle culture tradizionali;
la sua programmazione ha le stesse caratteristiche della cucina internazionale: perché
sia appetibile a tanti, deve necessariamente essere scialba, insipida, rinunciare ai
sapori forti e decisi. In una parola deve essere, nello stile, americana. La Tv nazionale
e generalista riusciva a dare, nonostante tutto, una sensazione di appartenenza. Anche se
atomizzati negli appartamenti bui, i telespettatori del telegiornale o del varietà del
sabato sera sentivano di far parte di un rassemblement di uomini che parlavano la stessa
lingua, che si divertivano allo stesso modo, che erano partecipi degli stessi eventi. Chi
vede la CNN o i programmi di intrattenimento delle Tv-satellite, prova un forte senso di
passività e di estraniamento. Altro che cittadino del mondo! Il villaggio globale, in
questa prospettiva, è nient'altro che uno slogan pubblicitario di successo.
Domanda 3
Le reti tematiche sono invocate da tutti come se fossero una panacea alla crisi della
televisione generalista. Ormai anche i pubblicitari, le chiedono. E' giustificato questo
ottimismo, soprattutto nei confronti delle reti tematiche culturali sulla falsariga di
"Arte"?
Risposta
La televisione tematica presenta dei rischi poiché dà luogo a una frammentazione del
pubblico per generi che produce una cristallizzazione in cui la cultura rischia di
diventare anch'essa un genere come lo sport, l'informazione, l'intrattenimento, la musica.
Ma davvero ha un senso considerare la cultura un genere? Prima ancora di approfondire tale
questione, è opportuno riflettere sul fatto che una rete tematica culturale, magari a
pagamento e satellitare, è destinata solo alle persone colte, a chi ha uno spiccato
interesse per gli avvenimenti culturali, con la conseguenza che rimane ad essa estraneo il
grande pubblico della televisione generalista, e si accentua così il distacco
dell'opinione di massa dal mondo della cultura. Al contrario la presenza di programmi
culturali, e soprattutto intelligenti, sulle reti generaliste favorisce l'incontro, magari
casuale, con la cultura, di milioni di telespettatori. Questo non vuol dire che non
debbano esserci reti tematiche del tipo di "ARTE", ma semplicemente che non
bisogna abbandonare, alla brutale logica della massimizzazione dell'ascolto, le reti
generaliste, privandole, più di quanto non lo siano già, di ogni contenuto culturale;
magari consolandosi con l'idea che la cultura dimora ormai sulle reti tematiche. E'
auspicabile quindi una complementarietà fra reti tematiche culturali e reti generaliste a
condizione che questo non diventi un alibi per far sparire la cultura dalle reti
generaliste.
Domanda 4
E' necessario, a questo punto, dare una definizione del concetto di cultura.
Risposta
La cultura, considerata come regno dei valori ideali, degli stili di vita, dei
comportamenti affettivi, delle avventure dell'intelletto, non è riducibile a un
patrimonio di conoscenze riservate, come una forma nobile di intrattenimento, a una
cerchia di mandarini. La cultura non è un genere. Piuttosto, possiamo dire, che tutti i
generi sono potenzialmente culturali. C'è probabilmente più poesia in uno sketch di
Massimo Troisi che in una trasmissione sulla poesia; si può capire che cos'è letteratura
più da uno sceneggiato televisivo de "Il rosso e il nero" di Stendhal
(bellissimo quello russo!) che da una rubrica di libri; ci può essere più arte in un
film di Stanley Kubrick che in un documentario sui grandi musei del mondo; c'è più
conoscenza della società contemporanea in un reportage giornalistico di Furio Colombo
sull'America, che in un dibattito televisivo tra sociologi; c'è più profondità in certi
cartoni animati di Walt Disney che in tanti programmi cosiddetti "culturali".
Quindi dobbiamo rovesciare l'assunto secondo il quale bisogna rendere più appetibili e
comprensibili i programmi culturali (spesso questo vuol dire soltanto renderli banali e di
cattivo gusto). Sono piuttosto i programmi ordinari della tv generalista, sempre più TV
spazzatura, a dover diventare più culturali (cioè più intelligenti, arguti e
stimolanti).
Domanda 5
Ma a chi spetta questo compito? E' corretto enfatizzare oltre misura, la tirannia
dell'Auditel per giustificare la crescente insensatezza dei programmi della televisione
generalista? Non è forse legittimo ipotizzare che tra le cause non secondarie di questo
processo di decadimento, vi sia anche una scarsa sensibilità culturale di dirigenti e
autori di programmi televisivi?
Risposta
Giustissimo! Karl Popper, in un'intervista esclusiva rilasciata, poco prima della sua
morte, per la Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche, giudicò colossale la
sperequazione fra le responsabilità, immense, degli operatori televisivi e la
consapevolezza, infima, che essi ne hanno. Dissimulando il proprio ruolo, essi negano che
la televisione eserciti un'influenza sui comportamenti, sui valori e sulla interpretazione
dei fatti. Popper, campione del liberalismo, considera ipocrita, surrettizia e sedicente
liberale, ogni distinzione fra notizia e commento, fra informazione e educazione. Insomma,
chi fa televisione - che rediga il telegiornale o produca una soap opera - è sempre un
educatore. Il problema che si pone è allora il seguente: chi educa gli educatori, (autori
dei programmi, responsabili dei palinsesti, giornalisti)? Credo che la risposta giusta
sia: la televisione stessa. Infatti gli apparati televisivi - e in generale tutti gli
apparati - in base al loro funzionamento (organizzazione del lavoro, gerarchie, procedure
etc.) e alla funzione che sono chiamati a svolgere (accumulare profitti, offrire un
servizio di pubblica utilità, fare propaganda etc.) creano modelli professionali,
mentalità, valori, cultura. Gli apparati cioè oltre a produrre merci o servizi producono
anche ideologia. Una ideologia che è presente non solo nei prodotti - soprattutto se
immateriali, come i programmi televisivi - ma anche nei modi di lavorare, nelle forme
della burocrazia, nella divisione del lavoro. Chi vi presta la sua opera, l'assimila, ne
è impregnato come un pescatore lo è di salsedine. La televisione come apparato dunque,
educa, simultaneamente, sia i telespettatori che i suoi dirigenti e tutti coloro che vi
lavorano. Questa formazione, che potremmo definire eufemisticamente, una deformazione
professionale, crea aspettative, pregiudizi e valori i quali ovviamente non possono che
essere in sintonia con il funzionamento dell'apparato e con gli scopi che esso persegue.
Questo ragionamento apre una questione molto concreta. Se vogliamo approdare a un modello
di televisione più colta e intelligente, non basta aprire le porte a nuove idee e nuovi
argomenti. Prima di tutto bisogna modificare la struttura degli apparati, il loro
funzionamento, il loro modello produttivo, i profili professionali, la burocrazia, perché
solo questo può cambiare la mentalità di chi vi lavora e di chi li dirige. Parafrasando
Mc Luhan potremmo quindi dire non tanto che il medium è il messaggio, quanto che
l'organizzazione del medium è il messaggio. In altre parole non avremo una nuova e più
coltivata classe dirigente negli apparati televisivi per opera e virtù dello Spirito
Santo, oppure agendo solo sulla programmazione (dalla TV generalista a quella tematica),
ma solo ridisegnando l'architettura ideativo-produttiva degli apparati della
comunicazione.
Domanda 6
Tutti discorsi sui mass media implicano l'esistenza di una pubblica opinione ( i
telespettatori, i radioascoltatori, i lettori, il pubblico etc.). Si dà per scontato che
si sappia tutto su questa categoria sociologica, sui suoi bisogni, le sue tendenze etc. E'
possibile che vi sia una cristallizzazione secolare di questa sfera della società civile?
Risposta
Nient'affatto. Anche se certi fenomeni si ripetono, ciò non vuol dire che le loro
conseguenze siano le stesse. Ad esempio il modello classico del quotidiano di
informazione, che tratta contestualmente di politica, di cronaca, di sport e di cultura,
è assimilabile a quello della TV generalista, mentre la specializzazione successiva dei
quotidiani in sportivi, economici o di cronaca locale - che peraltro non ha incrinato
l'importanza dei grandi giornali d'informazione - trova il suo corrispettivo nella TV
tematica. Ma se quanto sta accadendo nel mondo della televisione, è già accaduto nel
campo della stampa quotidiana negli ultimi due secoli, ciò non toglie che lo scenario
complessivo sia radicalmente mutato. Vale quindi la pena di riassumere quello che è
accaduto nella sfera della carta stampata per vedere se è possibile trarne un
insegnamento. Nella seconda metà del XVII secolo si va costituendo in Europa, la sfera
dell'opinione pubblica. Una borghesia ancora sostanzialmente priva di potere politico, ma
dominante ormai nella società civile, rivendica il controllo sulle decisioni dei re e dei
governanti. La circolazione dei giornali, l'abolizione dell'istituto della censura
preventiva e la diffusione dei club, sono gli avvenimenti che consentono la formazione
dell'opinione pubblica borghese. La sfera dell'opinione pubblica è decisamente ristretta:
capitani d'industria, ricchi commercianti, liberi professionisti, intellettuali. Non a
molti è concesso il privilegio di pubblicare articoli, e solo alcuni fra i sudditi, gli
alfabetizzati, sono in grado di leggerli. E pure, intorno a questo piccolo focolaio di
irrequietezza culturale, si radunerà l'intero Terzo Stato che conquisterà il potere nel
1789. Una caratteristica dominante nella sfera della opinione pubblica è l'argomentazione
razionale. Le critiche più acerrime e le invettive più sanguinose sono, sempre e
comunque, il frutto di un ragionamento.
Domanda 7
Che cosa diviene l'opinione pubblica agli inizi del XX secolo?
Risposta
L'invenzione della radio provoca una rivoluzione nella sfera della pubblica opinione.
Tutti i cittadini possono virtualmente esprimere e rendere pubbliche le loro idee
qualunque sia la loro classe di appartenenza, che sappiano o meno leggere e scrivere. Per
converso i proclami dei governanti possono ormai scavalcare la sfera circoscritta, e
sovente critica, dell'opinione pubblica tradizionale che legge i giornali e si raccoglie a
discutere nei salotti, per giungere direttamente ad un coacervo indistinto, definito, a
seconda delle circostanze e delle convenienze, popolo, pubblico, utenti. L'avvento della
televisione consacrerà e consoliderà questa metamorfosi della figura del cittadino nella
categoria di gente. Lo scenario che fa da sfondo alla deflagrazione della vecchia opinione
pubblica borghese è la conquista del suffragio universale e la diffusione della
pubblicità in quanto strumento cardinale della economia di mercato. Questa sommaria
ricostruzione è stata fatta con l'intento di riconsiderare criticamente la diffusa
convinzione secondo la quale la radio e la televisione abbiano semplicemente prodotto, per
effetto di propagazione, un allargamento della cerchia dell'opinione pubblica, una
semplice progressione di ordine geometrico nella sfera dei numeri che non intaccherebbe la
natura di questa categoria sociologica. Il problema è questo: è lecito parlare ancora di
opinione pubblica se per essa si intende un'intera nazione ? Il popolo della televisione
è assimilabile a quella sfera della borghesia illuminata, colta e raziocinante, raccolta
intorno ai giornali, ai libri e alle riviste? Non vi è piuttosto uno scarto, una cesura
sostanziale fra l'opinione pubblica e l'opinione di massa? La questione può apparire
insignificante ad un primo approccio, quasi un problema lessicale. E tuttavia la
confusione tra queste due sfere ha sulla nostra visione del mondo, le stesse conseguenze
di un paradigma sbagliato o di una lente deformante. Che cosa distingue dunque una sfera
dall'altra? La prima differenza sta nell'ordine di grandezza, due ordini talmente
diseguali da produrre un salto qualitativo. L'opinione pubblica è una sfera circoscritta,
un'élite di cittadini consapevoli del loro status sociale, dei loro diritti e dei loro
doveri, dotati di coscienza civile e partecipi, anche se soltanto come spettatori, del
dibattito politico in corso. Al contrario l'opinione di massa rappresenta una sfera
pressoché illimitata, dai contorni indefiniti, la cui consistenza è riconducibile solo
alla quantità; un rassemblement di persone privo di identità in quanto ciascuno dei suoi
appartenenti ritiene che la gente siano gli altri. Ma un'altra, e più radicale differenza
oppone i due universi. L'opinione pubblica poggia infatti sull'argomentazione razionale,
sul convincimento, sulla forza del ragionamento, mentre l'opinione di massa si alimenta
della suggestione, della demagogia, della esteriorità, della visceralità; in una parola,
della irrazionalità.
Domanda 8
Quali conseguenze comporta, sul piano pratico, questa ridefinizione del concetto di
opinione pubblica?
Risposta
Per quanto sommaria e schematica, la disaggregazione del concetto di pubblica opinione in
due campi contrapposti ha tuttavia il merito di fare maggiore chiarezza su alcuni fenomeni
che sono sotto i nostri occhi. La sfera dell'opinione pubblica è potente: al posto di
comando di questo dominio risiedono poteri forti che controllano i gangli dell'economia e
della finanza, della cultura e della scienza. Ma la sua influenza sulle masse è limitata
dal ristretto spazio di incidenza dei suoi media, e soprattutto da un ordine del discorso
troppo articolato e da un linguaggio troppo complesso. L'opinione di massa, al contrario,
non ha di questi vincoli: per formarla e indirizzarla basta avere una forte personalità,
conoscere l'arte della seduzione e dell'intrattenimento, rappresentare un simbolo del
successo, suggestionare, distrarre dalle angustie della vita quotidiana. Chi opera nel
campo della pubblicità conosce bene la distinzione fra questi due mondi e certamente non
si affida al ragionamento per propagandare un detersivo o una nuova auto. Lo scontro fra
queste due sfere è tremendo: la ragione è opposta alla irrazionalità, la forza dei
valori si piega di fronte ai sondaggi d'opinione, il criterio della maggioranza,
espressione massima del relativismo culturale, impone la sua tirannia. Tutti i programmi
politici, soprattutto i più ragionevoli e realistici devono fare i conti con la
sostanziale irragionevolezza dell'opinione di massa. Nella misura in cui i partiti
socialisti e democratici non hanno emancipato e affrancato le masse dalla loro connaturata
tendenza ad essere massa di manovra, esse hanno svolto un ruolo imponente in tutte le
tragedie che il nostro secolo ha attraversato: nella Germania nazista, nell'Italia
fascista e in tutti i regimi totalitari. Questa contrapposizione tra ragione e suggestione
tra populismo e cultura, tra materialismo consumista e ricchezza spirituale è oggi, più
determinante di quella fra destra e sinistra. Tutto converge verso una indistinta
medietà: da un lato sparisce l'analfabetismo, dall'altro spariscono le classi colte.
Questo livellamento è l'espressione degenerata della democrazia, il suo contrario: la
mentalità, gli stili di vita, le aspettative e i valori delle classi ricche corrispondono
sempre più a quelli delle classi povere e viceversa: la prospettiva non è entusiasmante:
una minoranza di specialisti incolti innestata su una massa non formata di cittadini. Si
avvera la profezia di Max Scheler: "Andiamo incontro ad una barbarie
civilizzata!"
Domanda 9
Quale bilancio trarre da queste considerazioni poco ottimistiche sul futuro della
televisione e del suo pubblico? E' auspicabile la nascita di una rete tematica culturale?
Risposta
Innanzitutto siamo di fronte ad una crisi generale della televisione: quella tradizionale
ha fatto il suo tempo, quella nuova nasce sotto la cattiva stella del business, del
mercato mondiale della pubblicità. Se ci trovassimo di fronte a mezzi di comunicazione di
massa come la radio o il cinema, non vi sarebbero motivi per eccessivi allarmismi, ma la
televisione è un medium particolarissimo, la sua penetrazione è totalizzante. Anche in
conseguenza della crisi, ormai storica, della scuola , delle chiese, della famiglia,
centinaia di milioni di giovani in tutto il mondo sono di fatto educati dai programmi
della televisione. Il compito storico più urgente di fronte a una crisi strutturale della
democrazia, intesa come partecipazione attiva e consapevole dei cittadini alle decisioni
politiche, è quello di intervenire sull'opinione di massa per sottrarla alla sfera
irrazionale della suggestione integrandola nella sfera dell'opinione pubblica, dove si
esercita un'autentica capacità di giudizio. La televisione generalista è attualmente il
più potente strumento di formazione dell'opinione di massa che opera in maniera
martellante 24 ore al giorno su scala planetaria. Brecht, proponeva come estrema forma di
insulto la frase: "Non sei altro che il singolare di gente!". Come è pensabile
di abbandonare, alla loro condizione di gente, centinaia di milioni di cittadini per
rinchiudersi nella camera asettica della televisione culturale tematica? Il nostro compito
di operatori televisivi che hanno a cuore le sorti della cultura è ancora quello di
sporcarsi le mani in questo dominio della suggestione, della fiction, dell'intrattenimento
decerebrato, dei quiz, magari truccati, dei blob, delle pubblicità e delle televendite.
Come nel campo dell'editoria esistono i libri, le enciclopedie e le riviste specializzate,
così possiamo sperare che ci sia qualcosa di analogo nel campo della televisione e quindi
che vi siano delle reti tematiche culturali. Ed è auspicabile che anche la RAI abbia tra
le sue reti tematiche, una rete culturale. Ma non si commetta l'errore tragico di
abbandonare la televisione generalista al suo destino.
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