INTERVISTA:
Domanda 1
Può parlarci della produzione culturale su supporto digitale?
Risposta
Nell'epoca delle reti, a differenza di quella della stampa, sono cambiate moltissime cose
nel modo in cui procede la produzione culturale, nel modo in cui è organizzata, nelle
varie fasi che attraversa. All'epoca della stampa avevamo una situazione nella quale
esisteva una divisione dei compiti molto netta tra diverse figure: l'autore, l'editore -
che era il coordinatore di tutte le altre figure -, lo stampatore, il venditore, il
distributore. Oggi abbiamo molti momenti di incrocio e di sovrapposizione reciproca tra
queste figure; in molti casi è l'autore stesso che manda la sua opera direttamente in
rete, facendo da autore di se stesso, addirittura da venditore di se stesso, se chiede un
compenso. Abbiamo situazioni nelle quali il distributore di una certa opera, in realtà,
la manipola e fa quasi da coautore con colui da cui l'ha prelevata, processo che pone dei
problemi di diritto d'autore, di conflitti nuovi. Per prima cosa, quindi, abbiamo una
diversa organizzazione delle fasi. Ma c'è qualcosa di ancora più profondo e più intimo,
ed è il fatto che in molti casi la stessa costruzione del prodotto culturale è molto
più integrata di quanto non succedesse in passato; sostanzialmente abbiamo dei prodotti
molto più costruiti insieme, unitariamente, con il computer o la rete o i software
ipertestuali, che fanno quasi da integratori di tante diverse intelligenze che lavorano
insieme.
Domanda 2
In questo contesto Lei come considera la definizione di "intelligenza
collettiva" di Pierre Levy?
Risposta
La definizione di "intelligenza collettiva" di Pierre Levy mi convince
abbastanza poco, perché mi pare che lui abbia colto il fenomeno della progressiva
integrazione di diverse figure all'interno del lavoro intellettuale, però idealizzandolo;
nella sostanza ne viene fuori una sorta di nuovo intellettuale a molte teste; questo
concetto produce, una sorta di fascinazione reale del nostro tempo. E' già dagli anni
Sessanta, dai Beatles, che noi abbiamo cominciato a essere affascinati all'idea che i
prodotti culturali della nostra epoca venivano costruiti da gruppi e non più da singoli
individui; tutto il mito dei grandi gruppi musicali, in fondo, si può ricondurre anche a
questo aspetto, e non possiamo negare che in questo processo di fascinazione ci sia
qualcosa di idealizzante. L'espressione migliore per descrivere tale processo l'aveva,
forse, avuta Orson Welles, tempo prima, quando aveva detto che "lo scrittore lavora
con la penna e il pittore lavora con il pennello e il cineasta lavora con
l'esercito", perché aveva sottolineato che, per quanto riguarda il cinema, si
trattava di un lavoro collettivo, ma dicendo "esercito" ci ricordava che questo
lavoro collettivo non era fatto di persone tutte uguali, tutte felici di lavorare insieme
ma, piuttosto, che si trattava di un lavoro organizzato con dei ruoli, delle gerarchie e
anche, come succede in tutti i buoni eserciti, con dei problemi di conflittualità
all'interno. In sostanza, la nuova produzione culturale collettiva, a mio avviso, è un
fenomeno di grandissimo interesse e fascino, purché ci ricordiamo che questi collettivi
non sono idilliaci, non sono una realtà di sogno, sono, viceversa, una realtà umana,
sociale, socializzata, anzi, fortemente rispetto al passato, dove avvengono forme di
collaborazione e forme di conflitto, forme di creazione comune e forme, invece, di
sterilità, dovute anche alla difficoltà di lavorare insieme.
Domanda 3
In questo contesto, però, aumenta il carattere collaborativo dell'opera...
Risposta
Dovrebbe aumentare; fra l'altro, uno dei problemi più affascinanti e più strani, è che
la tecnologia stessa è chiamata a garantire la collaborazione, nel senso che il gruppo
collabora anche in quanto il software usato, la rete stessa, che collega tra di loro le
diverse postazioni di lavoro, consentono una circolazione fluida delle idee e del lavoro.
Però, ripeto: la tecnologia aiuta, ma la chimica del funzionamento di un buon collettivo
non è più semplice che non in passato, è anche più complicata proprio perché occorre
che ciascuno dei membri del collettivo dia il massimo delle sue capacità, accettando
contemporaneamente che il prodotto non sia firmato solo da lui, ma che si tratti di un
prodotto unitario e globale. Ciò richiede, per esempio, delle capacità organizzative e
delle capacità psicologiche di grande complessità, che forse, per certi versi, ci
riportano a delle esperienze passate importanti. Pensiamo che, contrariamente al mito
diffuso, la pittura rinascimentale, in realtà, era già un'opera molto più collettiva di
quanto si pensi perché il grande pittore medioevale o rinascimentale era un grande
organizzatore di lavoro, di botteghe integrate dove parecchie persone lavoravano insieme.
Noi, per molto tempo, è come se ci fossimo costretti a dimenticare questo aspetto
collaborativo per esaltare il mito individualistico dell'autore, per renderci conto,
adesso, che siamo di fronte a un'organizzazione del lavoro collettiva. Nelle botteghe
medioevali, ripeto, c'erano delle forme di gerarchia molto forti; questi famosi pittori
che tanto amiamo a volte frustavano i loro assistenti. Noi non lo possiamo fare e non lo
vogliamo fare, ma non è detto che in situazioni di questo tipo sia così facile lavorare
insieme, e, soprattutto, che in situazioni di questo tipo le diverse intelligenze riescano
a dare il meglio di se stesse o che, piuttosto, non si inceppino l'una con l'altra. La
metafora calcistica che viene in mente a tutti è, naturalmente, la squadra, composta di
tantissimi grandi giocatori che non riescono a giocare insieme: si tratta di un fenomeno
molto diffuso.
Domanda 4
Lei realizza degli ipertesti. Come si costruisce un prodotto multimediale?
Risposta
Questo è un tema molto affascinante e io credo che siamo ancora agli inizi, stiamo ancora
andando a tentoni. McLuhan diceva che la prima fase dell'automobile era la carrozza senza
cavalli. Direi che la fase dell'ipertesto sia il cinema o, forse, addirittura la
televisione senza Corrado o senza Maurizio Costanzo, oppure l'enciclopedia senza carta;
direi che la grande maggioranza degli ipertesti in circolazione siano enciclopedie senza
carta. Ma che cosa si vuole raggiungere con un ipertesto? Io credo che l'ipertesto abbia
delle potenzialità straordinarie di tipo mentale; il punto, l'elemento più affascinante
dell'ipertesto è la capacità di simulare processi associativi che sono simili ai
processi della nostra mente. Eisenstein, grande regista russo, sosteneva che il montaggio
consisteva nell'associare, proprio come nella mente umana; l'ipertesto è una macchina per
combinare infinite possibilità di montaggio. Dunque esso è una macchina potenzialmente
molto simile alla mente umana, con una capacità di stimolo straordinaria, purché sia
costruita secondo queste sue potenzialità. E' successo che per molto tempo - e tuttora
succede -, costruire un ipertesto significava, per esempio, partire da una sceneggiatura;
ma una sceneggiatura è, esattamente, un concetto cinematografico o televisivo che con
l'ipertesto ha abbastanza poco a che fare; si rischia di realizzare una sceneggiatura
senza telecamera oppure di costruire con lo story-board uno spot pubblicitario senza
pubblicità. Quello che sto cercando di dire è che, in sostanza, noi siamo ancora nella
fase in cui si costruisce un ipertesto per analogia con vecchie forme di costruzione
intellettuale. Se devo dire come io penso che dovrebbe avvenire la costruzione
dell'ipertesto, le due metafore più forti che mi vengono in mente sono apparentemente
molto contraddittorie tra loro: una è quella del saggio; un ipertesto può avere la forma
del saggio nel senso migliore del termine, quello della grande tradizione saggistica che
nasce con Montaigne. Il saggio che cos'è? E' una costruzione di pensiero molto
soggettiva, ma che deve essere condivisa dai lettori. E l'ipertesto può essere questa
operazione, dichiaratamente molto di parte, ma che offre grandi possibilità di movimento
mentale a chi lo segue. L'altra possibilità interessante della costruzione di un
ipertesto è quella di tipo musicale; in fondo un ipertesto è anche un tema con
variazioni e quindi è possibile pensarlo quasi come una grande partitura in cui sono
possibili una serie di collegamenti tra i diversi temi della partitura stessa. Al di là
delle metafore, che possono più o meno funzionare, un ipertesto si costruisce, a mio
avviso, fondamentalmente avendo delle idee; si tratta di un progetto conoscitivo
complesso, articolato e strutturato al suo interno e che cerca di porsi dal punto di vista
di un lettore curioso e intelligente, che, a partire dalle nostre idee, può sviluppare le
proprie.
Domanda 5
Quali sono gli elementi di novità di un ipertesto?
Risposta
Io credo che nella tradizione occidentale, dalla stampa in avanti, ci siano essenzialmente
tre modelli di organizzazione del messaggio; il primo è quello classico del testo. La
caratteristica fondamentale del testo - il libro, e dopo il libro l'opera musicale e,
ancora, il film -, è lo sviluppo della storia con un inizio e una fine ben distinti, con
un ordine interno che è sempre uguale a se stesso, e ha una sua coerenza nel tempo;
l'Odissea è sempre la stessa da ventisette secoli, ormai. In questa prospettiva
l'ipertesto non è niente di tutto questo, perché esso ha un inizio, nel senso che noi
entriamo nell'ipertesto, ma, viceversa, non ha una fine predeterminata; la fine è quella
che scegliamo noi sulla base del tempo che abbiamo a disposizione, come quando spegniamo
il televisore, o anche semplicemente sulla base del fatto che il percorso conoscitivo che
ci interessava ci sembra di averlo compiuto tutto. Ciò significa che l'ipertesto non è
uguale a se stesso, lo è solo oggettivamente; quello che è contenuto dentro il CD ROM o
in rete è sempre lo stesso, ma nella nostra esperienza di lettori l'ipertesto è
soggettivamente diverso; inoltre esso, soprattutto, non ha un ordine prestabilito al
proprio interno, ne ha infiniti che possono essere scelti a seconda delle diverse
occasioni. Tutti questi elementi dei quali sto parlando rappresentano delle novità
abbastanza considerevoli, che trasformano l'ipertesto in un testo che, come la rete
telefonica, possiede delle centraline di commutazione al proprio interno. La rete
telefonica è un sistema fisso che però può essere attivato lungo direttrici ogni volta
differenti. L'ipertesto ha i link che svolgono la stessa funzione: sono come delle
centraline telefoniche che collegano i vari punti del testo. Non a caso, la centralina
telefonica, il sistema telefonico, è, negli ultimi decenni, la metafora più usata per
fare un parallelo fisico con la mente umana. L'ipertesto, in certa misura, trasforma ogni
testo in una rete potenzialmente attivabile a livello neuronale. Si dice sempre che
l'autore dell'ipertesto, il vero autore dell'ipertesto, sia il lettore; questo non è
affatto vero. Il lettore, semplicemente, segue alcune delle strade che l'ipertesto gli
permette di percorrere, poi segue mentalmente alcune strade sue. L'ipertesto ha tre
autori: uno è l'autore dell'ipertesto propriamente detto, colui che seleziona
l'informazione e seleziona anche i link; il secondo è il lettore, che può essere
paragonato quasi all'esecutore di un'opera musicale, perché, sostanzialmente, ha un testo
di base nel quale seleziona la sua modalità di esecuzione; il terzo autore, che si
dimentica troppo spesso, è colui che ha costruito il software ipertestuale che permette
tutto questo. Il software è, per certi versi, il vero autore di ogni ipertesto.
Domanda 6
Non crede che questa quantità enorme di informazioni che si può offrire al lettore,
anziché fornirgli un supporto nella scelta delle stesse, rischi, viceversa, di farlo
perdere nei meandri degli ipertesti?
Risposta
Le risponderò in due modi complementari. Il primo è che il buon ipertesto, in realtà,
non solo non è una macchina per distrarre il lettore, ma dovrebbe essere una macchina, in
qualche misura, per fargli selezionare l'informazione sulla base delle sue esigenze; e
questo succede già in rete. I siti ben "ipertestualizzati" aiutano moltissimo
il lettore a trovare l'informazione che a lui serve. Da questo punto di vista l'ipertesto,
certo, garantisce moltissima informazione, ma in più dovrebbe fornire delle chiavi di
accesso che aiutino il lettore nel percorso che ha scelto. Ciò non toglie che quello che
Lei sostiene sia vero, perché, in molti casi, quello che è stato usato di più, finora,
dell'ipertesto, prescindendo da una multimedialità spettacolare, un po' televisiva, è
proprio il link come piacere in sé: "Oh, quante belle possibilità ho!" Ma è
una fase ancora infantile, io credo, dell'ipertesto. In una fase matura i link saranno
offerti per aiutare il lettore a selezionare l'informazione che gli interessa e a
procedere oltre con la propria intelligenza. Il secondo elemento però, che è
profondamente vero, si collega a un tema molto importante quando riflettiamo sulla rete:
in una società dell'informazione abbondante, la stessa società dove l'informazione è il
bene economico principale - un paradosso ancora irrisolto di questa società (una società
dove l'informazione è insieme abbondante e ha valore economico) -, qual è la funzione
dei mediatori? Tutte le società attribuiscono funzioni strategiche ai cosiddetti
"mediatori"; in questi casi i mediatori sono coloro che dispongono di una serie
di informazioni in più rispetto agli altri e consentono all'individuo di accedere al
mercato o allo spazio istituzionale di suo interesse, grazie alle informazioni di cui
dispone. Oggigiorno noi abbiamo avuto, in una prima fase dello sviluppo della rete, la
sensazione che non ci fosse più bisogno di questi mediatori, poiché si poteva accedere
direttamente all'informazione che ci interessava, senza alcun bisogno delle loro funzioni.
In realtà, la sensazione è che oggi i mediatori siano proprio quelli che ci consentono
di accedere all'informazione di cui abbiamo bisogno. Mi spiego: non sono più coloro che
si tengono stretta la loro informazione per venderci l'accesso a un bene, ma sono coloro
che ci vendono l'accesso all'informazione che serve a noi. Ed è una bella differenza:
sono mediatori d'informazione; sono, come dice il francese Bruno Latour,
"traduttori" di professione. Oggi tutto il sistema economico in generale, non
solo dell'impresa culturale, si sta ristrutturando attorno alla nascita di moltissime
nuove figure di traduttore; queste figure di intermediazione sono generalmente gestite da
piccoli soggetti, da piccole imprese, e non più da grandissime strutture, le quali a loro
volta devono gestire l'informazione al proprio interno con meccanismi molto complessi.
Domanda 7
In questo contesto, dunque, cambia il ruolo dell'intellettuale e anche quello
dell'insegnante?
Risposta
L'insegnante è un intellettuale, è un intellettuale a cui viene ripetuto continuamente
che non lo è, però tale rimane. Al di là dei giochi di parole direi che il ruolo
dell'intellettuale in questo contesto è cambiato profondamente e non da oggi, per diversi
motivi. Ma per fermarci soltanto al motivo, diciamo, comunicativo, è indubbio che si è
avuto prima di tutto una socializzazione ulteriore della funzione dell'intellettuale
rispetto all'Ottocento e anche alla prima metà del Novecento, vale a dire una maggiore
collettivizzazione del suo lavoro. Ma si è rivelato anche un ulteriore elemento, che io
credo rappresenti il processo più importante: cioè per moltissimo tempo l'intellettuale
- e questo rispondeva a delle esigenze profonde della nostra cultura -, era considerato un
fattore esterno ai meccanismi sociali fondamentali, era un soggetto la cui appartenenza di
classe non era chiarissima, era un soggetto che lavorava generalmente per un settore
protetto dell'economia - che poteva essere pubblica nella grande maggioranza dei casi, o
anche privata, ma sostanzialmente no-profit -, e il fatto stesso di lavorare per il
mercato costituiva per questa figura un problema culturale oltre che di identità molto
consistente. Oggi questo porsi al di fuori dei processi sociali, che precedentemente
costituiva la base del suo potere, presentarsi come colui che osservava il mondo da un
punto di vista altro, che già Marx ai suoi tempi aveva messo in discussione nella tesi su
Feuerbach, quando sosteneva che: "I filosofi hanno interpretato il mondo. Si tratta
di cambiarlo", questo atteggiamento è in crisi profonda, perché oggi
l'intellettuale che voglia esercitare fino in fondo la propria funzione, che è anche una
funzione di intermediazione nell'universo dell'informazione, deve farsi imprenditore sul
mercato, avere conoscenza diretta del mercato e del come esso è organizzato. Ancora
lontana è l'ipotesi di una funzione organizzativa del lavoro altrui da parte
dell'intellettuale, ma è sempre più importante per la propria funzione prendere
coscienza della difficoltà di definire il proprio lavoro in una prospettiva
individualistica. Questo significa che sostanzialmente alcune delle caratteristiche
fondamentali del lavoro intellettuale nell'ultimo secolo e mezzo, compreso il fatto di
dichiarare sempre di lavorare non per i propri interessi, ma per la scienza, per l'arte o
per il popolo, queste possibilità cominciano a essere scartate. La categoria
dell'intellettuale è divenuta certo più importante di epoche precedenti, e questo ha
determinato una maggiore chiarezza sul fronte dei propri interessi. A esempio il problema
degli interessi economici e delle caratteristiche organizzative della categoria - problema
sul quale gli intellettuali, primo fra tutti Gramsci, già all'inizio del Novecento
richiamavano l'attenzione - sta diventando un problema la cui soluzione non è più
rinviabile. Gli intellettuali devono dichiarare come intendono agire, anche sul mercato,
come intendono organizzarsi e anche come intendono risolvere i problemi di gerarchia e di
conflitto, anche sociale, che li riguardano. Una serie di privilegi, dichiarati o meno,
sono cauti. A questo punto si tratta di assumersi fino in fondo le proprie
responsabilità. Non è uno scherzo.
Domanda 8
Si può insegnare l'uso delle nuove tecnologie?
Risposta
Questo è un problema affascinante, poiché l'insegnamento della tecnologia come una
materia di tipo scolastico è un fatto relativamente nuovo nella nostra cultura. Per
lunghi anni si è insegnato a parlare, a scrivere, ma non si sono insegnate le tecniche.
Queste ultime si imparavano soprattutto attraverso un contatto visivo, vedendo fare,
funzione tuttora presente, a esempio, nell'arte culinaria: si acquisisce poco con la
teoria e molto di più con la pratica. Ma è stato vero per quasi tutte le tecniche; è
solo dall'Ottocento, dalla Rivoluzione industriale in poi, che si è cominciato a
insegnare le tecniche con le scuole, coi politecnici, poiché il linguaggio scientifico
della fisica, della chimica, consentiva di formalizzare il sapere tecnico che prima era un
sapere tipicamente artigianale. Per quanto riguarda le nuove tecnologie il problema è
ancora diverso, in primo luogo perché, in molti casi, si tratta di tecnologie che si
presentano, come si suol dire, come gli "user friendly", come tecnologie facili
da usare; in questo caso l'insegnamento viene delegato, come si suol dire,
all'interfaccia. La macchina interiorizza, grazie a software sempre più sofisticati,
l'apprendimento della tecnologia. Allora, che cosa bisogna insegnare? Non bisogna
insegnare tanto l'interfaccia di Netscape, come si è fatto per troppo tempo: si sono
svolti corsi di informatica, corsi di Internet, dove poi venivano insegnati dei passaggi
assolutamente banali. Quello che bisogna insegnare è, prima di tutto, la capacità di
andar dietro all'interfaccia di Netscape per capire il suo funzionamento e la sua logica,
perché, altrimenti, saremmo tutti utenti vittime di queste tecnologie. In secondo luogo -
e questo ritengo sia l'aspetto più importante - è necessario insegnare la dinamica
stessa di queste tecnologie, in modo che ci si possa preparare al cambiamento. Noi abbiamo
una situazione in cui ci sono molte tecnologie che è facilissimo imparare a usare, poi
tendiamo, però, a legarci a quelle che abbiamo imparato per prime. Io conosco molte
persone che hanno imparato a scrivere la prima volta sul computer usando Word 3, e
qualunque evoluzione successiva di Word o qualunque programma di scrittura che non sia
Word, per loro è irritante; ciò accade perché, nel momento in cui hanno imparato a
usare quel programma, queste persone hanno inserito dei piloti automatici nella loro mente
che a questo punto non hanno più voglia di cambiare; questa mentalità va superata per la
logica stessa del mercato, e soprattutto bisogna cambiare l'atteggiamento verso le stesse
tecnologie di "user friendly", nel senso di capire la logica e la dinamica del
loro funzionamento, perché in gioco c'è anche un problema di democrazia.
Domanda 9
L'uso e la possibilità di accedere alle nuove tecnologie, in fondo, potrebbe allargare la
frattura, in futuro, fra i paesi del Nord e quelli del Sud del mondo, ma anche fra
generazioni...
Risposta
Il problema, senza alcun dubbio, esiste, perché le tecnologie, in particolare quelle
informatiche, non sono equamente distribuite. Rischiamo, però, di assistere a una sorta
di dibattito ripetitivo se da una parte alcuni ci ricordano il dato materiale della scarsa
equità nella distribuzione delle tecnologie, e altri, invece, insistono sulla facilità
di accesso all'uso delle stesse. Il problema, io credo che sia un poco più complesso e
che riguardi, fondamentalmente, non solo e non tanto l'uso immediato di queste tecnologie,
quanto il controllo complessivo di rete. Quando dico che c'è un problema di democrazia
sulle tecnologie, intendo sostenere che oggi, la scelta di determinate tecniche,
addirittura la forma che si dà alle reti, sta diventando uno dei problemi politici
fondamentali della società contemporanea, perché, nella sostanza, a seconda della forma
che si dà alla rete, si stabilisce qual è il centro e qual è la periferia della
società stessa; in futuro, il fatto di essere in una zona ben connessa o meno ben
connessa potrà essere veramente un problema fondamentale, così come potrà essere un
problema davvero fondamentale quello di avere la possibilità, per esempio, di accesso,
oltre che alla rete di telecomunicazione, a una rete di trasporti funzionante, perché la
società delle telecomunicazioni, contrariamente all'apparenza, rende maggiore, non
minore, il bisogno di trasporto. E in una situazione in cui si dispone di tutte le
telecomunicazioni possibili, ma non si possono utilizzare, si è, in realtà, tagliati
fuori anche più di prima. Da questo punto di vista qual è il nodo, chi decide la forma
della rete? Questo è un problema politico, insisto, fondamentale, che però non viene
presentato come problema politico, ma come problema banalmente tecnico. Solo una
cittadinanza che può capire che le scelte tecnologiche sono scelte di portata politica è
in grado di intervenire in questo complesso dibattito. Per ora non vediamo l'ombra di tale
dubbio, interrogativo, in nessun paese.
Domanda 10
A questo proposito un altro problema importante è quello della proprietà della rete,
perché è estremamente difficile controllare un sistema ormai internazionale.
Risposta
Anche questo è un problema molto complesso, perché, in realtà, quando la nostra
informazione circola su Internet, per esempio, compie, in molti casi, una serie di
passaggi che per certi versi sono incontrollati da chiunque se non da macchine. Il nostro
messaggio che arriva a New York, può passare su reti di diversi gestori di
telecomunicazioni pubblici in diversi paesi, monopolistici o semi-monopolistici, oppure
può passare attraverso una serie di segmenti di rete, messi a disposizione da soggetti
privati; noi non lo sappiamo neanche e, ripeto, probabilmente non lo sa nessuno se non il
computer attraverso cui passa questo routing del messaggio. In questa prospettiva, il
problema è che la rete nel suo complesso non ha un proprietario. Finora il problema è
stato relativamente minore, perché la rete, in fondo, è stata il lusso che si è
concesso il sistema mondiale delle comunicazioni, e che sta concedendo a noi. Nel momento
in cui la rete ha un valore commerciale, come ci si organizza? Qui scatta il grande
problema: fino a adesso le telecomunicazioni sono state tipicamente un servizio nazionale,
con un servizio internazionale costruito al di sopra di esso, sulla base di convenzioni e
di accordi tra i diversi servizi nazionali. Ora abbiamo una tendenza completamente
diversa: le telecomunicazioni diventano un servizio globale, però i soggetti sono, in
gran parte, ancora costruiti lungo frontiere nazionali, secondo logiche nazionali; non è
vero che la rete non ha confini; i confini che ha, per ora, non creano problemi, anche
perché l'aspetto economico della rete non è fondamentale. Prima o poi queste convenzioni
su cui è regolata la rete verranno ridiscusse. Sostanzialmente noi dobbiamo prepararci a
una grande trattativa internazionale sulla rete, dove agiranno stati, compagnie nazionali,
compagnie totalmente private, e la cittadinanza degli utenti rischia di non agire affatto.
Probabilmente, tra un po' di tempo, ci si dovrà porre il problema di quali saranno gli
obiettivi fondamentali della rete. Per esempio: sarà meglio avere costi più bassi e una
rete più lenta o costi più alti e una rete più efficiente? Che cosa vorrà dire avere
un rete più efficiente? Questi saranno problemi politici di un futuro che ormai sta
arrivando o, forse, è già arrivato.
Domanda 11
La maggioranza dei siti Internet sono in inglese. Non si corre il rischio di vedere
dominare la cultura anglosassone?
Risposta
La cultura anglosassone è già dominante nell'universo delle telecomunicazioni, perché
ha il fascino che le deriva dal suo presentarsi come una forma, io oserei dire, di
universalismo concreto: siamo tutti americani, tutti quanti siamo uguali in alcune domande
di fondo. Negli anni Cinquanta e Sessanta eravamo tutti americani in nome della lavatrice,
della Coca Cola, del fatto che gli Stati Uniti promettevano ai loro cittadini - e,
indirettamente, ai cittadini del resto del mondo - consumi considerati appetibili da
tutti, perché rendevano la vita più veloce, più piacevole; oggi siamo tutti americani
in quanto gli Stati Uniti promettono telecomunicazioni e una rete senza capi e senza
margini a tutti. In questo senso, l'identità americana è paradossale, perché nella
sostanza è un'identità, per certi versi, postnazionale; è come se ci dicessero: se
vogliamo essere globali, basta essere come siamo stati noi dall'Ottocento in poi,
considerare il mondo una grande frontiera tutta da conquistare. Questa è una forma di
presenza culturale americana. Parlare di imperialismo culturale, a proposito di questa
presenza culturale americana, mi sembrerebbe improprio, perché c'è un elemento di
condivisione di questi ideali, magari mediocre, banale, da parte di quelli che dovrebbero
essere i sudditi. Forse su questo la battuta più straordinaria la fece Suharto, eccitato
da Marshall McLuhan negli strumenti del comunicare. Suharto, il presidente indonesiano di
sinistra, disse agli americani: "In realtà è Hollywood che ci rende rivoluzionari,
perché a furia di vedere i frigoriferi e le lavatrici nei film, li vogliamo anche
noi". Possiamo dire che, in realtà, la diffusione della cultura americana e della
domanda americana di rete, di informazione, nel mondo, non necessariamente va nella
direzione di una subalternità agli Stati Uniti, come è stato, ma neanche necessariamente
agli Stati Uniti come modello economico. Certo crea delle aspirazioni che sono americane,
ma queste aspirazioni possono creare conflitti, in cui gli Stati Uniti, necessariamente,
non sono avvantaggiati.
Domanda 12
A proposito di conflitti è interessante analizzare il rapporto fra guerra e nuove
tecnologie.
Risposta
Questo è un tema molto poco studiato. Le tecnologie di guerra condividono con le
tecnologie di comunicazione un elemento fondamentale: il fatto che servono entrambe più
che a agire sulla natura, a agire sugli altri esseri umani, l'una in modo più
costruttivo, l'altra in un modo più distruttivo; però, sostanzialmente, sono tecnologie
tra gli esseri umani, tecnologie di guerra per distruggere altri esseri umani. Che cosa
comporta lo sviluppo di nuove tecnologie di comunicazione in questo campo? Una delle
illusioni ricorrenti da sempre, quando nascono nuove tecnologie di comunicazione, è che
metteranno fine alle guerre, perché l'idea, molto idealizzante, è che le guerre nascono
dalle incomprensioni, e se si comunica ci si capisce meglio. In realtà, poi, si è
scoperto che, in molti casi, se si comunica ci si capisce peggio e soprattutto si capisce
di odiarsi, cosa che prima non si capiva. La conflittualità, nell'epoca delle nuove
tecnologie di comunicazione, non è diminuita affatto; è, viceversa, aumentata, ma è una
conflittualità nuova. La domanda da porsi è: che tipo di conflitti sono finiti e che
genere di conflitti sono sorti nella nostra epoca? E che relazione c'è tra questo e le
nuove tecnologie? Il conflitto che è finito è il grande conflitto tra le due super
potenze. Una delle due non è riuscita a reggere il ritmo dell'altra e è scoppiata;
quest'ultima è l'Unione Sovietica. Su questo non ci possono essere dubbi. Tra i motivi
dello scoppio dell'Unione Sovietica c'è il fatto che è rimasta indietro nella
rivoluzione tecnologica degli anni Settanta, Ottanta, non è riuscita a seguirla, non
poteva seguirla solo sul piano strettamente militare e quindi, di fatto, è rimasta
tagliata fuori. Ma c'è un altro genere di conflitto, che, invece, sta esplodendo.
Normalmente si sostiene che sia il conflitto etnico. Io direi che non è semplicemente un
problema di conflitto etnico, anche perché ci siamo resi conto che in molti casi
l'etnicità è una mascheratura di conflitti ben più banali. Nella ex Jugoslavia, al di
là degli odi, più o meno atavici, tra Serbi, Croati e Musulmani, si è scoperto che
c'erano interventi pesantissimi della criminalità organizzata, interessi di gruppi
organizzati. In Algeria, ormai, si sta capendo che, dietro il conflitto tra islamici e
militari, ci sono conflitti interni tra diversi gruppi di islamici e diversi gruppi di
militari, e così via. Io sarò molto brutale su questo punto, la metterò in questi
termini: la tendenza attuale delle guerre - ed è una tendenza spaventosa - è che le
guerre non hanno più due contendenti, ma progressivamente sempre di più: tre, quattro,
cinque o sei contendenti; non si riesce a far pace perché la mediazione rimane tra due
contendenti, non tra quattro cinque o che dir si voglia, nel senso che chi si ritiene
fregato dalla mediazione fa riscoppiare la guerra, magari sgozzando bambini, come succede
regolarmente in Algeria. Che cosa c'è dietro? Dietro c'è, tra l'altro, il fatto che le
nuove tecnologie hanno abbassato il costo della partecipazione a un conflitto - il
terrorismo è stato solo il segnale di inizio di questo fenomeno-; hanno abbassato il
costo della partecipazione a un conflitto in maniera drastica rispetto al passato.
Nell'epoca delle tecnologie di guerra classiche si poteva essere solo in due a combattere,
perché i costi, non solo economici, della partecipazione al conflitto erano tali che
bisognava stare o con l'uno o con l'altro dei due grandi contendenti. Oggi è possibile
partecipare a un conflitto in modo significativo, cambiandone l'andamento, anche con
risorse molto limitate e, soprattutto, usando attentamente le risorse di comunicazione o
facendo saltare con cura le risorse di comunicazione degli altri: per esempio, facendo
saltare le reti. Questo significa che andiamo verso una tendenza a conflitti a quattro,
cinque contendenti, che è quello che vediamo nel Terzo Mondo e vedremo, a mio avviso,
abbastanza presto anche nel "primo" mondo. E questo, di tutti i temi che stiamo
trattando oggi, è quello su cui sono più pessimista.
Domanda 13
Ci sarà forse anche una guerra fra tutti i paesi che cercheranno di appropriarsi della
rete?
Risposta
L'idea di una appropriazione bellica della rete non la vedo, anche per le caratteristiche
tecniche della rete. In qualunque conflitto ci sarà nel futuro prossimo, il black out
delle reti fondamentali di comunicazione sarà una delle armi più usate contro i propri
avversari. Così come da Napoleone fino alla guerra dei sommergibili della Prima Guerra
Mondiale, l'arma fondamentale, per più di un secolo, è stata quella del blocco navale,
perché la Marina era la chiave fondamentale dei commerci; oggi notiamo - si è visto in
Iraq -, che la prima cosa che fa una potenza per piegare un'altra potenza è cercare di
scombinare le sue reti di comunicazione.
Domanda 14
Cosa pensa della censura in rete?
Risposta
Anche la censura in rete è un problema complesso, quindi, cercherò di essere brevissimo.
Ci troviamo qui di fronte a due posizioni molto schematiche, contrapposte, una che dice:
nessuna censura; l'altra dice: aiuta i bambini. In realtà, il problema è in parte
simbolico, in parte reale. In parte simbolico nel senso che, di fronte a un nuovo mezzo di
comunicazione, per di più pervasivo e potente, una delle prime reazioni è preoccuparsi
delle conseguenze psichiche, morali che potrà determinare. E, tipicamente, in questi
casi, si ha paura per le giovani generazioni. Se noi vediamo i report famosi degli anni
Venti negli Stati Uniti, su quello che il cinema provocava nei bambini, troviamo
esattamente quello che si dice, adesso, sul videogame da una parte e su Internet
dall'altra. Secondo questi report il cinema rendeva epilettici i bambini, era un luogo
dove venivano adescati da adulti senza scrupoli. Le stesse cose che sentiamo ora di
Internet. Quando arriva un nuovo medium c'è una preoccupazione, non incomprensibile, per
gli effetti incontrollati che può provocare. La risposta, naturalmente, è facile, e
corrisponde alla censura. In fondo, l'idea di curare l'alcolismo col proibizionismo, è
americana. Il proibizionismo è stata una risposta sbagliata, ma il problema era giusto.
In rete circolano messaggi spaventosi, il problema è come combatterli. La censura, a mio
avviso, non funziona. Sostenere, viceversa, che tutte le idee devono essere libere,
significa riconoscere lo status di idee a cose che sono immondizia pura. Ma non si tratta
di censurarle, si tratta di capire se è possibile combattere delle battaglie di idee
contro le idee sbagliate. Questo, invece, è ciò a cui stiamo sempre di più rinunciando,
perché siamo in una società della permissività più che in una società del dibattito.
Domanda 15
Il telelavoro quali effetti sociali può provocare?
Risposta
Prima di tutto è necessario verificare se solo il telelavoro stia sfondando la barriera
tra casa e lavoro. Ricordiamoci, intanto, che la separazione netta tra casa e lavoro è un
fenomeno relativamente recente, nel senso che, per molti secoli, sia in ambiente
artigiano, sia in ambiente contadino, la distinzione tra vita domestica e vita lavorativa
era molto meno rigida di quanto sia diventata in ambiente operaio e impiegatizio. Alcune
categorie hanno sempre continuato a mescolare casa e lavoro, e tra queste, ci sono gli
intellettuali. Per l'intellettuale, la distinzione tra momento del lavoro e il momento
dello svago è molto meno rigida. Già Adorno diceva che l'intellettuale non conosceva
vacanze, perché la sua vera vacanza era pensare. Adesso, col telelavoro sta succedendo un
nuovo fenomeno di lavoro a domicilio; però valutiamolo nella sua complessità, perché
abbiamo forme di vero e proprio lavoro a domicilio, nel senso che - letteralmente -
l'officina, la fabbrica viene spostata in un ambiente della casa, della casa della persona
che lavora al terminale, separato dal resto dell'abitazione. In questo caso è chiaro che,
più che non semplicemente a un'invasione, assistiamo a una riorganizzazione della vita
domestica. Molto probabilmente quello che succederà sarà una riorganizzazione della vita
domestica, in cui si dovranno introdurre delle barriere, dei filtri; ciò che va contro la
tendenza degli ultimi decenni a unificare la vita domestica: gli open space, la fine della
separazione netta tra parte giorno e parte notte della casa. La domanda è: il telelavoro
cambierà la struttura di un'abitazione? Ricrederà uno spazio-lavoro separato dallo
spazio-vita? E lo spazio-lavoro come si difenderà dallo spazio-vita, semplicemente
chiudendo delle porte, insonorizzandosi, o magari creando delle barriere invisibili? Sono
domande tutte da porsi. Sicuramente il telelavoro entrerà nella vita familiare e
sicuramente avrà degli effetti. Ma non credo che si tratterà di effetti tutti e sempre
nuovi, perché, in parte, queste strategie sono già state usate per secoli; in parte,
forse, ci saranno strategie nuove di organizzazione del tempo e dello spazio domestico.
Domanda 16
Ma avremo meno tempo per noi stessi? E nella vita familiare il tempo dedicato al
telelavoro sarà rubato al tempo che dedicheremo ai nostri figli?
Risposta
Ciò dipenderà, io credo, dalle persone, dall'organizzazione e anche dai contratti di
lavoro. Ciò che dovremmo chiederci è se il tempo del telelavoro sia necessariamente un
tempo reale o possa essere un tempo autorganizzato. Per essere più chiari: il tempo del
telefono è il tempo reale, io devo essere al telefono quando il mio interlocutore è con
me; il tempo della posta elettronica non è un tempo reale, è un tempo autogestito.
Quanto tempo io impiego a scrivere o a leggere un messaggio dipende, in parte, da me e
dalla mia abilità; il momento in cui io apro i messaggi è una scelta mia, è un tempo
differito, e questo tempo differito non è necessariamente un tempo rubato. Oggi, un
telefono che squilla e che ci porta messaggi di lavoro in casa è sicuramente tempo rubato
alla famiglia, perché crea automaticamente una sorta di bolla temporale separata in cui
io mi debbo inserire. La posta elettronica non è necessariamente così, poiché le
modalità di gestione del telelavoro possono dipendere da noi stessi. Un'altro aspetto è
la quantità di protezione della privacy che il telelavoratore avrà, e questo dipenderà
anche dalla organizzazione collettiva dei telelavoratori. Io so che in alcuni esperimenti
di telelavoro i sindacati sono intervenuti anche al fine di difendere lo spazio privato
dell'abitazione, per esempio opponendosi all'uso massiccio di videoconferenze e
videotelefono in casa. Anche questo è un tema molto interessante: il telelavoro col
videotelefono o con la videoconferenza. Questi ultimi sono un elemento di intrusività,
anche semplicemente perché richieono che determinati spazi siano a disposizione
"visiva" del mondo, e questo è un aspetto che non riguarda la forma attuale di
telelavoro, né la posta elettronica. Anche in questo caso le tecnologie vanno in
direzioni contraddittorie: la posta elettronica va in una direzione e il videotelefono o
la videoconferenza vanno in direzione opposta. La scelta tra queste tecnologie è un
problema politico e sindacale e molto spesso viene presentato come un problema puramente
tecnico.
Domanda 17
Un elemento interessante della rete sta nella creazione di siti dedicati a momenti
spirituali, alle religioni: la Chiesa cattolica ha un sito ufficiale, e esistono pagine
aperte da diverse Chiese di tutto il mondo. Crede che la tecnologia possa cambiare la
spiritualità per crearne una nuova?
Risposta
Una domanda del genere richiede due risposte; la prima riguarda le forme di spiritualità
o pseudo tali, che nascono direttamente in relazione alla tecnologia; la seconda riguarda,
invece, le forme di spiritualità già esistenti, e il rapporto in cui si porranno con la
tecnologia. Noi assistiamo a un fenomeno curioso, massiccio, un poco inquietante, che è
la spiritualità tecnologica, il cosiddetto "new age". Fenomeno massiccio e
significativo di questa spiritualità tecnologica è qualcosa che curiosamente, ma forse
non tanto, si è diffuso sotto forma di libro, ed è La Profezia di Celestino, con tutto
il suo seguito. La Profezia di Celestino è, a mio avviso, un segnale molto forte di
questa nuova forma di spiritualità. Qual è la caratteristica fondamentale di questo
libro che lo rende veramente simile, per certi versi, alla nuova cultura tecnologica? Che
cosa lega insieme lo sviluppo delle nuove tecnologie e l'emergere della spiritualità New
Age? A mio avviso, un primo elemento è una forma, se vogliamo, grezza ma molto attraente,
di interattività. La religione è un grande testo col quale posso giocare per inserirlo
nella mia vita. Vediamo in modo specifico il caso de La Profezia di Celestino, che è
molto interessante. Cosa dice La profezia di Celestino? Dice: "c'è una profezia che
tu puoi mettere in moto ogni giorno nella tua vita cogliendo le coincidenze strane che la
attraversano". E' diverso dall'oroscopo! L'oroscopo era tipico dell'epoca della
stampa, poiché, sostanzialmente, si hanno una serie di testi che si può decidere di
applicare o no a se stessi sulla base del segno di appartenenza. Nel caso de La Profezia
di Celestino è come se mi venisse dato un kit col quale giocare per contribuire a creare
questa sorta di megatesto, che è la vera e propria Profezia di Celestino: una profezia in
fieri. Io non sono particolarmente attratto da La profezia di Celestino, che trovo
assolutamente puerile, ma non è questo il punto. Trovo questo libro frutto della nostra
epoca, con la presenza dell'elemento ludico e dell'elemento interattivo; in questa
prospettiva tutti i testi possono essere costruiti e ricostruiti all'infinito: è
caratteristico della cultura new age, di questa forma di spiritualità; la musica new age
è una musica, sostanzialmente, che sta superando la tradizione testuale per disperderla
nell'ambiente, per disperdere i suoni in un ambiente sempre mutevole, però, in fondo,
sempre uguale a se stesso. Il discorso è completamente diverso per la tradizione delle
grandi religioni e il loro incontro con le tecnologie. Di fronte all'innovazione
tecnologica le grandi religioni hanno due atteggiamenti opposti: un atteggiamento che è
più tipico del protestantesimo e l'atteggiamento fondamentalista. La parola
fondamentalista adesso è usata a proposito e a sproposito, ma non dobbiamo dimenticarci
che il fondamentalismo è nato nell'America degli anni Venti. E la tradizione
fondamentalista dice: "restiamo al libro; c'è la radio, c'è la televisione, c'è
tutto, ma restiamo al libro". Il libro diventa l'elemento fondamentale della nostra
vita. L'applicazione letterale della Bibbia, del Corano, del Vangelo, diventa lo strumento
di autodifesa rispetto alla modernizzazione tecnologica. Il paradosso è che poi, sul
terreno dei valori, abbiamo la parola di Dio che è intoccabile, intangibile e deve essere
applicata alla lettera, e sul piano delle pratiche, in realtà, i fondamentalisti sono
spesso i primi a usare le nuove tecnologie. Sono quelli che usano la radio negli anni
Venti, che usano la televisione negli anni Cinquanta e che usano Internet già nei primi
anni Ottanta, perché, per l'appunto, con questa forza di convinzione che gli deriva dal
loro attaccamento alla parola, usano le nuove tecnologie per fare proseliti.
L'atteggiamento della Chiesa Cattolica è completamente diverso, essa ha delle
denominazioni protestanti fondamentali e di parecchi gruppi anche islamici e ebraici. La
Chiesa Cattolica ha la consapevolezza di essere una religione nata in un'epoca diversa e
in una cultura diversa, però vuole stare al passo col mondo. E' un atteggiamento molto
più prudente, è l'atteggiamento per cui il Papa ha scoperto Bob Dylan trent'anni dopo di
noi, è l'atteggiamento per cui la Chiesa Cattolica ha scoperto Internet con dieci anni di
ritardo rispetto a altre chiese. Però, nel momento in cui lo fa, tenta il compromesso tra
le proprie esigenze tradizionali, le proprie esigenze religiose, e il funzionamento
effettivo di queste tecnologie. Sa di essere nel mondo, ma non del mondo, e sa che queste
nuove tecnologie sono nel mondo e, quindi, man mano, se ne vuole appropriare. La sua
prudenza, la sua lentezza, apparentemente del tutto fuori dai tempi della tecnologia, che
è molto più veloce, in realtà, conserva in sé anche una profonda saggezza. Tutto
sommato, quando noi pensiamo alle tecnologie, forse, ogni tanto, prendere del tempo per
ragionarci sopra è davvero essenziale. Rispetto alle nuove tecnologie abbiamo due tempi
che ci vengono detti: quello dell'opposizione alla tecnologia e quello della accettazione
della tecnologia, istanze riconducibili ai concetti dell'arresto del tempo e del suo
inseguimento. La saggezza dei cattolici di prendere tempo è qualcosa che dovremmo
assumere anche noi, anche perché di treni che si perdono, davvero, non ce ne sono tanti.
Domanda 18
C'è un sito Internet piuttosto curioso, si tratta di un confessionale online. E' stato
realizzato non da preti, ma da alcuni studenti universitari i quali considerano questo
sito come un momento di riflessione e di meditazione. Può offrirci una Sua
interpretazione a proposito di questo fenomeno?
Risposta
Io penso che sia un gioco. Online si imitano e si scimmiottano tutte le possibili formule
della vita sociale. Nella collana che dirigo insieme con Chiara Ottaviano sta per uscire
un libro dal titolo Internet dreams, di Mark Stefik. In Internet dreams un saggio di uno
psicanalista interpreta i sogni online. Questo con la psicoanalisi non ha nulla a che
fare, nel senso che i sogni sono interpretati dallo psicanalista vero, jungiano o
freudiano che sia, in contesti strutturati, organizzati, con tempi lunghi e via dicendo.
In una rete che consuma e che mette in circolo tutti gli aspetti della vita culturale
dell'Occidente, gli aspetti della psicoanalisi, come quelli del confessionale, non
potevano mancare, purché sia chiara la dimensione ludica di tutto questo. Io,
personalmente, non ho niente contro l'uso di metafore di tutti i generi, non ho niente
contro il fatto che in uno stesso luogo si possano incontrare culture tradizionalmente
separatissime. Le culture vivono di fecondazioni reciproche. Le culture muoiono quando
vengono poste delle barriere intorno a loro. La difesa di un patrimonio culturale, di cui
si parla adesso, come se fosse una specie in via di estinzione, è un modo di uccidere
tutte e due le culture: quella che potrebbe essere fecondata e quella che si vuole
difendere. Non sono contrario al fatto che la gente usi i confessionali online allo stesso
modo in cui altri usano la metafora del lettino dello psicoanalista o altro. Deve essere
chiaro che si tratta di un gioco, questo è il punto. Se qualcuno pensa che quel
confessionale online gli offre un'esperienza totalmente sostitutiva del confessionale, che
sia un cattolico o che sia un laico, commette un errore; una persona cattolica commette un
errore perché sostituisce qualcosa in cui egli dovrebbe credere fino in fondo con
qualcosa in cui crede a metà, una persona laica perché crede a metà in qualcosa in cui
non dovrebbe credere, se è coerente con le sue posizioni. Questo del credere a metà,
questa fiducia sospesa, fiducia ludica del "ti credo", "non ti credo",
è forse il male più profondo e più spirituale della rete, è il continuare a gestire un
sistema di relazioni in cui l'impegno apparente è altissimo e le responsabilità non ci
sono. Ecco: credo che politicamente questo sia il rischio maggiore intrinseco alla rete.
Domanda 19
Ma esistono già delle Chiese che hanno aperto dei siti online dove il prete dialoga con i
fedeli. Lei non vede un futuro tecnologico dove veramente, alla fine, non andremo più in
Chiesa, ma ci confesseremo tramite la rete, avremo l'assoluzione online?
Risposta
Onestamente non credo. E sa perché? Perché in realtà, ognuna di queste esperienze è
un'esperienza in più, è un'esperienza diversa. Le potenzialità veramente sostitutive in
queste situazioni sono limitatissime. Non si va in Chiesa soltanto per parlare col prete,
si va in Chiesa per parlare con gli amici, si va in Chiesa perché c'è un quadro a cui
siamo particolarmente affezionati, si va in Chiesa per la passeggiata che ci porta fin
lì, dove c'è la pasticceria buona e al ritorno si comprano i pasticcini. Si tratta di
esperienze complesse, sociali, personali e anche collettive. Non voglio togliere niente
all'aspetto religioso dell'andare in Chiesa, ma voglio ricordare che si tratta di un
fenomeno sociale complesso, e i fenomeni sociali, in sé, sono complessi. I fenomeni
tecnologici, che sembrano sostituirli, in realtà sono aggiuntivi, magari riducono un
aspetto e rinforzano l'altro. Che cosa succederà? Così com'è adesso: quand'è che
scriviamo lettere? Non è che non scriviamo più lettere, anzi, le lettere continuano a
aumentare, ma scriviamo lettere quando abbiamo da dire qualcosa che non possiamo più dire
per telefono. Ci sono delle cose che non si possono dire per telefono e neanche via fax,
che si scrivono per lettera. Forse, un certo tipo di dialogo banale, quotidiano con il
prete, ci sarà via Internet, ma, poi, nei momenti più solenni ci si confesserà sempre
di persona perché si vorrà il contatto personale. E credo che questa sia una regola
generale per la rete. La rete, io credo, complessivamente sostituirà alcuni tipi di
rapporti e ne incentiverà anche altri.
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