INTERVISTA:
Domanda 1
Le riporto una dichiarazione di Regge: "Senza venditori di sogni, la scienza moderna
non avrebbe potuto avere l'impulso formidabile che ha avuto. Oggi è possibile sognare in
rete". Che vuol dire?
Risposta
Io direi che ha ragione lo scrittore William Gibson, quando, nei suoi racconti e romanzi,
parla di una sorta di "muro dei sogni", che può essere anche un ostacolo, non
necessariamente un aiuto. I sogni sono tutti quei programmi audaci che sembrano sfidare la
costellazione delle credenze ricevute, le abitudini acquisite dai ricercatori, ma sono
anche gli stimoli, che ci spingono a guardare più in là, a superare i limiti, posti
anche dal successo di altre prospettive. In questo senso i grandi scienziati, da Galileo a
Bohr ad Einstein, sono stati tutti dei sognatori. E forse è stato un sogno anche quello
di Watson e di Crick, prima di diventare un modello molto specifico e concreto del D.N.A..
E' forse anche un sogno il progetto "Genoma" umano? Cosa vuol dire sognare? In
questo caso vuol dire proiettare una serie di aspettative sul futuro, nella speranza che
queste aspettative si traducano in direttive di ricerca, che permettano di lavorare ad un
grande numero di ricercatori con delle ricadute tecnologiche significative sul breve, o
anche sul lungo periodo. Dico sul breve o sul lungo periodo proprio perché non possiamo
richiedere ad un programma di ricerca scientifico di dare risultati immediati. I risultati
sono apprezzati soltanto dopo, in molti casi, e con una lenta riflessione. Però, con una
serie di strumenti che permetta di vincere i vincoli dello spazio e del tempo, e permetta
una comunicazione estremamente rapida, sfruttando anche le capacità di calcolo di
macchine ultrarapide; tutto questo, naturalmente, potenzia un programma, lo rende - nel
senso migliore del termine- più aggressivo nei confronti delle sue possibili
applicazioni. E questo vuol dire "sognare in rete", vuol dire che, appunto,
un'idea lanciata a Cambridge, in Inghilterra, riceve poi il confronto e il controllo
dell'esperienza da laboratori sparsi in tutto il mondo; poi, negli Stati Uniti, i dati
vengono reinterpretati, ripuliti, e quindi riutilizzati per corroborare la teoria. Mentre
noi stiamo parlando, ci deve essere, da qualche parte, una sonda spaziale che sta
esplorando alcune regioni interessanti del nostro sistema solare, i cui dati vengono
mandati ai laboratori analitici di mezzo mondo; questi laboratori sono già collegati tra
di loro, e la comunità scientifica, può -insisto- in tempi molto brevi e senza eccessive
limitazioni di spazio, già fruire di queste importanti informazioni. Questo vuol dire
"sognare in rete".
Domanda 2
Qualcuno aveva sognato la possibilità di tutto questo prima che si realizzasse?
Risposta
Ah, sì, certamente! Cito ancora William Gibson, questa volta insieme con Bruce Sterling,
che hanno dedicato un bellissimo romanzo che in italiano è stato pubblicato da Mondadori,
intitolandolo La macchina della realtà. In inglese il titolo è The differential engine,
"Il congegno differenziale". Si tratta di un omaggio a Charles Babbage, il
grande matematico britannico, che nella prima metà dell'Ottocento - grosso modo tra gli
anni 30- '40-, inventò una macchina calcolatrice, che è considerata l'antenata del
computer attuale. La struttura "hard" era diversa e ci furono delle gravi
difficoltà nel passare dal progetto alla pratica. I due scrittori si inventano
un'Inghilterra in cui questo salto tecnologico è stato compiuto; c'è lo scenario di
un'Inghilterra che è veramente padrona del mondo, non soltanto grazie alle sue navi, ma
anche grazie ai suoi calcolatori. Naturalmente, con il risvolto anche minaccioso della
questione: l'apparato calcolistico e comunicativo, messo insieme, l'abbinamento di
computer e di telecomunicazione, diventa un grande strumento di controllo mondiale di
tutti i cittadini del nostro pianeta. Anche questa è un'intuizione storicamente esatta.
Perché? Per molti di coloro che hanno concepito l'idea di trattare la conoscenza con
delle macchine, prima ancora di Babbage, come, per esempio, il filosofo Leibniz, o il
matematico e filosofo e mistico Pascal, avevano sempre l'idea che la casualità della vita
e l'incertezza potesse essere controllata da strumentazioni razionali. Meglio se questo
lavoro di controllo può essere demandato ad un macchinario. Quindi, c'è un'idea di
controllo, evidentemente, sottostante, che può essere controllo della natura, ma anche
quelle particolari parti della natura che sono gli altri uomini. La statistica è una
creazione dei matematici, è anche però una creazione dei politici e dei poliziotti, che
devono controllare dei disturbi sociali. Questo è stato mostrato magnificamente dal
filosofo della scienza e storia della scienza Jan Hawking in un bel libro, che si intitola
Il caso domato. Questo testo mostra, appunto, come le due strade, il controllo del caso,
il domare il caso, ma anche l'occhio attento del potere sulla società vanno di pari
passo. E quindi è uno scenario, come dicevo, estremamente interessante, ma anche
estremamente inquietante, sebbene io non creda che oggi le reti multimediali siano
necessariamente il grande fratello - credo che questa sia una visione abbastanza desueta
perché queste reti nascono come sistemi senza centro, come la stessa Internet, e si
trasformano, hanno una grande capacità di trasformazione dovuta a tutta una serie di
stimoli che provengono da aggregazioni locali. Ed è il contrario dellidea che una
volta si aveva della informazione, controllata da un centro, che poi manda il suo
messaggio ad una periferia che recepisce passivamente. Direi che, qui, ognuno si
costruisce i propri mezzi per navigare nel "cyberspazio" e questo è
soprattutto, a mio avviso, più che una possibilità ideale, una possibilità ormai
aperta, proprio grazie ai recenti sviluppi dell'informatica leggera.
Domanda 3
Remo Bodei, nel suo saggio parla dei rischi di "un pensiero unico": di un
pensiero ormai dominato dalle oligarchie, che, in fondo, esercitano un controllo
economico, ma anche la struttura sociale, creando una sorta di omogeneizzazione. Nel
processo di globalizzazione c'è questo rischio? Le culture locali riusciranno ad
affermarsi?
Risposta
Io credo che il problema della rete sia proprio quello di una grande contrapposizione
intellettuale, che i matematici conoscono bene in termini astratti: quella tra locale e
globale. Mi sembra che, da una parte, strutture come la stessa Internet, nascano da una
serie di trasformazioni locali, che garantiscono che manchi una gerarchia autoritaria,
centrata su alcuni punti decisionali da cui le periferie dovrebbero passivamente
dipendere. Questo è un elemento di democrazia. Io simpatizzo con coloro - Negroponte,
Gilder, per altri versi, lo stesso Gibson -, con questi poeti-profeti del
"cyberspazio", quando dicono che è un'"esperienza democratica",
perché non si tratta soltanto di una struttura democratica, ma anche di un'esperienza di
democrazia che l'utente vive. Tra l'altro, appunto, grazie all'informatica leggera,
l'utente, il consumatore, può diventare anche produttore. Quindi, una divisione
"standard" del vecchio consumismo, la divisione tra produttore e consumatore,
qui viene a sfumare sullo stesso aspetto di attività, appunto. Io mi costruisco il mio
personale itinerario, posseggo un programma di base, snello, a cui posso inserire poi, col
sistema di "metti la spina", il "plug in", una serie di programmi più
specializzati, e costruisco la mia strada. Non so, scelgo, per esempio, grafica
tridimensionale se sono architetto; scelgo, invece, programmi di telemedicina se ho un
problema in un paese sottosviluppato, per dare nozioni di basi di medicina, igiene e
profilassi. Quindi, evidentemente, si possono creare strutture di ricerca, individuali o
anche di gruppo, estremamente flessibili e diversificate. In questo senso ritengo che
Internet sia un esperimento democratico. Però, non è per tornare sempre al passato, nel
dialogo di epistole tra John Stuart Mill e Toqueville, viene fuori un paradosso strano che
in molte strutture complesse, con molti agenti, pur non essendoci una fonte di conoscenza
di potere unica, e pur non essendoci un tiranno, nel senso tradizionale, che impone i
propri voleri e i propri valori, nonostante questo si tende, poi, in tempi relativamente
brevi, a stabilizzare una sorta di opinione pubblica abbastanza conformista. Il pericolo
dell'omogeneizzazione, dell'omologazione, del livellamento sulle cose più facili e
usuali, credo sia una sorta di tentazione presente nella stessa democrazia. Ciò che era
criticato da un amante della democrazia come John Suart Mill, era la tendenza al
conformismo che emergeva in America, -nell'America democratica che aveva visitato
Toqueville- e il pericolo di una tirannia dell'opinione pubblica, oppure della
maggioranza. Ma, naturalmente, queste persone cosa avevano in mente? Avevano in mente
subito la stampa, la comunicazione attraverso i giornali, le riviste, le assemblee. Adesso
noi abbiamo giornali per tutto il mondo, che uno si fabbrica e si disfa, e, in qualche
modo, la rete ci mette in condizione di parlare anche a un'assemblea mondiale,
ritagliandoci il nostro sito. Io credo che, da questo punto di vista, le preoccupazioni di
chi ha intravisto un pericolo di conformismo globale, siano reali e sensate. Ma, di nuovo,
in questo caso, occorre fare appello a una componente, che sarà forse di minoranza nella
nostra storia - però c'è stata ed è credo ancora presente - che è il senso della
libertà per differenza. E' il tipo di utente produttore della rete, che noi desideriamo,
che dobbiamo con fatica costruire, naturalmente costruendo anche per primi su noi stessi.
In questo senso io credo che una delle grandi tensioni sarà proprio quella tra libertà
per differenza, da una parte, e la tendenza, invece, all'omologazione, ad un linguaggio
comune, e quindi sciatto, a gerghi locali che non sono un'esaltazione delle differenze, ma
un ulteriore impoverimento. Certo, questa è una delle grandi ragioni per cui ritengo che
bisogna essere, nello stesso tempo, interessati, aperti ai nuovi strumenti di elaborazione
e di comunicazione, ma, nello stesso tempo, fortemente diffidenti. Il sospetto è un bene
in molti casi. Come dice il Vangelo: "Siate, nello stesso tempo, teneri come colombe,
ma anche sospettosi come serpenti".
Domanda 4
E, a proposito della globalizzazione, ancora Bodei parla dell'ipotesi di un'etica
universale, di unetica planetaria. Sulla base di che cosa sarebbe possibile un'etica
planetaria? Questa libertà delle differenze potrebbe essere un limbo?
Risposta
Il tema del locale-globale, questa contrapposizione, che è una contrapposizione che può
essere concettualizzata anche a livelli di molto astratti, è evidentemente anche un
grande tema dell'avventura umana su questo pianeta. Prendiamo, per esempio, le religioni.
Esse hanno una portata universale, almeno alcune religioni potenti, cattoliche, nel senso
di universali, non tutte, ma molte sì. La tradizione ebraico-cristiana ha creato una
religione, anzi più di una versione di questo progetto universale. La stessa cosa
lha creata il pugno dell'Islam. Però, le religioni sono nello stesso tempo
fortemente condizionate dalle esperienze locali da cui son partite, da un linguaggio, da
una tradizione che non è la tradizione di tutte, la tradizione di un particolare popolo o
gruppo o insieme di popoli. Forse l'esempio più interessante, invece, di globalizzazione,
è costituito dalla scienza, dalla tecnica, che, certo è un fenomeno molto particolare e
specifico. E' nato nell'Occidente europeo, e il filosofo Edmund Husserl diceva che la
scienza è la forma della coscienza europea, però capace di riprodursi altrove. Ecco: sta
oggi condizionando lo sviluppo del nostro paese. Sarà possibile anche per la morale o per
l'etica? I filosofi della morale hanno sognato un'etica universale, e penso a Kant. Però,
ogni volta che viene presentata un'etica universale, questa diventa un'etica puramente
formale. Proprio il caso di Kant è significativo, il caso di alcuni filosofi neokantiani,
gli attuali tedeschi, italiani, americani. Perché, quando si vuole fare una proposta
morale, questa non può che riguardare le forme dell'agire e del comunicare, non i
contenuti. per cui rischia di essere - o forse il suo momento è quella di essere-
puramente formale. Può essere un'etica della responsabilità, ma poi ciascuno è
responsabile delle singole scelte che ha fatto. Può essere un'etica dei valori, ma non
nel senso che alcuni valori son più validi di altri; piuttosto un'etica del rispetto,
anche di valori diversi dai nostri. Ci stiamo sempre di più arretrando sul piano formale.
Questa, insisto, non è una sconfitta, ma una grande conquista della modernità. Per
questa ragione Kant è il grande filosofo della modernità, a mio avviso. Dubito che si
possa invece arrivare ad una sorta di morale sostanziale, valida per tutti gli uomini. E
non credo che un'etica sostanziale di questo tipo sarebbe fattibile. Forse non sarebbe
nemmeno auspicabile; sarebbe una forma di conformismo, magari imposto nel nome di cose che
a noi piacciono molto: le nostre forme democratiche, il nostro stile di convivenza, il
nostro modo di dialogare, che sono valori nostri però, che altre civiltà e tradizioni
non hanno o hanno in modo diverso. Penso, per esempio, alle grandi tradizioni delle
culture orientali, che non hanno così fortemente potenziato il nostro senso della
responsabilità, perché siamo però agenti in un mondo che trasformiamo. Credo, quindi,
che sarà difficile dare dei contenuti specifici a schemi che sono generali, semplicemente
piattaforme per coesistere. Ma oltre a piattaforme per coesistere, non credo che si
possano imporre valori a cui peraltro noi, io ed altri amici, voi che mi fate
quest'intervista, crediamo; imporre la democrazia con le armi, imporre il progresso con le
armi provoca le reazioni più o meno violente di chi si sente invaso, come quei ribelli
spagnoli, che nel film di Bunuel resistono agli invasori francesi che vengono in nome dei
sacri principi dell' '89, e gli gridano: "Abbasso la vostra libertà". Credo,
pertanto, che in molti casi, forse, la mossa morale migliore è quella dell'astenersi, del
non intervenire. Naturalmente, questa, non è una mossa sempre possibile, perché se noi
ci troviamo di fronte a tradizioni che sono violente, che sono aggressive, non possiamo
semplicemente invocare un argomento relativistico, per dire: "Beh, tutto va bene e
quindi ce ne laviamo le mani". Io credo che la globalizzazione comporti, proprio
nelle sue tensioni morali, anche delle possibilità di reale scontro drammatico. D'altra
parte, la storia umana è stata sempre drammatica. E l'idea di poter avere una ricetta
morale con la quale estirpare il male ed imporre il bene, è un'idea ricorrente nelle
illusioni dei filosofi, ma è un'idea o pericolosa o irrealizzabile, tanto più pericolosa
e irrealizzabile in un momento in cui la scienza e la tecnica mostrano le loro capacità
di cambiamento soprattutto al livello di cose abbastanza astratte e impalpabili, ma in
realtà molto importanti, come sono l'informazione e la conoscenza. Come diceva un mio
grande amico, quel grande maestro che era Paul Feyerabend: "se noi riuscissimo a
impiantare in tutti il bene come poi potremmo tornare al male?"
Domanda 5
Stefano Rodotà, recentemente, parlando di alcuni dei rischi della diffusione delle
tecnologie dell'informazione, denunciava il pericolo della nascita di un'"apartheid
informatica", descrivendo la differenza tra chi può accedervi e chi non può.
Risposta
In molte occasioni mi è stato chiesto cosa ne pensavo dei possibili e futuri contrasti in
questo tormentato mondo alle soglie del Duemila. E la mia impressione è che uno dei
grandi contrasti - non l'unico, naturalmente -, sarà tra chi conosce e chi non conosce,
tra chi ha certe informazioni e chi non le ha, e che, comunque, l'informazione possa
giocare un ruolo essenziale anche nel denunciare forme di oppressione, molto arcaiche, ma
anche molto presenti nel nostro mondo. Se in un paese viene applicata, per esempio, una
politica di arresto illegale - e questo succede nella stessa Europa -, una rete
informatica può avere un grande ruolo nel denunciare questo tipo di arbitrio, comunicarlo
nel resto del paese coinvolto e, a sua volta mandare questa informazione a strutture di
difesa, di garanzia dei diritti individuali dei popoli. Per creare, però, questo tipo di
strutture bisogna avercele e bisogna saperle usare. Io credo che, in quello che c'è di
provocatorio in certe battute - parliamo proprio di battute di Negroponte -,
l'amministrazione americana, invece di pagare il sussidio di disoccupazione, dovrebbe,
almeno alle fasce giovani dei disoccupati, dare loro un piccolo computer, leggero, e
mettergli a disposizione dei programmi. Questa è una battuta che ha un suo senso, che è
quello che diceva una volta William Gibson, in un intervento nel '93 a Washington, quando
fece tre modeste proposte. La prima: che le scuole pubbliche avessero accesso alla
telefonia lunga distanza, ad accesso libero, che fosse fornito gratis un insieme di
programmi, di computer disponibili sul mercato nazionale, e che queste due norme fossero
messe in atto per le scuole pubbliche; ma che non fossero estese necessariamente - terza
modesta proposta - alla struttura privata. Questo dimostra proprio come un punto forte,
nel senso di una grossa sfida, consiste nel colmare la lacuna tra chi saprà maneggiare e
scegliere nell'informazione e chi, invece, non saprà farlo. Credo che le tre modeste
proposte di Gibson, nel '93, a Washington, andassero in questa direzione. Il che vuol
dire, tra l'altro, favorire l'istituzione pubblica; vuol dire, insomma, venire incontro ai
più svantaggiati. Pensare al servizio pubblico nella migliore tradizione occidentale -
quella di Kant, di John Stuart Mill -, come una struttura non che monopolizza tutto - in
questo caso l'insegnamento -, vuol dire fornire dei buoni spazi per coloro che,
altrimenti, ne sarebbero tagliati via. E questi spazi che vengono forniti, devono essere
forniti a livello di eccellenza. Mi sembra, dunque, un problema importante questo della
contrapposizione tra chi ha informazione e si sa muovere con essa, e chi non ce l'ha o non
si sa muovere, non è capace di muoversi; credo che sia appunto una contrapposizione che
può avere dei risvolti estremamente drammatici. Non c'è niente di peggio, credo, dell'
"apartheid" in un qualche senso, conoscitivo o informatico; è una forma nuova
di razzismo, a mio parere, e proprio per questo occorre lavorare nella direzione che ne è
contraria. Molto può fare il giurista. Molto può fare chi è attento alla "common
law", alla "legge consuetudinaria" e al modo con cui si correggono le
tradizioni, l'una con l'altra, usando, appunto, lo strumento della legge, il quale, tra
l'altro, non è uno strumento statico, ma anche questo in evoluzione. Quindi, la
preoccupazione giuridica che certi amici come Stefano Rodotà esprimono, mi sembra
perfettamente fondata, e mi sembra, però, uno stimolo per lavorare in questa direzione.
Forse ci si apriranno anche nuove forme di comunicazione e di collaborazione tra il
giurista e il matematico e l'informatico.
Domanda 6
Rifkin, nel suo saggio "La fine del lavoro" parla di un mondo futuro diviso fra
un' "élite" di "knowledge workers" e la grande massa di disoccupati.
E' anche questo un rischio reale , o si tratta di una visione fin troppo apocalittica?
Risposta
Questa è una domanda a cui non facile rispondere. Ogni grande innovazione tecnologica
degli ultimi duecento anni ha visto il pericolo della disoccupazione. Quindi si crea una
nuova "élite" contro , invece, uno strato di disoccupati. Questo non è valido
soltanto per i media, di cui noi ci stiamo occupando, non soltanto per l'abbinamento tra
computer e telecomunicazioni, di cui abbiamo parlato, non soltanto per le applicazioni
dell'informatica al mondo del lavoro, non vale solo per i dibattiti, che adesso stanno
diventando molto numerosi, anche tra i sociologi, tra chi è fautore del telelavoro, e
chi, invece, non lo è. Mi sembra che questi siano interregni. Ma è una preoccupazione
più antica, che ha accompagnato tutta la prima, grande Rivoluzione Industriale. Io me la
caverei con una battuta: tanto luddismo, tanta preoccupazione apocalittica nei confronti
della tecnologia secondo me funziona poco. Non vorrei che tutti si mettessero, poi, per
rabbia a bruciare le macchine o a distruggere. Però un po' di luddismo fa bene, un po' di
luddismo nella società industriale avanzata ha fatto bene nell'Ottocento. Un po' di
luddismo, o "telecosmo", nella società dell'informazione, anche quello fa bene,
naturalmente usato con molta intelligenza, come diceva il filosofo Imre Lakatos: si può
anche mettere da qualche parte un po' di polvere, poi il problema sta se si accendono le
micce giuste.
Domanda 7
Il Centro Studi "San Salvador", nel preparare il materiale di questo Convegno,
fra le altre cose denunciava un ritardo dell'Europa rispetto agli Stati Uniti,
individuandone alcune cause. Quale, a Suo avviso, è prevalente fra le tre che loro
individuavano: la mancanza di alfabetizzazione, la mancanza della mancata liberalizzazione
dei mercati o la mancanza di integrazione reale ed effettiva fra informatica e
telecomunicazioni?
Risposta
Credo che tutte queste tre cause abbiano la loro parte di responsabilità in questa strana
contrapposizione, per cui si dice: l'Europa ha le grandi idee. Si inventa, o si escogita
in Europa, però quando si devono fare delle applicazioni o delle realizzazioni concrete
vincono gli americani. Credo che giochino in questo ritardo europeo, intanto alcuni limiti
dovuti alla fermentazione dell'Europa, non solo in stati-nazione, ma anche in
frammentazioni di interessi economici, che sono più volte concorrenti tra di loro. E'
chiaro che, la struttura economica europea, anche le strutture statali europee, statuali
europee, son diverse da quelle americane. Io non voglio dire con questo che l'Europa debba
copiare gli Stati Uniti immediatamente; anche perché la organizzazione statuale americana
- stato e poi federazione di stati - e la stessa integrazione economica da cui sono nati
gli Stati Uniti, hanno avuto bisogno non solo di una Guerra d'Indipendenza contro la Gran
Bretagna, ma anche di una furiosa guerra civile nel secolo scorso. E poi ci son stati non
pochi travagli nella formazione degli Stati Uniti come adesso noi li vediamo. Questo
gigante democratico, però, è inquietante per noi europei. D'altra parte, io non amo,
come Lei dovrebbe aver capito, non ho molta simpatia per lo stato-nazione in se stesso.
Credo sia stato uno strumento molto importante nella formazione dell'Europa, però gli
strumenti sono un po' come il serpente di bronzo nella Bibbia: va bene se servono, in quel
caso, ad una particolare crisi del popolo ebraico, travagliato da rettili e altre
bestiacce, mentre faceva la sua migrazione nel deserto. Però, se poi diventa un simulacro
a cui tutto si sacrifica, va bene che uno dei giudici lo abbatta. Per prendere la metafora
biblica in modo serio, direi questo: l'Europa deve lavorare ad una maggiore integrazione,
compreso una possibilità maggiore di mobilità e di flessibilità dell'intelligenza
scientifica. Non è un caso - mi raccontava una volta il matematico Giancarlo Rota, che è
italiano, ma lavora al M.I.T. -, che quando lui venne in America, gli furono presentati i
suoi colleghi, e poi scoprì che si conoscevano tutti, perché uno era inglese, uno era
italiano, molti erano polacchi, alcuni erano tedeschi, molti erano intellettuali ebrei.
Insomma, voglio dire: l'Europa lascia un po' sfuggire la sua intelligenza che poi viene
ritrovata in America. E, naturalmente, poi, questa intelligenza interagisce in modo
fecondo con l'intelligenza locale. Quelle tre cause sono, a mio avviso, tutte e tre
presenti. E questo, naturalmente, produce un impatto sullo sviluppo tecnologico. Noi
sappiamo che figure come Jim Clark, l'uomo di "Netscape", sono figure
tipicamente americane, un bell'esempio di mentalità americana, di intraprendenza
americana. Sarebbe stata possibile una carriera come quella di Jim Clark, non dico in
Italia, ma in Europa? Questa è la domanda che dobbiamo porci in maniera piuttosto
concreta. E allora non dobbiamo stupirci che alcune punte alte della ricerca europea - e
ci sono, in Europa, dei centri di eccellenza notevoli -, poi, però, si sentano abbastanza
sconnesse tra di loro e non abbiano una rete - per tornare a una metafora che si usa
abitualmente in questi discorsi - adeguata in cui operare. Prendo una metafora, cambiando
naturalmente e adattandola al contesto, di Gilbert: in molti casi l'Europa è come una
grande e bella fabbrica di macchine automobili, che crea dei congegni perfetti, delle
macchine con molti strumenti utili, con parecchi giochini interessanti. Però, se non c'è
un'autostrada su cui far correre la macchina e stiamo su una strada di campagna, facciam
fatica. Non so se mi sono spiegato. Ma prendiamo queste mie riflessioni come mutate, come
provocazioni. Io non mi sento di dare un giudizio da studioso, esperto di scienze sociali.
Prenda queste mie considerazioni come un giudizio di uomo della strada, che ogni tanto
mette il naso in qualche stanza della ricerca.
Domanda 8
Eppure Europa, Stati Uniti e Giappone hanno insieme il 90% della "Information
Communication Technology". E il resto del mondo?
Risposta
Io credo che uno dei problemi di questo fine millennio, come anche molti altri hanno
osservato, é il confine, in molti casi anche rigido, tra paesi che sanno convertire
informazione in ricchezza e ricchezza in informazione e i paesi in cui questo processo non
è stato agito. Però, stiamo attenti: da una parte c'è una previsione pessimistica da
parte di alcuni studiosi di geografia umana, della dinamica delle popolazioni, dello
sviluppo e del sottosviluppo, i quali dicono che, anche se alcuni paesi "in via di
sviluppo" riescono a colmare una lacuna già esistente, nel tempo in cui la colmano,
gli altri paesi sono andati avanti e quindi questa lacuna, anche con tutta la migliore
buona volontà, non viene colmata. Alcuni paesi sembrano condannati a questo, altri credo
di no. In molte pieghe, poi, la storia sorprende e smentisce le previsioni degli esperti
di geopolitica, di geografia economica, di storia stessa. Era prevedibile il successo di
certe storie del sud-est asiatico che non coincidono necessariamente con il Giappone, o
con l'area d'influenza del Giappone e possono diventare anche dei concorrenti del
Giappone. Cosa ci riserverà questa scatola nera inquietante, ma ricchissima come cultura
e anche come flessibilità intellettuale per molti versi quale é la Cina? Uno storico
della fisica, che si chiama Alan Crommer ha scritto un bel libro sulla natura eversiva
intellettualmente della scienza; egli sostiene che la Cina aveva tutte le potenzialità
per abbinare scienza e tecnologia, come ha fatto il nostro Occidente, e fu bloccata da una
"élite" di Mandarini, di burocrati, perché incapace di usare l'abbinamento
scienza-tecnologia per rinnovarsi, ma abbastanza intelligente da capire che questo
rinnovamento, se si fosse prodotto sulla burocrazia cinese, avrebbe segnato la fine di
quella burocrazia. E quindi spensero questo processo coscientemente Sarà la nuova
burocrazia cinese, successiva a Deng, capace di fare quel salto che la burocrazia di
qualche secolo prima non ha fatto, o sarà esattamente la stessa cosa dei vecchi
Mandarini? Questa è una domanda a cui io non ho una risposta. Cosa faranno, per esempio,
i paesi dell'Africa? Alcuni sono travagliati da crisi durissime. Ma il Sud Africa di De
Klerk prima e di Nelson Mandela poi, possiede delle "chance" molto interessanti.
Che cosa verrà dall'India, che sembra, per molti versi, un paese sottosviluppato, ma che
è un paese, a mio avviso, di un'intelligenza teoretica sottilissima e di una profonda
cultura a cui noi occidentali siamo molto debitori. Queste carte possono essere ancora
tutte rimescolate e chissà che forse si possa anche realizzare uno strano accoppiamento
tra spiritualità e computer. E' difficile far previsioni, però è bello tentare, anche
nel dialogo, di prospettare vari scenari, perché ci permette forse non di prevedere e
controllare il futuro, però di capire di più noi stessi. Ed è già qualcosa.
Domanda 9
A proposito di spiritualità al computer, nell'Occidente cristiano è stata predicata, per
secoli, la separazione della mente dal corpo, attribuendo alla prima un valore positivo
che il corpo invece limitava. E possibile che attraverso reti telematiche si
riscopra una sorta di religiosità mentale?
Risposta
Io credo che il calcolo ci faccia riscoprire il corpo, e la geometria ci faccia di nuovo
riscoprire il corpo. Quando Archimede scopre la famosa legge che sta alla base
dell'idrostatica, la scopre facendo il bagno, la scopre con il suo corpo. Molti dei nostri
atti di vita quotidiana - quando camminiamo, quando ci prendiamo un oggetto, quando ci
orientiamo nello spazio intorno a noi -, sono dei conti operati secondo regole matematiche
della proiezione geometrica, anche se molti sono inconsapevoli. E importante avere
una nuova consapevolezza di questo aspetto computazionale, geometrico, che noi ci
portiamo. Noi siamo macchine calcolanti nel senso metaforico del termine -"automa
spirituali", diceva Leibniz -, però calati in un corpo. Abbiamo non solo la mente,
ma mani, dita per contare, abbiamo una mano che può disegnare, oppure abbiamo lo schermo
di un computer, su cui possiamo far apparire una simulazione di una situazione
tridimensionale, però su una superficie piana. Questo tipo di abilità è, a mio avviso,
molto importante. E' importante riscoprire la natura corporea, fisica, biologica della
nostra stessa conoscenza. Questo non vuol dire esser brutalmente riduzionisti e dire
semplicemente che l'arte, la poesia o la matematica pura sono soltanto delle scariche
d'elettricità nel cervello, come dicevano, in modo grottesco, alcuni positivisti del
secolo scorso; e nemmeno necessariamente sposare quei programmi che sostengono che l'uomo
sia un computer un po' più sofisticato. Guarderei, però, positivamente al fatto che il
corpo è uno strumento di conoscenza e può essere uno strumento di spiritualità. Forse,
oggi, noi siamo in grado di capire tradizioni come quelle di un certo tipo di misticimo,
non necessariamente solo orientale, ma che si è avuto anche in Occidente, che riesce,
lucidamente, a legare mente e corpo, senza più viverle come due realtà contrapposte. La
mente è alta, eccelsa e il corpo fa schifo. Non è vero. Io ritengo che la corporeità
sia un profondo strumento di geometria. Non so se mi spiego. Su questo argomento, credo
che ci siano state intuizioni molto belle in un matematico italiano che aveva degli
interessi per la filosofia: Federico Enriquez. Enriquez, naturalmente, non viveva
nell'età dei computer. Ha scritto delle pagine molto belle sul rapporto tra la nostra
fisiologia e la nascita del modo di vedere geometrico. Queste sono intuizioni che
andrebbero riscoperte. Sa cosa dicevano nel Seicento alcuni filosofi, poeti e anche
credenti? Che Dio se c'è è corpo. Lo diceva l'ateo materialista Thomas Hobbes, ma lo
diceva anche il grande fisico e credente lettore, appassionato della Bibbia, Isacco
Newton. Credo che in questo ci sia, naturalmente - a parte la provocazione della battuta,
ovviamente -, un granello di verità profondo. Noi dobbiamo tornare ad amare di più il
nostro corpo. Il che non vuol dire naturalmente darsi alla palestra. Ma vuol dire capire
nel nostro corpo quali sono i nostri limiti, ma anche imparare a lavorare pazientemente
sui nostri limiti. In questo senso il corpo può essere anche uno strumento non solo di
comprensione dell'ambiente che ci circonda, ma anche di critica. Sopra questo argomento,
due autori, direi, molto profondi, anche se molto diversi, come Gilles Deleuze e Michel
Foucault, hanno detto delle cose molto interessanti.
Domanda 10
A proposito delle possibilità del corpo di recepire gli stimoli, in una società nella
quale i mezzi di comunicazione si stanno moltiplicando, oltre a moltiplicare le loro
potenzialità rispetto al singolo mezzo, non c'è il rischio che la somma di informazioni
urti con la possibilità di riflessione dellindividuo?
Risposta
Il matematico Renè Thom, che è passato alla storia come l'inventore della teoria delle
catastrofi, in realtà è un grande matematico. La cosidddetta teoria delle catastrofi nel
senso tecnico è semplicemente uno dei tanti prodotti della sua genialità; si fece molti
nemici. Una volta, all' Académie des Sciences, a Parigi, in una seduta, di fronte a molti
ricercatori di fisica e di biologia soprattutto, i quali tiravano fuori tabelle di dati,
Thom intervenne dicendo: quello che limita la verità non è il falso, ma
l'insignificante: morire per l'eccesso di dati. Tanto più che si potrebbe avere il
sospetto che l'eccesso di multimedialità, invece di portare ad un potenziamento, porti a
un depotenziamento. L'uomo, cioè, si trova prigioniero della macchina che ha costruito.
Questo è un tema classico nella storia della tecnologia, che giustifica, a mio parere,
anche alcune reazioni di luddismo. Perché, alcune lezioni di luddismo sono espressione,
in qualche modo, quantomeno di un disagio, di un disagio profondo e reale. E quindi non si
possono accantonare, dicendo semplicemente: "Ah! ma sono resistenze alla
modernità!". Le resistenze alla modernità vanno capite, non liquidate; vanno capite
per quello che sono o per quella spia di senso che possono portare. E, naturalmente, la
questione del senso si ripropone in tutta la sua drammaticità. Non credo di avere una
risposta. Qual è il senso della vita? Chiediamolo ai Monty Python che fecero un bel film,
intitolato The meaning of life.
Domanda 11
Ed in tal senso, questo stimolo di informazioni coinvolge, per certi versi, in maniera
più forte rispetto ai singoli individui, quelli che dovevano compiere delle scelte
politiche?
Risposta
Io ho l'impressione che ci sia una tensione molto forte tra politica e tecnologia. E' una
tensione che ha già sperimentato addirittura il mondo classico, ai tempi della diffusione
della comunicazione scritta, che naturalmente cambia la situazione dell'uomo politico di
allora, che era un oratore, che possedeva, in ogni caso, la comunicazione orale. Di
conseguenza, cambia il senso stesso della città. Questo senso di fine si pone benissimo
in Platone. Non dico niente che non sia stato già detto. Credo che adesso si riproduca lo
stesso problema, intendendo, per riprodurre qualcosa di diverso. Il grado di complessità
e l'intreccio di conflitti cambia in queste attuali situazioni. Quello di oggi è molto,
forse, più globale della crisi della piccola Atene di Platone o anche dell'Inghilterra
del Seicento, in cui John Milton da solo o con pochi altri, difendeva la libertà di
stampa contro tutti i censori bigotti con cui era entrato, giustamente, in polemica. Io
credo che ci sia una tensione molto forte tra le forme politiche, che hanno una tendenza a
perpetuarsi, a conservarsi, e l'impatto dirompente delle tecnologie, specialmente delle
tecnologie dell'informazione. Credo che queste ultime sian destinate a rimettere in
discussione le competenze dei singoli politici: la creazione di organismi di controllo
legati alla forma dello stato nazionale, e via discorrendo. Per essere concreti, è
interessante osservare come una motivazione politica evidente fosse alla base dell'atto
sulla decenza della comunicazione, presentato da alcune forze degli Stati Uniti, e
appoggiato dallo stesso Presidente americano. Questi politici sono stati sconfitti.
Perché, cosa vuol dire che sarà punito con almeno due anni chi ha mandato in rete delle
immagini considerate contrarie alla decenza? E' la vaghezza di quest'informazione che ha
permesso al magistrato di trovare incostituzionale, alla luce delle lezioni degli Stati
Uniti, questo atto, e quindi l'ha cassato, l'ha cancellato. Ciò è interessante perché
rimette in gioco, a mio avviso, la magistratura, il ruolo del magistrato, che è molto
importante, e quindi l'aspetto del diritto come incapacità di adattarsi al cambiamento.
La tradizione anglosassone della "Common Law", mette questa tradizione in una
posizione di mediazione tra le esigenze di apertura di certe forme di comunicazione e le
preoccupazioni del politico, che vuole stabilità, legame a valori riconoscibili
facilmente ad un certo conformismo di base, che, appunto, sono le forze della stabilità
del politico. Non credo che il conflitto sia finito con l'episodio da cui abbiam preso le
mosse. Sarà un grande conflitto questo tra tecnologia e politica, tra forme espressive da
una parte e gestione del potere più tradizionale dall'altra. In questo senso io non
nascondo un po' di simpatia verso i pirati dell'informatica e coloro che scardinano certe
forme di chiusura, perché fanno oggi quello che facevano i libellisti, i più pornografi,
ma anche certi eretici pericolosi quando riuscirono a far passare la libertà di stampa
nella società inglese del Sei-Settecento. Poi, questa società vanta la sua libertà di
stampa, ma si dimentica che fu una conquista di alcuni "pirati" contro
l'"establishment". In questo senso io nutro simpatia per gli hackers.
Domanda 12
Fra i detentori del "potere" vi sono anche i detentori del sapere. Queste nuove
tecnologie mettono in crisi anche questo ruolo, a diversi livelli. Se l'intelligenza
diventa intelligenza collettiva non scompare il ruolo dell'autorità?
Risposta
L'idea che coloro che rappresentano le linee del sapere, e poi si perpetuano attraverso
l'insegnamento, si trovino messi in difficoltà dagli sviluppi tecnologici è un'idea
molto interessante, specialmente da questo tipo di tecnologia, perché si tratta di una
tecnologia che, per certi versi, può essere più micidiale di qualunque arma fisica,
abituale. Questi insegnanti, questi tecnocrati vecchio stile, anche grandi o anche
prestigiosi dell'impero scientifico, possono trovarsi in crisi. Lo credo, perché, con una
comunicazione molto rapida in rete possono cambiare, per esempio, anche i canoni con cui
si dà un riconoscimento di prestigio. Per esempio, alcuni sociologi della conoscenza
insistono sul fatto che una certa resistenza della comunità scientifica verso queste
nuove strutture sta nella convinzione che il sistema funzionava meglio per la garanzia
della carriera individuale: mandare degli articoli a delle riviste, comunicare in ambiti
abbastanza ristretti e muoversi, insomma, con le regole della vecchia accademia. A maggior
ragione questo accade nell'insegnamento. Il problema, come si può capire, è estremamente
complesso e estremamente però importante, perché, per citare il vecchio Nietzsche,
stiamo attenti all'avvenire delle nostre scuole. Avvenire molto incerto e non sempre direi
sereno, anche per le condizioni generali dell'istruzione, non dico solo in Italia, ma
anche nell'Europa. Ancora adesso si parla di un insegnante o di un esperto che deve
dominare la propria materia. Ecco: io credo che questo dominare non esista, che sia
un'illusione, e che, curiosamente, è proprio lo sviluppo di tecnologie che possono essere
utilizzate anche a fini di controllo e di dominio che produce quest'incubo. Lo dicono
forse, molto meglio di noi, alcuni scrittori di - possiamo chiamarla ancora -
"fantascienza". Questo tipo di dominio però può essere messo in crisi dagli
strumenti del dominio stesso. Gli strumenti servono per controllare, ma chi controlla gli
strumenti? Credo che gli insegnanti, i professori debbano rinunciare a dominare. Qui si
tratta di muoversi rapidamente, ed avere la capacità di sapersi togliere, quand'è il
momento, una certa sana diffidenza e prudenza. Non so se vi ricordate quella storia
dell'insegnante - credo che fosse una storia di Walt Disney - in cui Paperino insegnante
fa il dominatore e batte sempre i pugni sul tavolo; poi, i ragazzini gli mettono, dove
batte il pugno, un chiodo. Non vorrei che questa fosse la sorte di molti dominatori della
cultura, che poi si trovano a sbattere il pugno su un bel chiodo informatico, che non è
così fisico, come il chiodo d'acciaio, ma fa male, può fare anche male.
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