INTERVIEW:
Domanda 1
Al Convegno dell'Ansa "L'informazione su misura", lei ha dichiarato che, a
proposito dell'evoluzione dei media, molte discussioni sono apparse sin qui prigioniere di
alcuni luoghi comuni e vizi di forma. Quali sono?
Risposta
Io penso che la discussione, per fortuna, si stia avviando nella direzione giusta, nel
senso che comincia a tener conto di come la realtà si sta effettivamente manifestando.
Però permangono alcuni vizi di forma e dei luoghi comuni dei quali bisogna liberarsi. Io
dico che i vizi sono essenzialmente tre: la superbia tecnologica, l'ottimismo del mercato
e la semplificazione politico-ideologica. Che cosa voglio dire, parlando, per esempio, di
superbia tecnologica? Che si pensa che queste tecnologie producano esse stesse le loro
regole, che non hanno assolutamente bisogno di tener conto del modo in cui la società
reagisce alla loro introduzione. Questo non è vero, perché, per esempio, quando sono
stato introdotte le prime tecnologie informatiche, per trattare le informazioni personali,
si diceva: non serviranno regole. Oggi abbiamo leggi da per tutto, anzi in Italia è
aperto il problema del "vuoto legislativo", noi siamo un'anomalia proprio
perché non abbiamo leggi. E questo non è stato soltanto un imbrigliare la tecnologia, è
stato anche un modo per valorizzarne una serie di potenzialità. Per esempio, su questa
base è nato il diritto ad accedere alle informazioni, cosa prima difficilissima. Cercare
un'informazione in un archivio tradizionale, fatto di fascicoli cartacei, era un'impresa.
Oggi cercare un'informazione è cosa rapidissima. Però se non si fosse sancito il diritto
dei cittadini di accedere a queste informazioni, la novità tecnologica non sarebbe stata
sfruttata fino in fondo. Ma ci vogliono regole. Ecco perché dico: accantoniamo la
superbia tecnologica e guardiamo alla necessità di inserire correttamente nella società
queste tecnologie. L'ottimismo del mercato. Non tutto è risolto dalla spontaneità del
mercato, che anzi, privilegiando, com'è naturale, gli interessi economici, può tagliar
fuori alcuni cittadini, alcuni gruppi, alcune zone del paese, dove non è, per esempio,
conveniente far arrivare alcune tecnologie. Quindi, poiché oggi si comunica solo se si è
padroni dell'alfabeto rappresentato dalle nuove tecnologie, bisogna dire al mercato: no,
tu devi arrivare da per tutto, tu devi rendere un servizio universale, cioè alla portata
di tutti i cittadini. Terzo vizio: la semplificazione politico-ideologica. Sembra che non
ci siano vie di mezzo tra il ritenere queste nuove tecnologie il toccasana, la bacchetta
magica per cui la democrazia diventerà finalmente la democrazia di tutti, la mitica
democrazia diretta di Atene, oppure il ritenere che siamo prigionieri del "Grande
Fratello" che controlla tutto. Anche qui abbiamo una semplificazione, perché sia i
rischi che le opportunità non possono essere posti in questi termini estremi e
semplificati. I luoghi comuni. Citerò due luoghi comuni. Innanzitutto, un vecchio luogo
comune. Si dice: le tecnologie sono neutre, hanno due facce, si tratta di scegliere quella
buona o quella cattiva, e quindi tutto è rimesso nelle mani di chi le adopera: se fanno
buone scelte, le tecnologie ci daranno effetti positivi. Questo è vero, sicuramente, e
non voglio dire che non ci sia una disponibilità della tecnologia a più di un impiego,
perché altrimenti si deresponsabilizzerebbero le persone che le adoperano, che direbbero:
no, è colpa della tecnologia. Ma in certi casi è bene valutare come la tecnologia
effettivamente si comporta. Se io prendo la televisione tradizionale, quella che
conosciamo, non posso nascondermi che il messaggio va dall'alto verso il basso, da chi
parla ai milioni di persone che ricevono. Questo è un elemento che dà alla televisione
un carattere strutturalmente un po' autoritario, perché io sto parlando e chi non è
d'accordo con me non mi può subito dare sulla voce, contraddirmi e mettermi a tacere.
Questo è un dato incontrovertibile. Mentre invece altre tecnologie, come quella della
rete, consentono una continua interazione, un dialogo, non ci sono gerarchie. Secondo
luogo comune, questo volta nuovo. Si dice: l'interattività, cioè la possibilità del
dialogo a due vie, è intimamente liberatoria. Questo è vero: è un progresso, rispetto
alla comunicazione con una sola direzione dall'alto verso il basso, ma non sempre abbiamo
questi vantaggi. Perché, se io posso soltanto rispondere e mai porre la domanda, avrò
fatto sicuramente un passo avanti rispetto al silenzio di prima, ma non ho ancora il
potere della domanda. Se io sono solo un utente, un consumatore, a cui vengono offerti
servizi, da casa mia posso fare i teleacquisti, certo, ma sono pur sempre in una
condizione subordinata. Mentre, se guardo alla rete, almeno alle promesse e alle prime
esperienze delle reti, Internet in primo luogo, vedo che queste gerarchie sono sconvolte,
che non ci sono produttori di informazioni e consumatori di informazioni, tutti sono,
nello stesso tempo, l'una e l'altra cosa. Io posso dire la mia, mettere le informazioni in
rete e in quel momento avere una platea che, tendenzialmente, mi può ascoltare.
Domanda 2
Secondo lei, non c'è il rischio che la struttura decisionale piramidale della società
possa voler influire sullo sviluppo della rete, magari per proteggersi da possibili
pericoli?
Risposta
Certo. Quando si dice che noi veniamo da processi di "decisione a piramide",
significa che anche quando c'è la partecipazione di vari soggetti individuali o
collettivi - singole persone che possono dire la loro, come partiti, sindacati,
associazioni che possono intervenire - il processo è comunque a piramide. Nel senso che,
anche se alla base ci sono molte persone che dicono la loro, poi questa platea di attori
si restringe progressivamente. Per esempio, quando si deve approvare un piano regolatore
di una città, i cittadini possono dire la loro ad un dato momento, possono sì depositare
le loro osservazioni presso il Comune, ma si situano solo ad un certo livello, a un certo
strato della piramide: parlano allora e poi, come si dice, tacciono per sempre, perché,
alla fine, in cima alla piramide, c'è quello che prende la decisione. Il passaggio da una
decisione di tipo piramidale a una decisione in rete moltiplica le possibilità di
intervenire. Io dico la mia, il Comune esprime il suo punto di vista, io reintervengo e si
crea quindi uno scambio, una discussione, un dialogo. Certo, poi ci sarà un momento
finale di sintesi e di decisione, ma arricchito da questa discussione in rete. Posso poi
aggiungere che alcune decisioni possono essere prese attraverso questa struttura di rete:
faccio intervenire vari soggetti, presento loro una serie di variabili e poi la risultante
delle opinioni espresse nella rete è la decisione. Quindi non c'è una proposta fatta da
qualcuno prima a cui successivamente altri dicono semplicemente sì o no: abbiamo invece
una serie di variabili e il risultato viene da ciò che la rete dice. Certamente sono in
atto delle resistenze. I detentori dei tradizionali poteri di decisione, non se ne
vogliono spogliare. Vogliono relegare le nuove procedure di decisione alla periferia
oppure dare loro soltanto un ruolo consuntivo, mentre io credo che, almeno per una serie
di decisioni, dobbiamo arrivare ad un cambiamento di procedura e mettere la rete al posto
della piramide.
Domanda 3
Oggi, in un sistema di rete globale, si pone sempre di più il problema della promozione
delle culture regionali. Alcuni paesi, come la Francia, hanno adottato in passato delle
misure di protezione della cultura locale. Quali sono le prospettive per il futuro?
Risposta
Ovviamente le prospettive o le tecniche protezionistiche non funzionano. La rete è per
definizione uno strumento di delocalizzazione, di fine dei territori tradizionali, di
abbattimento dei confini, degli steccati. Il problema però, non della protezione, ma del
mantenimento delle culture locali, della salvaguardia di identità importanti, è una
questione aperta. Per esempio, in Francia si comincia a rispondere mettendo in rete opere
in lingua francese, così che persone che non avrebbero probabilmente mai preso in mano un
libro in francese, imbattendosi in questi testi, possono esserne incuriosite e stimolate.
Questa è una risposta intelligente, perché altrimenti il dominio dell'inglese, non solo
come lingua di comunicazione, ma anche come modello culturale, diventa invincibile. Lo
stesso per vale le culture locali. Noi vediamo che semmai la rete ci mostra un eccesso di
frammentazione, che interessi minuti, prima non capaci di aggregarsi, sulla rete diventano
interessi forti: persone sparse ai quattro angoli del mondo acquistano una capacità di
dialogo tra loro e di incidenza all'esterno che altrimenti non avrebbero avuto. Quindi
anche le culture, le identità locali, le identità separate, hanno una possibilità di
espressione, che non è soltanto limitata al palcoscenico locale. Noi nella nostra piccola
"enclave", nella nostra provincia, continuiamo a mantenere la nostra lingua, le
nostre tradizioni, la nostra piccola letteratura? No, questo è proiettato su un
palcoscenico che ha decine di milioni di spettatori non passivi. Quindi io credo che
questa globalizzazione sia nello stesso tempo una offerta insperata di opportunità alle
identità che, peraltro, erano già per conto loro in difficoltà, non voglio dire in
estinzione.
Domanda 4
Da qualche tempo circola il concetto di "democrazia virtuale". Qual è la sua
opinione in proposito?
Risposta
Si tratta di analizzare bene il ruolo dei cittadini. Per esempio, in Francia, alcune
ricerche mostrano come anche quello che noi siamo abituati a considerare uno spettatore
passivo, lo spettatore della televisione tradizionale, poi elabori tutta una serie di
strategie di difesa. Ora, quella più elementare qual è? Arriva la pubblicità e io
cambio canale. Ma oggi io ho una serie di opportunità: registro, compro le cassette, mi
costruisco il mio palinsesto. Non sono più, come in passato, schiavo di quello che mi
dava il mio canale per cui io stavo lì, la sera, passivo a sorbirmi la programmazione che
qualcuno mi aveva imposto, oppure non potevo usare il mio elettrodomestico preferito,
cioè l'apparecchio televisivo. Adesso quell'apparecchio mi consente delle "strategie
di bracconaggio", da "bracconiere", per evitare le trappole che mi sono
state messe dagli autori dei palinsesti. Insomma, c'è già uno sviluppo di attività, di
reazione, da parte dei cittadini. La "democrazia virtuale" certamente pone dei
problemi. Le piazze si sono svuotate, i comizi che non ci sono più. Questo nuovo tipo di
tecnologia cambia i luoghi della democrazia, e in questo senso pone dei problemi, perché
i mediatori tradizionali scompaiono. L'esercito di propagandisti casa per casa non c'è
più, perde di significato. Il leader politico gode di ubiquità, è in centomila posti
diversi, diffonde le sue cassette personalizzate, localizzate: mentre con una cassetta
parla ai cittadini di Napoli, nello stesso tempo, con un'altra cassetta parla ai cittadini
di Mantova. Probabilmente anche con due discorsi diversi, tagliati sulla misura dei due
elettorati. Questo fa crescere i costi della politica. Prima, si dice, la politica era un
settore ad alto investimento di lavoro, oggi è ad alto investimento di capitale, perché
se prima servivano molte persone, oggi sono necessari molti capitali. La politica si
dematerializza un po', si allontana, non ho più il contatto con la persona o con il
mediatore: quello che mi arrivava a casa non era il leader, ma era qualcuno con cui
parlavo. E poi ci sono altri rischi della "democrazia virtuale". Quello che di
solito viene più evocato è relativo alla democrazia "plebiscitaria", la
democrazia delle emozioni. Faccio vedere un attentato e chiedo subito ai cittadini: volete
o no la pena di morte? Se invece si fosse fatto vedere una persona giustiziata sulla sedia
elettrica e a fianco, sull'altra metà dello schermo, una persona che dice, dopo
l'esecuzione, "Vi confesso che l'assassino sono io", probabilmente le reazioni
dell'opinione pubblica sarebbero state diverse. La democrazia che chiamiamo
"virtuale" ci mette a questi rischi, però ci offre anche delle opportunità: la
possibilità di accedere direttamente a una serie di informazioni, di elaborarle. Ecco
l'intervento attivo del cittadino: il vedere in faccia il leader, ad esempio. Bush è
stato distrutto anche dal fatto che una frase che lui aveva detto - "Leggete sulle
mie labbra: non più tasse" - sia stata ripetuta ossessivamente nella successiva
campagna elettorale, dopo che Bush le tasse le aveva aumentate. Quindi dobbiamo stare
molto attenti e mescolare i vari elementi per consentire ai cittadini di uscire dallo
stato di passività. Ecco, questo mi sembra importante: elaborare criticamente la gran
massa di informazioni che oggi più di ieri si può avere, purché l'informazione non sia
bombardamento di informazioni a cui poi non si può reagire in alcun modo. E quindi far
sì che si possa avere una molteplicità di fonti di informazione. Se posso fare una
battuta: non mi preoccupa che ci siano dei faziosi sulle reti televisive, voglio avere
molte faziosità con le quali fare i conti e poi scegliere quella che mi conviene.
Domanda 5
Come giudica l'uso che di recente nella politica italiana si è fatto della pubblicità
televisiva?
Risposta
Credo che l'uso che è stato fatto della pubblicità in Italia sia molto censurabile, sia
sul piano delle singole pubblicità così come sono state strutturate e trasmesse -
tant'è che in altri paesi, che sono certamente non meno democratici dell'Italia, la
pubblicità politica elettorale è vietata - che su quello della parità di trattamento.
Cito un solo caso, quello relativo all'ultima campagna elettorale referendaria sulla
televisione. Alla Fininvest era stato imposto dal Garante dell'editoria di trasmettere
degli spot dei comitati referendari per riequilibrare l'informazione pubblicitaria data
agli elettori. Durante la campagna elettorale, però, ci fu un ricorso al tribunale
amministrativo da parte della Fininvest - ricorso legittimo, per carità. Il tribunale
amministrativo sospese l'ordinanza del garante, e quindi non si fece questa pubblicità
riequilibratrice. Quando infine il Consiglio di Stato ha detto che invece questa
pubblicità era dovuta, ormai il risultato negativo per il comitati referendari c'era già
stato, e quindi il recupero non era più possibile. Ecco perché io credo che ci siano in
Italia due problemi. Da una parte, l'eccesso di pubblicità spesso non corretta,
dall'altra, la necessità di disciplinare in modo paritario l'accesso al mezzo televisivo.
Domanda 6
Uno dei problemi che pongono le nuove tecnologie è quello della sfera della
"privacy". La nostra storia culturale, almeno quella occidentale, ha rigidamente
codificato, anche nel diritto, la sfera del pubblico e la sfera del privato. Le nuove
tecnologie mettono in crisi questa distinzione. Qual è lo spazio per la sfera
individuale, in questo nuovo panorama comunicativo? Chi dovrebbe garantire, ad esempio, il
diritto alla "privacy", e come potrebbe farlo?
Risposta
Ci sono tanti diritti alla "privacy" che vengono in conflitto sulle reti.
Perché, ad esempio, se da un lato c'è il diritto alla "privacy" di un
soggetto, che non vuole che qualcun altro sulla rete dica che lui è un mascalzone o che
riveli i suoi fatti privati, dall'altro c'è un contrapposto interesse alla
"privacy" di coloro che, entrando in rete, dicono: noi vogliamo mantenere
l'anonimato, noi vogliamo usare un nome fittizio, noi vogliamo usare uno pseudonimo,
perché soltanto attraverso l'anonimato, quindi la difesa della nostra
"privacy", riusciamo a esprimerci al meglio. Ecco, qui abbiamo un clamoroso
conflitto tra due esigenze di tutela della "privacy". Naturalmente è possibile
trovare un equilibrio, anzi io dico: è indispensabile trovare un equilibrio, perché
altrimenti ci sarà qualcuno indebitamente sacrificato. Io non posso alzarmi la mattina,
andare su una qualsiasi rete, entrare in un gruppo di discussione e trovare tutte le
mattine qualcuno che mi insulta. Questa è certamente una violazione della mia sfera
privata. Ci sono regole codificate che, in questo caso, mi consentono, per esempio di
chiedere un risarcimento del danno, di impedire che questa attività di violazione della
mia sfera privata continui. Ma come si fa se l'altro interlocutore, in nome della sua
"privacy", vuole rimanere anonimo? Si è suggerito, per questi casi, che il nome
sia custodito dal gestore della rete e rivelato soltanto se c'è un problema di questo
tipo. I problemi di difesa della "privacy", quindi, devono e possono essere
affrontati. Ma c'è anche qualcosa di più, perché, come diceva lei, il rapporto tra
sfera pubblica e sfera privata è stato sin qui codificato . Alcuni dicono: io riesco a
esprimere tutta la mia personalità, e quindi a costruire pienamente la mia sfera privata
sulla rete, soltanto se, per esempio, posso rimanere anonimo. E' legittimo o non è
legittimo? Io dico che in via di principio è legittimo, perché io posso superare
attraverso questa dimensione della virtualità della rete una serie di problemi, che,
altrimenti, mi impedirebbero il pieno sviluppo della mia personalità, che, attenzione, è
una espressione che si trova più intensamente all'inizio della Costituzione tedesca, ma
anche all'inizio della nostra, come punto di base dei diritti fondamentali della persona.
Naturalmente la possibilità di tracciare un confine netto tra sfera pubblica e sfera
privata diventa sempre più difficile. Perché? Perché noi viviamo sempre di più in
pubblico. Nel momento in cui noi usiamo una carta di credito, lasciamo una traccia, una
traccia molto forte, perché dice a che ora ero in quel negozio, che cosa ho fatto, quanto
ho speso. Questa è una traccia che riguarda la mia sfera privata, ma che entra in una
dimensione pubblica, perché il gestore della carta di credito conserva queste
informazioni, qualche volta le vende ad altri, che sono interessati a sapere chi sono
coloro i quali comprano certi prodotti, per rivolgere loro, per esempio, una certa
pubblicità. La sfera pubblica e la sfera privata quindi tendono in molti casi a
sovrapporsi, a confondersi. Qual è allora il punto finale, provvisorio, come è tutto
provvisorio in questa materia? Quello fornito nel 1983 dalla Corte Costituzionale tedesca,
quando fu interpellata da alcuni cittadini che obiettavano la legittimità di una legge
sul censimento, dicendo: "Ci sono delle domande che invadono la nostra sfera
privata". La Corte Costituzionale diede loro ragione, affermando che tutti i
cittadini hanno il diritto all'autodeterminazione informativa, cioè a stabilire che cosa
vogliono mettere in circolazione, quando sono costretti a mettere in circolazione delle
informazioni. Perché, se io voglio usare la carta di credito, devo fornire delle
informazioni, non posso dire: non ti do il mio nome. Il diritto della persona è quello di
controllare poi l'uso che altri può fare delle informazioni che egli ha ceduto. Ecco
allora la nuova dinamica: la sfera privata, anche quando parzialmente diventa pubblica, è
da me difesa, non con mura che mi circondano, perché nessuno possa vedermi: questo è il
modo tradizionale di intendere la "privacy", il diritto d'essere lasciato solo.
Nessuno può diffondere informazioni sul mio conto diventa invece il diritto di
controllare chi usa le informazioni che mi riguardano.
Domanda 7
Le nuove tecnologie sembra comportino una revisione dell'istituto della responsabilità e
della proprietà intellettuale. Qual è il suo parere a questo proposito?
Risposta
Per ciò che riguarda la proprietà dei software, la revisione è già cominciata. Sono
state introdotte tutta una serie di discipline restrittive, anche accompagnate da sanzioni
penali abbastanza pesanti. Naturalmente adesso il problema si propone più in generale,
per ciò che riguarda le reti, perché la proprietà intellettuale dei testi e dei
materiali che qualcuno immette in rete e di cui altri possono impadronirsi scardina le
regole tradizionali di circolazione delle opere dell'ingegno, cioè di queste opere sulle
quali si ha un diritto. Io credo che i tentativi che sono stati finora di riportare allo
schema tradizionale del "copyright" anche questa dimensione, sono destinati a
fallire. E quindi noi dobbiamo trovare delle forme nuove di tutela del
"copyright", anche se vedo molte difficoltà.
Domanda 8
Spesso la discussione sulla tecnologia telematica risente di un certo determinismo
tecnologico, specialmente negli entusiasti. Per esempio, Negroponte ritiene che nel giro
di pochi anni queste tecnologie porteranno al superamento del "gap" economico
tra Nord e Sud e all'appianamento delle disuguaglianze sociali. Non c'è il rischio,
invece, di un approfondimento di queste disuguaglianze proprio in virtù della scarsa e
diseguale diffusione delle tecnologie di accesso alle informazioni?
Risposta
Che si siano approfondite le distanze è oggi un dato evidente. Non so se questa sia una
sorta di tendenza irreversibile. Però noi dobbiamo partire realisticamente dai dati e non
dalle proiezioni più o meno ottimistiche o volenterose. E i dati oggi ci parlano dei
rischi legati al nuovo analfabetismo tecnologico. Come in passato c'era un processo di
esclusione, anche formalizzato, per cui chi non sapeva leggere e scrivere non poteva
votare, così oggi esiste il rischio che i nuovi analfabeti, cioè coloro i quali non
conoscono l'uso di queste tecnologie, rimangano esclusi da processi che sono socialmente
rilevantissimi e che poi politicamente possono diventare determinanti. Insomma c'è il
concreto pericolo che si scavi un fossato tra chi è in grado di usare le nuove tecnologie
e chi non è in grado di utilizzarle. Lo stesso accade a livello di Stati. Ci sono Stati
in cui si concentra questa capacità di conoscenza, questo patrimonio informativo, e paesi
che ne sono lontani, che sono costretti anzi a delegare la stessa gestione delle loro
informazioni ad altri, per mancanza di strumenti, di cultura. E qui non si tratta più di
analfabetismo, ma di ritorno di colonizzazione. Il problema del "trasferimento delle
tecnologie" - vecchio problema dei rapporti tra Primo, Secondo e Terzo Mondo -
diventa oggi un problema generale di eguaglianza. Io credo che l'esperienza dimostri che
il mercato o non è sufficiente o addirittura non è capace a risolvere questo tipo di
problemi. Ricordiamoci tutti che Internet nasce come un progetto pubblico della Difesa
americana, che si trasforma poi in una grande opportunità per tutti. Una componente
pubblica è necessaria. Il mercato da solo finora non ce l'ha fatta. Tanto più se si
considera che qui non si tratta semplicemente di mettere a disposizione di un cittadino
consumatore una serie di servizi, di opportunità, di giochi, di intrattenimenti sempre
crescenti. C'è una dimensione che riguarda proprio il suo essere cittadino, la dimensione
dell'acquisizione delle informazioni, della partecipazione politica. Tutti, quindi, devono
essere messi in condizioni di parità. Non a caso, si parla di un diritto di accesso ai
mezzi come servizio universale, come qualcosa di cui tutti devono poter disporre
indipendentemente, per esempio, da un pagamento che non possono sopportare. Quindi
politiche di tariffe, al limite gratuità di determinati servizi. In Italia il Comune di
Bologna e anche altre istituzioni sperimentano accessi gratuiti a Internet proprio per
realizzare questo diritto e allo stesso tempo per creare un incentivo a quella famosa
alfabetizzazione informatica che è uno degli strumenti di cittadinanza del futuro
prossimo.
Domanda 9
Quindi quello delle reti civiche può considerarsi un esperimento riuscito sin qui?
Risposta
Che alcune sperimentazioni possano essere considerate deludenti, anche perché caricate di
aspettative eccessive, sono pronto ad ammetterlo. Però credo che questa sia una
sperimentazione alle quali dobbiamo rivolgere la massima attenzione, perché qui
effettivamente la possibilità di presenza attiva dei cittadini è molto più forte. Non
vorrei che tutta la discussione sulla "democrazia elettronica" si riducesse al
gioco del sì o del no, al "referendum elettronico": io vengo interpellato e
posso solo oppormi o consentire. Credo che queste tecnologie, se davvero riusciranno ad
arricchire la democrazia, lo faranno soprattutto dando più opportunità ai cittadini, a
vari livelli, mettendoli al corrente delle decisioni che si stanno per prendere, dandogli
la possibilità di intervenire nei processi decisionali con proprie proposte alternative.
Se io posso accedere a un'infinità di informazioni in condizioni di parità col sindaco,
l'assessore e il consiglio comunale, che, per esempio, stanno per prendere una decisione
su una linea di autobus, posso anche, utilizzando queste informazioni, fare una proposta
alternativa, impiegando un modello di simulazione degli effetti, e quindi dire:
attenzione, che andate incontro a questi rischi. Questo mi sembra un arricchimento della
democrazia ben più significativo della semplice logica della democrazia referendaria. E
le reti civiche sono un primo passo, ancora molto approssimativo, ma importantissimo in
questa direzione.
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