INTERVIEW:
Domanda 1
Vorrei che Lei ci chiarisse i problemi che intercorrono nel rapporto fra le nuove
tecnologie della comunicazione in generale e la formazione della conoscenza.
Risposta
Direi che uno dei problemi di attacco di questo argomento è quello di interrogarci sugli
effetti che, non tanto l'introduzione, quanto la diffusione e la generalizzazione delle
nuove tecnologie avrà sulla trasformazione del sapere e dei modi che noi conosciamo, con
cui il sapere si è strutturato in forme di ripetizione, di apprendimento, di
insegnamento, ma anche di pratiche dal basso. E' un argomento incredibile, perché noi
abbiamo già segnali evidenti che ci dicono che i vecchi media generalisti come la
televisione e la radio, ma soprattutto la televisione, hanno drasticamente modificato sia
i contenuti che le modalità di trasmissione del sapere. E questo già dovrebbe indurci ad
avere una teoria, una ricerca capace di capire in che modo la trasmissione tradizionale
del sapere, l'amministrazione da parte dei docenti e dell'istituzione scolastica e della
stessa università del sapere, riconosciuta e formale, si intreccia nel vissuto dei
giovani, nel vissuto degli utenti; e nel vissuto degli allievi con tipi di saperi, tipi di
linguaggi, ma anche contenuti di sapere, di relazioni comunicative, di relazioni di vita,
che vengono invece da un altro tipo di magistero, da un altro tipo di autorità: quello
dei media. Ora, se questo era vero e possibile, e già gli studi lo documentano -anche
studi che abbiamo noi stessi realizzati per i vecchi media e per il vecchio medium come la
televisione-, dobbiamo immaginarci che tipo di approfondimento e di cambiamento del
processo avverrà con le nuove tecnologie. Noi, per esempio, immaginiamo che le nuove
tecnologie comporteranno un nuovo tipo di sapere e quindi anche un nuovo tipo di
insegnamento e di professionalità docente.
Domanda 2
Internet ci mostra come la didattica a distanza stia portando alla fine del maestro reale,
con la comparsa di una sorta di maestro virtuale, che comporta la perdita di tutti i
tratti paralinguistici della comunicazione: i gesti, la distanza, il tono della voce.
Quali sono i rischi e le potenzialità di questa nuova forma?
Risposta
E un'ovvietà dire che, naturalmente, nessuna tecnologia di comunicazione, per
quanto intensa e coinvolgente possa essere, potrà sostituire la trasmissione in presenza.
Chiunque di noi abbia realizzato esperienze di formazione a distanza, sa che, comunque,
c'è una perdita semantica di gestualità, di emotività, di coinvolgimento, oltre che di
aspetti linguistici e paralinguistici, che letteralmente obbligano a riscrivere la
deontologia e gli aspetti costitutivi dell'esperienza docente. Più difficile è dire come
ciò avverrà. Questo decennio sarà caratterizzato da un intreccio continuo tra vecchie
tecnologie della comunicazione e nuove tecnologie, tra vecchie forme di trasmissione del
sapere e nuove modalità di invenzione e di scoperta del sapere e di apprendimento del
sapere. Noi abbiamo la sensazione che un modo per accompagnare questa transizione, uno dei
modi per salvare, se sarà possibile, la professionalità docente -e penso anche alla
professionalità docente universitaria e a quella dell'intellettuale-, sarà quello di
interagire continuamente tra forme di insegnamento e contenuti tradizionali e capacità di
insegnare a leggere e a contestualizzare, in termini culturali e più tradizionali, le
nuove tecnologie. Può sembrare un po' ovvio, in effetti, ma noi abbiamo la sensazione che
le ricerche dimostrano che gli insegnanti della tradizione si salvano quando riescono
anche ad utilizzare la televisione come espediente di finta modernizzazione del proprio
agire. Per quanto possa apparire semplicemente un processo di ristilizzazione del ruolo,
pensiamo che la capacità di "rappresentare" una discreta cognizione delle nuove
teorie, delle nuove metodologie, delle nuove tecnologie, sia già un elemento che possa
rimettere il docente in un circuito di modernità e quindi di renderlo credibile agli
occhi dei suoi allievi. Il problema fondamentale dell'educazione è che non può darsi
educazione se l'operatore della trasmissione viene considerato un attore del passato.
Domanda 3
Non si corre il rischio di una perdita di ruolo da parte dell'insegnante? Spesso, le
resistenze, vengon fatte a proposito dellemergere del problema della perdita del
ruolo.
Risposta
Sono resistenze di tipo sindacali. E su quelle c'è poco da fare. Dovremmo trovare un modo
per rendere più convinti del proprio ruolo i docenti. Ed è un'impresa sconvolgente, su
cui tutta la società si dovrebbe impegnare; una società docente, che sia solo
consapevole del proprio declino, si avvia alla decadenza e avvia letteralmente la cultura
e la trasmissione culturale ad un momento di buio, di frattura storica, di decadenza, più
esattamente. Si può fare qualcosa di più sul piano accademico e della formazione.
Occorrerebbe che il nuovo governo dell'istruzione investisse, con coraggio e con
determinazione, in grandi progetti, non di aggiornamento degli insegnanti, perché questi
corsi a volte sono un po' esilaranti, ma di "riacclimatamento" culturale degli
insegnanti alle nuove condizioni del loro agire. Io credo che questa sia una tipica
impresa su cui un governo che ha di fronte a sé cinque anni, dovrebbe impegnarsi, ma su
cui anche un'istituzione come l'università, che ha di fronte a sé il futuro, dovrebbe
impegnarsi ancor di più.
Domanda 4
E che cosa cambia nell'apprendimento quando ci si accosta ai nuovi media?
Risposta
Cambia, anzitutto, l'attitudine del soggetto ad offrirsi in condizioni di vaso vuoto.
L'aspetto drammatico che coglie una persona come me che viene da una generazione vecchia,
è che rispetto a queste nuove tecnologie, i giovani, -penso in particolare a questa
straordinaria leva degli studenti di "Scienza della comunicazione", che sono
forse l'episodio più affascinante di innovazione culturale in questo settore- non sono
assolutamente nell'attitudine di apprendere qualcosa. Loro sono nell'attitudine di
interagire. E questo è un mutamento epocale. Tutte le pratiche dell'istruzione sono
fondate sulla trasmissione. Tutte le attitudini dei giovani, che si presentano al bancone
dell'offerta, sono fondate sull'interazione. Se noi non riusciamo a trovare un modo per
convincere questi giovani che l'educazione non può essere solo interazione -perché c'è
un eccesso di arroganza nel credere che la formazione possa essere solo per scambio tra
uguali- ma che occorre accettare umilmente uno scambio emotivo di vita esistenziale, e
anche culturale, che sia fondato sul dislivello, sulla trasmissione, noi non riusciremo
più a ricostruire le condizioni dell'esperienza culturale, dell'esperienza formativa.
Aggiungo a questo -non so se sia un vecchio "slogan", ma è il mio
"slogan"-: non ci può essere educazione senza un processo consapevole di
modificazione degli utenti. Le nuove tecnologie inducono gli utenti, invece, a pensare che
il processo di modificazione è gestito dal soggetto. E questo, a mio giudizio, crea un
problema di incompatibilità linguistica, di comunicazione. Da questo punto di vista ci
vuole una triangolazione continua tra utenti del processo di formazione e di
comunicazione, tecnologie e docenti, i quali devono recuperare un loro ruolo, anche, in
qualche modo, ponendosi come un elemento di interposizione tra le tecnologie e i soggetti
che accedono ad esse.
Domanda 5
Ed esiste un livello medio, diffuso di prodotti per aiutare tutto questo processo?
Risposta
Assolutamente no! Esistono esperienze pilota molto interessanti, ed esistono emozionanti
episodi che dimostrano che i soggetti in età di formazione si avvicinano con una certa
arroganza ed una compatibilità immediata alle nuove tecnologie; poi, però, sentono anche
il bisogno di variegare questo menù di formazione anche con un ricorso alla tradizione
culturale data: quindi libri, supporti cartacei e, grazie a Dio, anche a quel vecchio
supporto non cartaceo che è la persona del docente. Ci sono esperienze emozionanti, lo
ripeto, che attestano che anche chi si avventura in modo un po' unilaterale sulle nuove
tecnologie, ad un certo momento del proprio percorso di formazione si accorge che le nuove
tecnologie non esauriscono le domande di conoscenza. Questo è un argomento sul quale
avrei dovuto insistere prima. Non possiamo illuderci che le nuove tecnologie siano già
pronte a sovrapporsi a tutti i livelli di intensità e di profondità esplorati dalla
cultura della trasmissione del passato. E' ancora un meccanismo molto oleografico, un
meccanismo ancora molto di superficie. Non escludo che si possa immaginare, sul piano
concettuale, una dimensione in cui la cultura tradizionale sia la profondità delle nuove
tecnologie, l'anima delle nuove tecnologie, per dirla con una metafora.
Domanda 6
Chi coprirà questi spazi di formazione? Adesso ci sono esperimenti, come quello di
Bologna, di Umberto Eco.
Risposta
L'esperimento di Eco è interessante perché è stato uno dei primi, ma ormai ce ne sono
tantissimi. Chiunque, come me, vada in giro per il mondo a studiare processi di formazione
e la sorte dei processi di formazione nell'età dei media, si accorge che ci sono
esperienze dal basso, meno recitate e meno celebrate di quelle in letteratura. Queste
esperienze indicano, in qualche modo, che la questione è avvertita con una consapevolezza
maggiore di quella che può sembrare in superficie, anche se non sufficiente rispetto alla
gravità del problema. Come risolvere questo problema? Direi che non ho una ricetta. E, se
avessi una ricetta, comunque non la direi, perché bisognerebbe sperimentarla. Ho la
sensazione che bisognerebbe avere il coraggio di avere una visione di principio, che
indichi l'università come il luogo e il momento per lanciare una riflessione così
definitiva sulla salvezza della cultura tradizionale nelle nuove condizioni, offerta dalla
modernità tecnologica, e, al tempo stesso, riconoscere che l'università da sola non
basta. Ci vuole, dunque, un dialogo impressionante, di cui ci sono però ormai le
condizioni tra università, imprese, associazioni -soprattutto le associazioni dal basso,
perché sono quelle che hanno meno indugi e nascono sui bisogni, mentre l'università è
più lenta a intervenire-. Quindi, Ministero dell'Università, Ministero della Pubblica
Istruzione e, probabilmente anche una specie di ceto nuovo, di cui non sono in grado di
rintracciare la definizione sociologica e positivistica, che è questo ceto degli
operatori delle nuove tecnologie.
Domanda 7
Stefano Rodotà, recentemente, ha scritto un articolo su "La Repubblica" in cui
usa un'epressione abbastanza forte per definire la nascita di due nuove classi, o ceti:
"apartheid informatica".
Risposta
Mi sia consentito dire che i sociologi sono arrivati prima. Esiste un problema serio. Ho
insistito sul fatto che i sociologi sono arrivati prima, perché già alla fine degli anni
Ottanta, nelle più difficili condizioni della scuola, alcuni sociologi -in particolare il
professor De Lillo, ma anche Guido Martinotti- avevano prefigurato le condizioni di una
nuova ferita. Nel mio nuovo sistema metaforico di rappresentazione linguistica identifico
la ferita nelle nuove differenze di "chance". Noi sappiamo che le disuguaglianze
cambieranno nel futuro, poiché esse posseggono questa natura sordida di presentarsi
sempre in maniera diversa rispetto al passato. Le disuguaglianze legate alle ferite di
classe sono diventate più evanescenti, anche se non sono scomparse; quelle legate alle
differenze culturali sono state, in qualche modo, superate dagli anni Ottanta: dal momento
in cui c'è stato un "exploit" della cultura di massa. Adesso, la nuova
frontiera delle disuguaglianze è certamente quella sui nuovi saperi. Quello che bisogna
fare è cercare di governare l'approdo di un numero sempre più vasto di soggetti alle
nuove tecnologie della comunicazione, affinché le nuove tecnologie non siano il
passaporto di nuovi poteri, o di nuove forme di arroganza e di disuguaglianza sociale.
Mentre abbiamo chiara questa sensibilità etica, la preoccupazione sul breve periodo è
drammatica: nei prossimi dieci anni, questi potrebbero essere i principali elementi su cui
si struttureranno addirittura maggioranze e offerte politiche. Noi non escludiamo che in
futuro questo sarà uno dei nodi più forti e attorno a cui si dovranno combattere, si
dovranno dividere, si dovranno misurare progetti di uomo e progetti di civiltà.
Domanda 8
Jeremy Rifkin, un economista americano, parla addirittura di una umanità futura divisa
tra "analisti di simboli" e una grande massa di disoccupati.
Risposta
Io sono, per definizione e per cultura, assolutamente alieno alle prospettive
apocalittiche, anche se, devo dire, ho letto con un certo coinvolgimento le pagine di
Rifkin. La storia dell'insediamento in Italia delle vecchie tecnologie di comunicazione è
stata accompagnata da un incredibile dibattito tra apocalittici e integrati. Solo nel
nostro paese questa vicenda è stata così acuta, poiché sullo stesso argomento -il ruolo
dei mezzi di comunicazione-, gli studiosi si dividevano come una mela. Chi diceva che
tutto il male derivava da loro e chi diceva che, invece, essi erano un passaporto di
partecipazione e di nuova competenza. C'è un elemento curioso che intorno alle nuove
tecnologie non si sta ripetendo: non mi sembra che gli studiosi stiano cadendo nella
tentazione di ipersemplificare la risposta etica conclusiva sui rischi riferibili alle
nuove tecnologie. Non possiamo dire che ci sia una schiera significativa di gente che dice
che il male sta per arrivare sulla testa degli uomini e, al tempo stesso, nessuno di noi
racconta che questo è il passaporto per un paradiso perduto, a cui le tecnologie invece
consentirebbero di ritornare. L'esempio delle vecchie tecnologie ci aiuta anche a capire
che, alla lunga, le preoccupazioni di tipo escatologico e ultimo -bene-male-, si
dissolvono. Io penso che questo sia un tipico problema caratterizzato dal fatto che noi
siamo ancora all'alba di questo mondo, e quindi vediamo con eccessiva preoccupazione gli
effetti più profondi del mutamento. La storia dell'arrivo delle tecnologie, viceversa,
delle "Vecchie tecnologie" -per citare un libro importante degli ultimi anni,
quando le vecchie tecnologie erano nuove-, ci dimostra che la fase dell'acclimatamento
dura poco e che i soggetti riescono a prendere, di solito con una certa velocità, le
misure al cambiamento e alle nuove tecnologie.
Domanda 9
In uno dei rapporti di introduzione al "Summit" del Centro Studi "San
Salvador" vengono analizzati alcuni elementi per giustificare l'avanzamento
tecnologico degli Stati Uniti rispetto all'Europa. Quali sono, a Suo avviso, le più
importanti ragioni: la mancanza di capitale umano avanzato, la mancata liberalizzazione
dei mercati o lassenza dellintegrazione tra il settore dellinformatica e
quello telecomunicazioni?
Risposta
Escluderei, per il momento, queste tre diagnosi e direi che manca un sistema politico
capace di governare e di dare regole. Ed è impressionante che manchi questa ricetta. La
storia dell'Italia dimostra che il primo problema dello sviluppo culturale e della
modernizzazione è stato un sistema politico, che si è avventato sulla comunicazione
scambiandola semplicemente come propaganda. Se noi non avremo un sistema politico capace
di dare regole, ma, al tempo stesso, di capire l'autonomia della comunicazione delle
tecnologie, noi non riusciremo a fare un passo in avanti. Il secondo motivo -su cui devo
chiamare in causa anche noi stessi- è il problema delle risorse umane. I sistemi di
formazione dimostrano la loro arretratezza nella difficoltà che hanno avuto di arrivare
con una certa tempestività sul "collo" di questo problema; di riuscire a
contribuire, in modo significativo, alla formazione di un nuovo ceto, di una generazione
di giovani che viva consapevolmente questo problema, avendo però alle spalle una
formazione di base rigorosa e critica. Noi siamo impegnati su questo aspetto del problema;
e la nascita dei corsi di comunicazione, così come la diffusione di molti corsi di
informatica avanzata nelle università e nelle facoltà di ingegneria e di scienze,
attesta che l'università è arrivata tardi, ma finalmente c'è, e rappresenta una
risorsa.
Domanda 10
E, a proposito della politica, uno degli aspetti più curiosi di questo periodo è che
molto spesso le forme in cui si realizza la politica ha perso quell'autorevolezza che
aveva un tempo. Un tempo, le possibilità di scelta fra alternative erano minori, o,
comunque, le fonti di informazioni erano mediate da reti sociali. Cosa pensa in proposito?
Risposta
Questo è un argomento di cui io sono uno specialista, perché, se posso usare questa
"civetteria", ho studiato due campagne elettorali. Come diceva Voltaire:
"Qualcuno la deve pagare". Il nostro, è l'ultimo paese al mondo ad aver
utilizzato le vecchie tecnologie della comunicazione come forma di supplenza alla
politica. Nel '94 la vecchia televisione, usata in termini di marketing -debbo dire con
grande saggezza e penetrazione da parte della televisione commerciale e del suo inventore-
ha rappresentato la frontiera delle differenze. Noi siamo in possesso di studi che
dimostrano che la televisione è stata usata come un elemento che ha risolto una parte dei
problemi di socializzazione politica del paese. Basti pensare a quello che è successo due
anni fa sulle reti cosiddette di "Target" della TV commerciale: Rete Quattro e
Italia Uno, che sono state bruscamente politicizzate, segnando una contraddizione storica
della televisione commerciale, che, per definizione, dovrebbe essere spoliticizzata e che
invece in campagna elettorale viene utilizzata come un'arma di guerra. Nel '96 si è
verificato un processo di profondo cambiamento: la televisione generalista è tornata al
suo posto, ed abbiamo cominciato a vedere che cosa può succedere in un paese quando si
determina una natura fisiologica, quasi normale, di rapporto tra televisione e società e
tra televisione e potere politico. La televisione si è limitata ad amplificare processi
che avvenivano anche nella realtà, dando voce ai soggetti della politica. L'esempio del
'96 dovrebbe essere un buon pronostico per quello che succederà in futuro per le nuove
tecnologie, poiché, in quellanno, il ruolo della televisione nella campagna
elettorale è stato meno enfatico e meno vistoso. Questo non significa, assolutamente, che
la televisione sia stata meno importante; viceversa, a mio avviso, proprio per questo
aspetto essa ha assunto un ruolo ancor più decisivo sugli incerti. Al tempo stesso, ciò
fa pensare che i processi di ammodernamento e di modernizzazione del nostro paese, dal
punto di vista del rapporto potere-società-comunicazione si stiano riatteggiando in
termini più persuasivi. Pochi sanno che proprio nel '96 c'è stata una campagna
elettorale anche su Internet. Il nostro gruppo di ricerca, il cui nome è "Media
Monitor" -una sigla che ritengo gloriosa-, ha dato vita, quest'anno, ad un gruppo di
ricerche che si chiama "Intermonitor", il quale ha studiato le forme di
comunicazione politica nei siti Internet. Da queste ricerche è emerso che nei siti
Internet è apparso quanto di più vecchio e di più grigio c'era nella politica italiana.
Che Internet fosse una tecnologia e una gestualità nuova non ha risparmiato la
circostanza che i contenuti, le parole, le intenzioni fossero ancora quelle della vecchia
politica tradizionale. Il problema che si pone, allora, non riguarda più le tecnologie,
ma il cambiamento culturale: le abitudini, gli schemi culturali, e, soprattutto, gli
schemi espressivi e le intenzioni comunicative dei soggetti della politica. In Italia
esistono già modalità nuove di offerta di racconto, di rappresentazione della politica,
ma molto spesso, queste modalità linguistiche vengono accompagnate, incarnate,
impersonate da soggetti che hanno ancora la testa formata in un vecchio mondo.
Bisognerebbe convincere i politici che la loro gestualità comunicativa deve essere quella
del mondo delle nuove tecnologie della comunicazione. Che cosa potrà fare il nuovo
universo comunicazionale? Potrebbe risolvere molti dei problemi di scarsa comunicazione e
di scarsa comunicabilità delle offerte politiche. Per esempio le azioni di governo: noi
sosteniamo che l'azione di governo del Centro-Sinistra dovrebbe essere straordinariamente
caratterizzata da questa nuova compatibilità linguistica; dovrebbe sottoporre le scelte
strategiche a continui sondaggi. Non c'è una ragione al mondo per cui dobbiamo
rassegnarci a pensare che il sondaggio sia organico ad una certa visione politica della
realtà. In Francia noi sappiamo che il governo -e persino i governi municipali- sottopone
le decisioni strategiche in tempo reale: verifiche di opinione con sondaggi svolti con
maggiore esperienza e tradizione rispetto ai nostri. Anche se, mi pare, che anche la
cultura dei sondaggi in Italia, nel '96, abbia fatto passi da gigante. Un grande problema,
quindi, consiste nel riavvicinare la decisione della politica alle domande degli utenti.
Il secondo problema riguarda, come dicevo prima, la gestualità comunicativa dei politici
e degli uomini di governo. Direi che su questo dobbiamo fare passi significativi. Non mi
sembra di poter dire che la nuova infrastruttura che il paese ha chiamato a governare
abbia dato segnali di rinnovamento in questo senso. Forse, su questo ulteriore tagliando
di riflessione, sarebbe necessaria un'innovazione di metodo, di linguaggio, consultazioni
continue con gli intellettuali. Anche questo è un fatto curioso: questo è uno dei paesi
in cui più esiste un ceto degli intellettuali; ma gli intellettuali vengono utilizzati in
quanto individui, e quindi come consulenti e come amici dai politici, invece che come
ceto, e quindi al massimo livello di universalismo. Penso che da questo punto di vista
bisognerebbe utilizzare le esperienze straniere cercando di sfuggire, ovviamente, alla
tentazione di copiarle, poiché sarebbe irrisorio in un paese con una sofisticata
tradizione come lItalia. Si potrebbe, però, cercare di prendere ciò che è
sostenibile per un processo di cambiamento e di modernizzazione del paese.
Domanda 11
E, diceva, la televisione ha inciso sugli incerti in modo più decisivo?
Risposta
Assolutamente. Dal '94 ad oggi son stati svolti studi che dimostrano due o tre elementi.
Il primo: negli ultimi anni, per definizione, aumenta, come in tutti i paesi, la quota
degli incerti. Quindi, ciò che raccontano i politologi a proposito del voto di scambio o
del voto di appartenenza o del voto d'opinione, sono, appunto, storielle buone per i libri
e per gli anni Ottanta, ma non così interessanti per capire le ragioni delle
trasformazioni politiche, tra l'altro così veloci e ancora inspiegate, che hanno
attraversato la società italiana degli anni Novanta. Secondo elemento: gli incerti
aumentano e aumenta anche l'esposizione dei soggetti alla televisione politica in campagna
elettorale. E' un dato unico al mondo. In nessun paese, come in Italia, nel '94 e nel '96
si è registrato un così forte interesse dei cittadini per la comunicazione politica, per
quella che noi chiamiamo la "telepolitica". E noi sappiamo che si è trattato di
una telepolitica tutt'altro che innovativa. Pensare che la gente si interessasse di
telepolitica per divertimento, significa avere un giudizio pessimo del nostro pubblico.
Noi siamo portati a correlare la fortuna della telepolitica alla diffusione delle forme di
incertezza, che è tipica di una società in crisi, tipica di una società in cui le
trasformazioni politico-elettorali sono avvenute con velocità ed in assenza di una
capacità dei partiti e dei poli di socializzare la gente ai cambiamenti. La differenza,
ripeto, l'ha provocata la televisione. Il grande attore di ricontestualizzazione alle
nuove offerte politiche, ai nuovi "leader", ai nuovi poli, ai nuovi valori, è
stato, a nostro giudizio, la televisione.
Domanda 12
La velocità e la quantità degli stimoli informativi provenienti dai nuovi media, urta
contro la capacità riflessiva, ricettiva dell'individuo. Non si corre il rischio di
un'inflazione di stimoli che concorrono alla perdita del senso?
Risposta
Questo rischio si corre se si condivide un'idea del "senso" come momento
spirituale e profondo, avversativo rispetto agli stimoli. E su questo problema le teorie
psicologiche, ma soprattutto le teorie a centralità educativa -io, essendo un professore
universitario mi ritengo uno specialista di formazione- sono tutt'altro che sicure. Alcuni
di noi hanno cominciato a scoprire il senso, cioè la profondità della cultura, sulla
base di uno spaventoso impacco di letture. La straordinaria ambiguità della quantità è
quella di preparare la qualità, di indurci, cioè, a scegliere; il senso potrebbe essere
la finestra che si apre dopo una lunga serie di percorsi, che sono anche ispirati alla
quantità, all'esplorazione, al telecomando. Questa è la risposta, se vogliamo, di tipo
profondo. Al tempo stesso tendo a vedere l'alternativa, l'antagonismo, tra senso e stimoli
culturali, ed eccedenza di stimoli culturali, in modo molto cinico e sperimentale. Noi ci
accorgiamo che alcuni giovani, alcuni ragazzi, alcuni bambini cadono, sul piano cognitivo,
lungo l'itinerario della formazione, quando c'è unilateralità di comunicazione; in altre
parole, quando il loro universo di relazioni è assolutamente povero e limitato -e di
solito limitato ad un unico attore di comunicazione. Mentre tra gli adulti il numero di
persone dipendente da un unico mezzo di comunicazione è elevato -arriva fino almeno a un
terzo della società-, tra i minori è un quinto; questo mi sembra già un dato
incoraggiante. Nel resto dell'universo dei minori e dei giovani, ci si accorge che
l'esperienza culturale è caratterizzata, quasi fisiologicamente, dalla sinergia,
dall'attraversamento dei diversi saperi e linguaggi. Io tendo a vedere la nascita del
senso nel superamento dell'unilateralità e quindi nell'alba e nell'arrivo ad una
dimensione comunicativa in cui molti stimoli si affollano; da questi stimoli nasce la
soggettività e quindi quello che la domanda interroga come senso.
Domanda 13
Remo Bodei riflette sullipotesi di un'etica planetaria. Quali potrebbero essere le
basi di un'etica planetaria?
Risposta
La domanda è quasi imbarazzante, nel senso che assomma preoccupazioni che attengono al
foro interiore - e speriamo che ce ne siano ancora- e preoccupazioni che siano
pubblicamente sostenibili. Voglio dire che molti di questi discorsi attengono ad una
dimensione che costringe ad utilizzare delle parole che, quando assumono la natura del
discorso pubblico, cambiano senso. Quindi, il concetto di spirito, il concetto di valore,
il concetto di orientamenti culturali, all'azione, sono parole che la letteratura
scientifica si è costretta stupidamente ad utilizzare troppo poco. Io desidero che i miei
colleghi usino di più la parola "valori". Come si potrebbe reimpostare la
questione di un'etica planetaria o meglio di un'etica che sia sufficiente a traghettarci
in questo lungo periodo di transizione? Mi accontenterei di questo. Cercando di
domandarci, per quale ragione, quando i laici parlano di un'etica come quella che può
risolvere questi problemi, usano il concetto di religione "civile", un
sostantivo che viene da un contesto diverso, dal contesto della religione. Io inviterei i
miei colleghi, soprattutto gli studiosi e gli intellettuali laici, a domandarsi per quale
ragione, quando noi pensiamo ad un pacchetto di valori e di idee che siano sufficienti a
sostenere la capacità degli uomini di dialogare, di parlarsi e di avere rapporti
significativi, sono, di fatto, indotti ad utilizzare una terminologia di tipo
tradizionale. Significa evidentemente che quella terminologia ha ancora molto da dire.
Allora, se questo non è un messaggio troppo mediatorio, la mia sommessa raccomandazione
consisterebbe nel domandarci quanto, per un'etica del futuro, non ci possa venire da
quello che ancora non è caduto - e non è caduco - dall'etica della religione e
dall'etica della tradizione, e quanto, invece, di quell'etica, deve essere sottoposto ad
un processo profondo di ripensamento e, quindi, di rapida sostituzione. Auspico un mondo
in cui ci sia una etica religiosa ed una religione civile, che tra di loro si guardino con
straordinaria solidarietà e con confidenza.
Domanda 14
Alberto Abruzzese, parlando delle opportunità delle nuove tecnologie, in merito alle
qualità della vita, ha usato quest'espressione: "Nella vita quotidiana proprio
queste tecnologie hanno la vocazione di sfuggire ai linguaggi forti della tradizione
moderna, invece di inserirsi in una situazione più comunicazionale". Cosa ne pensa?
Risposta
E una bellissima formula, tipicamente abruzzesiana, che condivido perfettamente,
anche se potrebbe andare in conflitto con l'ultima proposizione che era esattamente
formulata in termini di messaggi forti. E' vero che la "koiné" linguistica che
si va profilando è in confligge con tutti i saperi e i linguaggi provenienti dalla
tradizione, e quindi con i linguggi forti. E' vero anche che dobbiamo avere la forza di
domandarci quanto questa "koiné" possa essere una compagna autosufficiente nel
nostro processo di essere nel mondo. Io non mi illudo di pensare che sia una svolta capace
di dare risposte a tutti i bisogni di realizzazione individuale, di felicità e di
scoperta dell'altro, che l'ansia dell'uomo moderno dovrà necessariamente riesibire.
Penso, dunque, che questa "koiné" sia un mondo linguistico, innovativo e
meraviglioso, in cui però prevale la dimensione di una avvenuta rivoluzione espressiva,
che non risolve, tuttavia, tutti i problemi di radicalità. Ancora una volta il messaggio
è quello di accorgerci di quanto questa "koiné", che è la somma di nuovi
saperi, di nuove formazioni, di nuove tecnologie, di molta comunicazione, porta sull'uomo
contemporaneo, ma anche di interrogarci di quali saranno i punti di insufficienza di
questa nuova visione del mondo.
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