Digital library (interview) RAI Educational

Giovanni Bogani

Rome, 18/12/96

"Peter Greenaway and Digital Cinema"

SUMMARY:

  • The film director Peter Greenaway is very open to using new technologies because they help him to realise his dream of a film which contains many films simultaneously (1).
  • These powerful technological instruments must remain instruments: the creative act still rests with the individual (2).
  • Greenaway has demonstrated, particularly in his latest films, that he is able to control new technologies and does not passively depend on them (3) (4).
  • Nevertheless, Greenaway does not believe that the cinema has progressed little since 1910, even now with the use of new technologies (5).
  • The director believes that whatever instrument an artist uses, he exists prior to them and, therefore, is never dominated by them, particularly in the creative act (6).
  • This awareness distinguishes Greenaway’s use of these means from the way they are used in the traditional cinema (7).
  • Greenaway’s films often twist the traditional, linear narrative scheme, creating a work which could usefully be exploited as a CD ROM or hypertext (8) (9).
  • This radically changes the role of the viewer, who is free to decided which path to follow in watching the film (10).

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INTERVIEW:

Domanda 1
Qual è, specificamente, il rapporto di Peter Greenaway con le nuove tecnologie, se è vero, come egli stesso afferma, che la tecnologia crea l’estetica?

Risposta
Il rapporto di Greenaway con le nuove tecnologie è di grande entusiasmo: a lui piace giocarci, a lui piace sognare con le nuove tecnologie. Sogna di un film su CD ROM che, però, sia visibile su Omnimax, quindi a 360°, con un pubblico che possa avere il film tutto attorno a sé così come l’esperienza nel mondo è tutta attorno a noi; non è soltanto davanti, in un rettangolo. Sogna le nuove tecnologie per sfondare le cornici del cinema; il cinema e la televisione possiedono questo formato rettangolare che nessuno è mai riuscito a deformare; lui, invece, vuole poterne uscire fuori, così come dice "se io voglio fare, da pittore, il quadro di una giraffa con il collo lunghissimo, posso avere una cornice verticale; se voglio fare un serpente che striscia sull’erba, avrò un formato larghissimo e pochissimo alto". Lui, addirittura, vorrebbe avere un cinema che si muovesse come un’ameba, che potesse sfondare da tutte le parti, soprattutto in due direzioni: in alto e lateralmente. Questo, le nuove tecnologie glielo consentono, glielo hanno consentito con i giochi di immagine dentro l’immagine che lui ha utilizzato anche nell’ultimo film "I racconti del cuscino". In questo film, addirittura, tre immagini si sovrappongono, tre storie giocano l’una con l’altra; come anche in un film di Abel Gance che si chiamava "Napoleon", del 1929: tre schermi che portavano avanti tre storie differenti. Greenaway ha questo sogno: poter girare un film che sia molti film insieme, che sia amabile ed apprezzabile molteplicemente, che sia rivedibile all’infinito; anche perché, se ci si sofferma su un angolo, su un aspetto, poi, puoi ritornare e scoprirne molti altri.

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Domanda 2
In questo senso avrebbe un valore meramente strumentale l’uso della tecnologia, oppure interviene direttamente nel processo creativo?

Risposta
Io credo che Greenaway, nonostante proclami questo grande amore per la tecnologia, pensi anche che, tutto sommato, sia necessario confrontarsi con l’uomo, la mente, l’artista, che si trova dietro, sopra, prima, e in maniera più forte della tecnologia. Quindi, lui che si sente, in qualche modo, artista, pittore nel senso rinascimentale del termine, pensa sempre di tenere in pugno la tecnologia e di potersene servire; quindi, si è servito di tutte le elaborazioni della Paintbox; così come si è servito della musica di Michael Nyman, così come si è servito di tutti gli accorgimenti tecnici: sempre, però, funzionali al suo discorso di fondo che, a mio avviso, è esattamente lo stesso dal 1960 ad oggi; da quando, addirittura, girava i suoi primissimi film con un superotto. Adesso può disporre di budget anche abbastanza importanti e può lavorare in vari continenti, come nel prossimo progetto che ha in mente di fare, che sarà una specie di "Giro del mondo" di "Fino alla fine del mondo" greenawaiano, in sedici paesi, con sedici tappe, passando per i deserti dell’Asia, negli Stati Uniti, e anche in Italia, toccando Venezia e Roma.

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Domanda 3
Per Greenaway questi passaggi tecnologici hanno rappresentato soltanto una facilitazione di quello che cercava?

Risposta
Paradossalmente, io penso di sì. Credo che fin dal 1968, quando lui girava un film come "Intervals" (che è stato girato a Venezia e dove di Venezia non si vedeva l’acqua, dove c’era un battito di metronomo che scandiva la narrazione e scandiva il succedersi delle immagini l’una con l’altra), ad oggi, in realtà, le sue ossessioni, le sue grandi tematiche siano rimaste sempre le stesse. Egli ha poi saputo sviluppare tali contenuti in film quasi realistico-mimetici come "Il bambino di Macon" se si vuole, o "Il cuoco, il ladro, la moglie e l’amante", che sono film più teatrali; e li ha saputi sviluppare in film più tecnologici come "L’ultima tempesta" o come l’ultimo, "I racconti del cuscino", dove si muove con grande disinvoltura attraverso queste nuove tecnologie, attraverso, soprattutto, l’uso pittorico dell’immagine. Già quello che lui ha filmato ne "I racconti del cuscino" sono corpi disegnati e scritti con gli ideogrammi della tradizione orientale e, quindi, in qualche modo, indicano un intervento anche di pittura, di azione e di performance sul corpo di ciò che viene filmato. Le conseguenze stilistiche di questa scelta sono lo schermo nello schermo, gli inserti, la decolorazione, la colorazione di parti dell’immagine, l’uso fantastico e straordinario della scrittura come corpo da godere. E’ la prima volta che si riesce ad ottenere una commistione così stretta di pittura, di scrittura e di piacere della carne vero e proprio, quindi di erotismo e grafia. Egli utilizza le tecnologie, però, nello stesso modo ne è padrone, e allo stesso modo può realizzare tutto con una matita ed un foglio di carta; non ha nessuna difficoltà ad illustrare i suoi film con una matita ed un foglio di block notes; voglio dire che in lui non c’è il feticismo della tecnologia, ma c’è un particolare: quando stava editando "The pillow book" sono andati in casa sua dei ladri, nella sua casa che è anche lo studio, gli hanno portato via tutte le attrezzature che lui utilizzava per montare il film, che erano, fra l’altro, tarate sui valori cromatici e sui colori che lui doveva usare per il film; quindi occorreva tantissimo tempo per ritarare nuovi strumenti. Greenaway non si è assolutamente perduto d’animo ed ha detto: "va bene, vuol dire che adesso penserò meglio a quello che devo fare; nel frattempo, le mie tecnologie ed i miei strumenti hanno fatto felice qualcuno a Il Cairo o forse a Mosca". Quindi, non si è preoccupato se la mafia egiziana o quella russa gli aveva trafugato cose che valevano anche migliaia di sterline.

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Domanda 4
In che modo viene utilizzata la tecnologia ne "L’ultima tempesta" e ne "I racconti del cuscino"?

Risposta
L’ uso delle tecnologie è sempre più consapevole. Prima ancora di realizzare "L’ultima tempesta" Greenaway aveva girato un mediometraggio che si chiamava "Death in the Seine", "I morti della Senna", in cui, per la prima volta, aveva scoperto la possibilità di usare la grafia come elemento portante di un film. Quindi, ci sono tutti questi referti di due impiegati dell’obitorio che scrivono i nomi di 400 morti per annegamento nella Senna. Prima ancora, aveva pensato di realizzare "La divina commedia" in video; ha girato i primi otto canti dell’Inferno, poi si è fermato; ma vuole proseguire in questo senso, utilizzando queste tecniche video. Prima, però, queste opere ancora possedevano un sapore da ricerca fotografica, se si vuole, di avanguardia della metà degli anni ’80. Adesso sembra che il regista abbia saputo fondere bene insieme la consapevolezza di poter utilizzare tutte le tecnologie possibili e l’uso di una semplicità di racconto, di narrazione. Il film "I racconti del cuscino" incuriosisce lo spettatore, che vuole conoscere la fine della storia; ciò, nei film di Greenaway, è cosa abbastanza rara. Invece, ora si assiste ad una sorta di scioglimento di questa durezza che Greenaway aveva proposto al suo pubblico anche nelle ultime prove di regia.

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Domanda 5
Indipendentemente dalla tematica e dall’approccio, quali sono state le innovazioni tecniche, in questi film?

Risposta
I passaggi innovativi si scorgono, a mio avviso, da una parte nella triplice fusione di schermi e di passaggi che vediamo scorrere sullo schermo; dall’altra, nell’uso di tecniche che comunque supera qualsiasi film hollywoodiano come perfezione tecnica, come quando vediamo gli aerei che corrono abbracciando l’orizzonte, quasi scappando fuori dalle case nel cielo di Hong Kong (perché, naturalmente, sono dei giochi di post-produzione). La tecnologia lui la usa quando è in possesso di un materiale filmato che è già di per sé interessante pittoricamente, la usa per mescolare le carte in post-produzione; quindi, ne "I racconti del cuscino" ha impegnato un anno del suo lavoro per organizzarlo in questo modo. Oltretutto, a questi grandi sogni futuribili del cinema come nuovo mezzo, secondo Greenaway, il cinema di oggi è esattamente uguale a quello degli anni ’10: non c’è stata nessuna innovazione, né narrativa, né tecnologica, e lui continua a pensare che il cinema, ben lontano dall’essere morto, non sia ancora nato. Tuttavia, l’uso delle nuove tecnologie, in realtà, anche in lui è molto più potenziale e teorico che non attuale, reale; egli usa le tecnologie che sono presenti nel suo tempo, così come ha utilizzato quelle della NHK giapponese quando ha dovuto montare "L’ultima tempesta"; però, non è, in realtà, uno sperimentatore tecnologico del digitale, non è un navigatore di Internet. Usa semplicemente quello che già è stato messo a punto da altri senza pensare ad una ricerca personale di impulso per le nuove tecnologie.

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Domanda 6
Però Lei sostiene che Greenaway, d’altro canto, utilizza la tecnologia in un fare strumentale dove prevale sempre la sua capacità creativa. Tuttavia, nel contempo, lo stesso Greenaway afferma che la tecnologia crea l’estetica.

Risposta
La tecnologia ha sempre creato l’estetica fino dal pre-cinema, quando le lanterne magiche permettevano queste riproduzioni di immagini sulla parete di casa; nascevano le famiglie attorno alle lanterne magiche. La tecnologia permetteva la riproduzione fotografica e chimica del mondo, nascevano i primi documenti dell’esistenza del mondo. Quindi, è attraverso la tecnologia che è stato possibile far nascere il cinema, ed è stato possibile conservare e depositare una memoria di ciò che siamo nell’attimo e mummificare il presente. E’ stato possibile sempre con le nuove tecnologie portare avanti dei nuovi discorsi cinematografici: dai primi tentativi di colorazione delle copie all’avvento del sonoro, all’avvento del cinema scope, formati sempre più larghi; poi, l’entusiasmo per il colore, per il technicolor: è sempre l’impulso tecnologico a dare vita ad un discorso stilistico. Tuttavia Greenaway non pensa che la tecnologia crei l’artista; l’artista esiste comunque, esiste come esisteva il pittore, con una eredità di 2000 anni. In seguito, questo pittore del terzo millennio diventa, quasi per evoluzione naturale, cineasta. Adesso che la pittura, in qualche modo, rischia di esaurire il suo compito, Greenaway si è confrontato con i percorsi di frontiera della pittura degli anni ’60, come, per esempio, la Land Art o altri movimenti, o come l’uso del collage di un certo Pop degli anni ’60. Egli ha quasi toccato i confini della pittura, e dopo questo momento si è rivolto al cinema come nuova forma di pittura contemporanea; l’artista, però, preesiste alle tecnologie che adopera; esse gli permettono di affrontare un percorso artistico diverso; ma una cosa è chiara in Greenaway: qualsiasi mezzo è utile al fine di portare avanti le sue idee. Quindi egli nasce come pittore, cresce come scrittore non pubblicato da nessuno, e poi, nella maturità, diventa regista, un regista di film in cui confluiscono tutte le opere precedenti, tutti gli sforzi del Greenaway pittore e del Greenaway romanziere e narratore.

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Domanda 7
In che senso allora, a Suo avviso, si potrebbe stabilire una differenza tra l’uso che Greenaway fa delle nuove tecnologie e l’uso che viene fatto nel cinema tradizionale?

Risposta
A mio parere in Greenaway c’è una consapevolezza di tutto quello che si trova dietro e prima del cinema: della storia dell’arte, dell’uso, sia simbolico, sia allegorico, di ciò che sta dentro l’inquadratura, di ciò che sta dentro l’immagine, che è infinitamente superiore a tutti coloro che usano, anche in maniera acritica, le nuove tecnologie. Esistono migliaia di lavori di videoasti, anche molto interessanti; però, nonostante un montaggio molto più raffinato di quello che Greenaway può operare, quasi mai riescono ad ottenere gli stessi risultati e la stessa complessità delle immagini di Greenaway. In Greenaway queste tecnologie sono nutrite di consapevolezza mitologica, simbolica, allegorica; c’è, in lui, una consapevolezza storica degli strumenti che usa. In un mediometraggio che si chiama "Making a splash", "Fare un tuffo", che è del 1984, Greenaway monta, straordinariamente, su una musica di Michael Nyman, delle immagini di vita acquatica. La bellezza di questo breve film è nella perfetta compenetrazione di musica e immagine che creano una sorta di video-clip ante-litteram straordinario; inoltre, queste immagini creano una storia fatta di niente: la goccia d’acqua che diventa un rivolo, poi un corso d’acqua, un fiume, un lago, un mare, poi i primi pesci, poi i primi esseri viventi più strutturati fino a comporre una lunga catena che si conclude con l’essere umano. Ecco: tutto questo, forse, un videasta in possesso anche di tecnologie più sofisticate, non l’avrebbe saputo fare.

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Domanda 8
Greenaway sostiene che il cinema non è mai veramente nato, che bisogna reinventare il linguaggio cinematografico, e, soprattutto, che il cinema è rimasto prigioniero dello scritto, in senso tradizionale, nel senso di romanzo ottocentesco. Cosa significa?

Risposta
Questa è la grande battaglia di Greenaway: una battaglia contro la narrazione tradizionale, nella quale, come in ogni sceneggiatura, in ogni storia, c’è un inizio, un conflitto che il personaggio si trova a dover fronteggiare, uno sviluppo, un colpo di scena ed una fine. Lui è assolutamente nemico di tutto ciò; i suoi film vogliono svilupparsi a partire da altre premesse. Quali sono queste altre premesse? Greenaway, nel corso dei suoi film, ne ha trovate varie: l’alfabeto, i numeri, i colori come sistemi di segni a partire dai quali sviluppare una narrazione. "Giochi nell’acqua" è l’esempio più famoso: un film scandito sui numeri dall’uno al cento. In "Twenty six bathrooms" le lettere dell’alfabeto ne custodiscono il segreto: si tratta di un film su ventisei stanze da bagno, divertentissimo, fra l’altro. In "Lo zoo di Venere" l’alfabeto è un filo conduttore che lega la narrazione. Greenaway ha sempre bisogno, cercando di togliere la narrazione tradizionale, di un’altra griglia, di uno schema su cui innestare tutto il suo racconto. Perciò, i suoi film, non sono come una specie di filo che si snoda dal punto A al punto B tirandolo ed arrivando a questo finale, ma sono piuttosto come la mappa di un quartiere di Londra vista dall’alto di un aereo, composta di tante stradine uguali, di tante casettine tutte uguali; noi riusciamo a vedere dall’alto tutto il film come un unico istante sincronico nel quale abbiamo la mappa di tutto ciò che ci interessa. E’ per questo che Greenaway vorrebbe che potessimo vedere i suoi film partendo da un punto qualsiasi della mappa; quindi, partendo da un punto qualsiasi del film stesso; vorrebbe che i suoi film fossero visibili e godibili partendo anche dal finale. E’ un aspetto rivoluzionario, questo! Non sappiamo se riuscirà del tutto ad attuare questa grande rivoluzione, però è vero che il prossimo film che lui sta’ pensando, che prende il titolo di "The Talls Looper suitcase", "La valigia di Talls Looper", vorrebbe che fosse voltato sul CD ROM e che lo spettatore-viaggiatore sul CD ROM potesse partire da qualsiasi punto: non importa più partire dall’inizio di una storia perché la storia in sé è qualcos’altro rispetto a ciò a cui ci hanno abituati ormai da un secolo.

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Domanda 9
Si è parlato di proliferazione dei punti di vista, di schermi che si aprono di continuo, gli inserti calligrafici, della ricchezza pittorica del quadro, dell’assenza di una linearità narrativa; in questa prospettiva si può parlare di cinema multimediale?

Risposta
Io credo che il suo godimento di autore sia nel disseminare indizi per lo spettatore, per uno spettatore ideale che non esiste perché, magari, dovrebbe conoscere il giapponese, come il cinese mandarino, come l’inglese perfettamente, come la storia della mitologia e la storia della pittura. Noi possiamo godere i film di Greenaway anche senza conoscere tutte queste cose, cercando di penetrare le mille domande che Greenaway pone a noi spettatori; si entra in un gioco che è guidato da lui, da quello che Domenico De Gaetano chiama la "profondità dell’immagine", che non è la profondità di campo così come la intendiamo usualmente, dove possiamo vedere anche in fondo che cosa c’è. Nei film di Greenaway molto spesso la profondità di campo è variabile; quello che è profondo è la quantità di informazioni che ogni immagine contiene, accoglie ed abbraccia. L’esempio più facile è un breve film che lui ha girato: "Una passeggiata nella biblioteca di Prospero"; Greenaway ha preso l’inizio del suo film "L’ultima tempesta", nel quale vediamo tanti personaggi intorno a Prospero interpretato da John Gielgud, e poi ripercorre varie volte questa prima sequenza spiegandoci chi sono tutti questi personaggi; sono cento: Leda con il cigno, Archimede, Pitagora, Vulcano, tutti personaggi della mitologia che hanno in un modo o nell’altro a che fare con l’acqua; e il regista percorre un interessantissimo itinerario per raccontarci che cosa c’è dietro questa sua sequenza, che dura pochissimi minuti nell’originale, nel film "L’ultima tempesta". Questo cosa vuol dire? Che noi, di tutti i film di Greenaway potremmo ripercorrere, magari all’infinito, le sequenze, trovando sempre nuovi particolari, nuove aperture, nuove finestre, quello che Greenaway stesso chiama "apertura verso l’orizzontalità dell’immagine". Per questa ragione lui vorrebbe realizzare un film su CD ROM: affinché ognuno potesse allargarsi in orizzontale e chiedersi: "ma chi è questo personaggio? Da dove viene? Qual è la storia che l’ha portato fin lì? Qual è l’allusione, per esempio, nei nomi delle stelle che compaiono in "Giochi nell’acqua"? E così via.  Non è un caso un libro appena uscito su Greenaway, sia costruito a finestre, come una sorta di continue finestre che compaiono nel testo ad illustrare questa o quella parola chiave del testo su Greenaway.

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Domanda 10
Tenendo presente questa impostazione, come cambia il ruolo dello spettatore? Personalmente ho sempre pensato che si trattasse di un’esperienza bellica vedere un film di Greenaway, perché uno combatte con lo schermo per non farsi seppellire!

Risposta
Il ruolo dello spettatore cambia moltissimo; cambia perché Greenaway vuole farlo cambiare: questo è fuori di dubbio. Egli vuole uno spettatore che assomigli sempre di più al visitatore di una mostra; non è un caso che Greenaway abbia allestito vere e proprie mostre, come quella sul volo o come "Cento oggetti per rappresentare il mondo", che abbia pensato all’allestimento di opere liriche come "Rosa" e che realizzi progetti che sono a metà fra il cinema e qualche cosa d’altro. Ne elenco alcuni: ha in mente di illuminare la Mole Antonelliana, dove si stabilirà il nuovo museo nazionale del cinema, ed ha in mente di vestirla di luce, come il personaggio interpretato da Brigitte Helm in "Metropolis": con cerchi di luce che salgono; questi cerchi di luce dovrebbero, poi, raccontare, in qualche modo, il passato, il presente ed il futuro del cinema, sulla scia della cosmologia che aveva preparato proprio per Roma, e che dopo due anni, finalmente, è riuscito a mettere in scena, quasi come se si trattasse di un suo nuovo film. A questo proposito ha detto: "sono molto contento, mi sentivo per un momento al centro di Roma che è al centro del mondo: io, a distribuire la luce del mondo un po’ come Dio". Ci sono ancora altri progetti: uno che coinvolge Salisburgo, nella quale allestirà una grande rappresentazione-evento che si chiama "Cento oggetti per rappresentare il mondo"; uno dei cento oggetti è Dio. Come si rappresenta Dio? Con tre domande fondamentali, secondo Greenaway: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Lui ha chiesto al suo calligrafo - colui che ha svolto tutte le operazioni di calligrafia per "L’ultima tempesta" e gran parte per "I racconti del cuscino" - di prendere un enorme pennello, un enorme secchio di vernice, di andare sulla scogliera sotto il castello di Salisburgo, e scrivere su un enorme telo bianco queste tre domande; quindi, di stare sospeso nel vuoto come un imbianchino, se si vuole, e scrivere con la calligrafia che gli è propria le tre domande visibili da tutta la città. Questo è un suo modo di cambiare il ruolo dello spettatore: lo spettatore può camminare, vede quello che non è più cinema, ma è evento, attraverso l’eredità dei grandi artisti Land Art. Ecco: Greenaway ha un’idea dell’arte come performance, come operazione sulle città. "Stairs", "Scale" o "Scalini": un’altra operazione nel corso della quale, a Ginevra, aveva posto degli scalini nei punti strategici della città; con una specie di piccolo oblò si saliva su questi scalini e si andava a vedere quello che lui diceva di vedere; si guardava dal piccolo oblò e si vedeva una specie di piccolo schermo che, però, era la realtà della città di Ginevra. Cento punti per una rappresentazione scelta, ma anche nella quale lo spettatore fosse libero di vagare a piacimento. Quindi, l’idea di scelta dell’autore, ma di libertà dello spettatore, è fondamentale in Greenaway. Il cinema si deve accordare con questa idea, deve essere un tipo di cinema dove si può scappare con gli sviluppi laterali dell’immagine, un tipo di cinema che sia un’opera totale: Greenaway accarezza anche il sogno wagneriano dell’opera totale. A 360° lui parla spesso di Omnimax, che concepisce come uno schermo enorme che sta’ tutto intorno allo spettatore, per cui lo spettatore si trova affondato nel film, nella vicenda raccontata dal film e nelle sue immagini. Al contempo, un’Omnimax lo immagina in Odorama, nel quale si possano sentire addirittura odori e i sapori, oltre ai suoni. Quindi, il film diviene un’esperienza globale, totale. In tutto questo dove si scorge la libertà, la libertà di camminare come dentro un edificio? Greenaway sostiene: "nei miei film si deve poter passeggiare come dentro un edificio progettato da Renzo Piano; io passeggio, io scelgo i punti di vista, però sono sempre all’interno di una visione di un autore, ed in questo caso di un grande autore."

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