INTERVIEW:
Domanda 1
Nel Suo intervento, Lei parla della "globalizzazione". Ci può descrivere il
fenomeno?
Risposta
Il fenomeno della "globalizzazione" implica, nel campo delle comunicazioni, che
ci sia una rete sempre più fitta, sempre più articolata di rapporti tra individui e
gruppi, favoriti, ormai da oltre un secolo e mezzo, da strumenti tecnici. Si è iniziato
col telegrafo, si è proseguiti con il telefono, poi con la radio bilocale - quella di
Marconi, che all'inizio era soltanto da stazione emittente a stazione ricevente -; poi,
nel 1922, con la radio circolare, quella che sentiamo oggi. Nel '29 sono iniziati i primi
esperImenti con la televisione, poi con il magnetofono nel '38 e poi, nel 1984, siamo
giunti ad Internet ad uso civile ed oggi assistiamo alla diffusione della televisione
digitale, satellitare e a tutti i sistemi multimediali: C.D.A., C.D. Rom, e così via.
Quindi, la "globalizzazione", da questo punto di vista, oltre che dal punto di
vista economico - perché il termine nasce nell'ambito dell'economia, di un mercato
mondiale - implica che vi sia tutto questo sistema di relazioni. Ciò, per certi aspetti,
è un vantaggio, perché permette un flusso di informazioni in tempo reale, o, comunque,
con pochissimo spazio di tempo tra il ricevere un'informazione e il
"rimpallarla" dall'altra parte; tuttavia, io ho cercato di sottolineare, anche
di fronte a questa retorica che si fa della "globalizzazione" nel campo delle
comunicazioni, come se tutto il mondo fosse unificato, anche determinati pericoli. Io
penso soprattutto a quelle concentrazioni di carattere economico, che si sviluppano, in
prospettiva, in tutto il mondo - ma che negli Stati Uniti sono già mature - tra catene
cinematografiche e televisive e discografiche; tra giornali, riviste e università, per
creare quelle che chiamano delle "mega corporations", le quali agiranno non
soltanto nel campo dell'informazione, ma anche nel campo dell'educazione e della
formazione, poiché, attraverso tutti questi mezzi, si arriverà ad un sistema di
educazione permanente, e il senso comune verrà plasmato. Il mio timore - non troppo
peregrino -, è che questi processi vengano controllati dall'alto in maniera oligarchica,
cioè da pochi, e che tale controllo possa portare, non dico ad un pensiero unico nel
senso che tutto il mondo possa essere indotto a pensare e a sentire allo stesso modo, ma
certamente che possa condurre ad una riduzione degli spazi di libertà. Per questo motivo
io credo che sistemi di informazione o di educazione pubblica possano essere una forma di
bilanciamento; in questa direzione, come grandi modelli, penso al "Canale 13",
la "public television" americana, che vive però a stenti, perché dipende da
donazioni, ormai, di privati; penso al "Channel Four" inglese, che dà voce alle
minoranze, anche quelle che hanno gusti specifici, non soltanto minoranze linguistiche e
culturali; penso, infine, alla B.B.C.. Dicevo, dunque, del rischio a cui si può andare
incontro con questi sistemi di "globalizzazione", con sistemi di informazione
via satellite, che permettono che in tutto il mondo si abbia la percezione immediata
dell'avvenimento; ed, in proposito, un esempio è la Guerra del Golfo. Molti di noi hanno
visto il bombardamento notturno su Baghdad, praticamente quando stava avvenendo. Io credo,
comunque, che l'antidoto lo abbia già il mezzo; intendo dire: la scelta. A settembre
verrà lanciato un satellite europeo di telecomunicazioni, che permetterà la scelta di
cinquecento canali, e i canali saranno, appunto, tematici nel campo televisivo, oppure
attraverso Internet; la novità di oggi è lo scambio da persona a persona. Molte persone
si sono innamorate, si sono separate attraverso Internet. Dico questo per chiarire che lo
scambio non è sempre sul piano intellettuale, o soltanto di informazione, ma anche su un
piano emotivo, al livello di immagine. Noi stiamo entrando, io credo, in una dimensione
nuova in cui bisogna valutare anche i rischi a cui andiamo incontro. Non bisogna,
certamente, demonizzare questi mezzi, ma é necessario farne un uso che sia tale da
limitare gli inevitabili rischi, cioè l'omologazione.
Domanda 2
Lei identifica la cultura statunitense orientata verso la "globalizzazione". Il
Centro Studi "San Salvador", nel Suo rapporto, individua alcune cause del
ritardo europeo, ed ancora, il ritardo italiano rispetto a quello europeo. Qual è il
limite principale: la formazione, la liberalizzazione o la tecnica?
Risposta
Per quanto riguarda l'Italia, credo sia l'integrazione ancora giovane tra le tecniche la
causa principale di questo ritardo, che in altri paesi è più avanzata. Non sentirei,
invece, di dare un voto negativo alla qualità degli operatori nel campo delle
telecomunicazioni, ed in particolare, della televisione in Italia. Per quanto concerne la
liberalizzazione, francamente, non saprei. La liberalizzazione produce anche degli effetti
perversi. Bisognerebbe vedere se si vuol fare, ad esempio, nel campo della televisione o,
comunque, delle comunicazioni anche via Internet, un sistema in cui l'informazione o lo
spettacolo serva soltanto da cellophane o da nastrino per regali per trasmettere degli
"spots" commerciali. In questo senso la televisione, in realtà, non è altro
che una televendita; La televisione sia pubblica che privata deve, viceversa, accompagnare
i processi di crescita e di apprendimento delle persone, non soltanto nel senso
scolastico; la televisione può aiutare la crescita, non dico ad un'educazione permanente,
ma attraverso la scelta di programmi di qualità in tutti i settori. Quello che conta non
è soltanto il "cosa" si trasmette, ma il "come". Io credo che sia
cultura, ad esempio, anche una partita di calcio ben commentata, con un buon italiano o un
buon inglese, o una ricetta di cucina. Dipende dal modo in cui si lavora. Non dobbiamo,
quindi, metter la cultura sul piedistallo, perché un modo per tenerla a distanza più che
rispettosa è isolarla. La cultura, secondo me, è il modo in cui le informazioni si
trasmettono. Uno dei rischi del rapporto pubblico-privato, e anche nei rapporti tra i vari
paesi, è quello che in termini inglesi si direbbe "pidginizzazione". Il
"pidgin" è l'inglese delle colonie, l'uso del linguaggio all'infinito: "Io
Tarzan, tu Jane". Il rischio è che si comprino dei programmi o dei prodotti senza
sforzarsi di produrli. Un esempio lampante di qualità del prodotto, in questo senso, sono
certe forme di "telenovélas" o "soap opera". Il rischio è quello di
produrre una cultura egemone: i paesi colonizzati mentalmente o che si autocolonizzano,
assumono, cioè, una forma goffa d'imitazione, che non poteva essere quella di Alberto
Sordi quando faceva l'americano di Kansas City. In questo vedo un grande pericolo: che non
si riesca ad avere un'autonomia culturale, non per motivi nazionalistici, ma per ragioni
di "identità" di produzione. Si diventa fruitori di cultura o di programmi che,
però, non si raccordano bene con le tradizioni di una certa nazione, di un certo ceto
culturale. In questa direzione si finisce con il produrre fenomeni deteriori di
imitazione, oppure si aiuta a creare il puro rifiuto della televisione, da parte di coloro
che non vogliono cadere nella melma del populismo.
Domanda 3
Nel rapporto fra i processi centrifughi e centripeti, globalizzazione e invece
localizzazione, Lei usa il termine "glocalizzazione". Ci può spiegare di che si
tratta?
Risposta
Si tratta di non contrapporre il locale al globale: di non pensare, da un lato, che il
mondo sia unificato e che, di conseguenza, noi tutti siamo inseriti in un circolo virtuoso
attraverso il quale tutta questa ricchezza di informazioni si dirige verso il meglio. I
cosiddetti "localismi" o, per certi aspetti, quelli che noi chiamiamo
"integralismi" - senza evangelicamente guardare la trave nel nostro occhio dando
sempre la colpa agli altri - possono essere considerati un contraccolpo dei processi di
"globalizzazione". Io penso soprattutto, ad esempio, ai paesi arabi, che una
volta seguivano la modernizzazione occidentale, come la Siria o l'Algeria. La loro
chiusura in se stessi deriva, in fondo, da una percezione di amore quasi tradito, poiché
non si sentono inseriti a pieno titolo e con pari dignità nei progetti che contano. In
quest'ambito della "globalizzazione", bisogna vedere, dunque anche gli aspetti
di frammentazione locale. Poi c'è la "localizzazione": un fenomeno economico,
che noi, in Italia, indirettamente, conosciamo abbastanza bene. Un esempio sono i
produttori di magliette di Treviso: fanno produrre le magliette a Taiwan o a Seul, e poi,
le targano Treviso; oppure la I.B.M. americana, che licenzia quasi metà del suo
personale, perché si fa fare il "software", cioè i programmi informatici,
dagli Indiani poiché costano otto volte meno, e si fa fare l'"hardware", cioè
le macchine in pezzi, a Formosa, oppure a Singapore, poiché costano sempre molto meno.
Inoltre c'è un problema di carattere più generale, a mio parere, in questa questione
della "localizzazione": gli investimenti, ormai, vanno non solo dove c'è
forza-lavoro a basso prezzo, ma anche dove c'è sicurezza politica. E' il motivo per il
quale, per esempio, la Fiat installa i suoi stabilimenti a Melfi o a Teramo, dove non c'è
camorra, mafia o sacra corona unita. Il problema, dunque, non riguarda soltanto i costi,
ma anche le garanzie. E questo, per l'Italia e per l'Europa, costituisce, in prospettiva,
un pericolo. Se noi non ci attrezziamo o a diminuire il costo della mano d'opera o ad
elevare il nostro livello tecnologico, rischiamo di erodere tutte le conquiste che un
secolo e mezzo fa son state fatte dallo stato sociale. Ciò si può scorgere già
nell'attacco alle pensioni, alla sicurezza. A Bagnoli, vicino Napoli, si son chiusi degli
stabilimenti perché i laminati d'acciaio si producono nel Sud-Est asiatico o altrove a
prezzi nettamente inferiori. L'Italia, che ha poche materie prime, come l'Europa, in
generale, o alza il livello della sfida tecnologica o si chiude dentro le sue frontiere.
Ma dentro le sue frontiere non si può chiudere più di tanto tempo. E allora sarà
costretta a fare i conti con la mano d'opera asiatica, che costa poco, e con lo sviluppo
tecnologico del Giappone e degli Stati Uniti, ma anche con lo sviluppo tecnologico
tedesco, che sta riprendendo il primato nel campo della tecnologia media, quella che si
usa per le automobili.
Domanda 4
Quali sono i tratti di un'etica planetaria?
Risposta
Noi abbiamo un sistema di comunicazioni inteso in senso materiale e in senso immateriale.
Mi spiego. I mezzi di comunicazione materiale sono: l'aereo, la nave, sono i mezzi che
permettono spostamenti veloci, sia per turismo, sia per affari, sia per conoscere. I mezzi
immateriali sono: la televisione, la teleconferenza, e così dicendo. Ciò ha permesso
all'Italia - che era un paese che esportava mano d'opera, di emigrati -, di diventare un
paese anche di immigrati, mette a contatto culture diverse. Oggi, non possiamo più fare
affidamento sulla tradizione, su quelli che erano i nostri valori. E soprattutto non
dobbiamo pensare, in maniera tendenzialmente razzistica, che noi siamo migliori degli
altri. Questo processo, però, proprio perché ha un'etica, un modo di comportamento,
regole di condotta, scale di valori, è un processo molto faticoso. Noi dovremmo, per
così dire, sradicarci dalle nostre convinzioni, senza, naturalmente, svenderle, ponendole
in contrasto, in paragone con gli altri, per cercare di creare un sistema minimo di valori
condivisibili e compatibili; ma che siano valori argomentabili, che siano ragionevoli, non
imposti. Noi dobbiamo essere in grado di confrontarci continuamente con un giapponese che
viene in Italia a vendere motociclette, o con una persona del Ghana, che viene in Italia a
vendere tappeti; tra un po' di tempo ci saranno anche in Italia società multiculturali, i
figli degli immigrati andranno a scuole islamiche o non islamiche: a Roma c'è una moschea
proprio su Monte Mario, che guarda San Pietro. Quindi bisognerà trovare dei livelli di
intesa fra le diverse culture, altrimenti il rischio è che al posto di un'etica mondiale,
si avrà una frizione, uno scontro tra tante etiche particolari. Io credo che il processo
sia duro e difficile, perché noi siamo stati abituati, per tanto tempo, ad essere
residenziali, legati ad un territorio; per dirla in tono scherzoso, c'è l'etica del
siciliano, per il quale, ad esempio, la gelosia è un valore; ci sono zone, come il mondo
arabo, in cui i rapporti sociali sono diversi e danno luogo a comportamenti diversi
rispetto al lavoro. Noi dobbiamo avere dei valori che non siano "standard", ma
che siano la media di qualche cosa. Dobbiamo avere delle regole che ci permettano di
considerare tutti gli uomini come appartenenti ad una razza umana, senza dimenticare le
differenze. E questo è un compito che, a parer mio, sarà difficilissimo. L'incontro tra
le culture, che sembra già compiuto attraverso questi mezzi di comunicazione di massa, in
realtà è soltanto all'inizio. Noi siamo - è già stato detto - al V° secolo dell'era
globale, cioè, da quando Cristoforo Colombo ha unito, involontariamente, il vecchio e il
nuovo mondo. Ci stiamo cercando, quindi, da cinque secoli. Ma la storia dell'"homo
sapiens", come dicono gli studiosi della materia, è una storia che ha, per quanto
riguarda la nostra specie, dai 150.000 ai 180.000 anni; cinque secoli, dunque, rispetto a
questa catena evolutiva, se non vogliamo considerare gli antenati, il cosiddetto
"homo habilis", sono pochissimi. E gli uomini che sono nati probabilmente da una
piccola famiglia in Africa, che poi si è diffusa in tutto il mondo, è quasi commovente
vedere come si siano rincontrati soltanto cinque secoli fa, pur nascendo da uno stesso
ceppo. Attraverso una parte della cellula che si chiama "mitocondrio" - che
permette di studiare queste fasi evolutive - si è scoperto che cinquemila donne che si
trovavano in qualche altopiano dell'Africa australe, abbiano prodotto tutte le speci
umane: i gialli, i neri, i bianchi, i pellerossa. Quindi siamo tutti di un unico ceppo e
ci siamo rincontrati, dopo decine di migliaia di anni, e stiamo faticando a riconoscerci.
Domanda 5
Alberto Abruzzese, nel suo intervento, individua nelle nuove tecnologie una vocazione a
sfuggire ai linguaggi forti della tradizione moderna con una tendenza, invece, verso una
situazione più comunicazionale. Condivide i termini di questa riflessione?
Risposta
Bisogna vedere in che contesto colloca questa riflessione. Certamente la comunicazione
moderna, rispetto alla tradizione del libro da cui noi proveniamo, contiene un sapere
imposto da "colui che sa": il libro non richiede risposte. La cultura che nasce
sulla civiltà del libro o, che comunque, nasce dalla scrittura, è una cultura che deve
essere necessariamente forte, perché non può essere modificata. Mentre, viceversa, la
cultura della trasmissione, in cui l'oralità ha ripreso un enorme peso - o, quantomeno
l'orale e lo scritto insieme, perché si può vedere scorrere come sottotitolatura quello
che uno dice, in un'altra lingua - permette uno scambio ed un adattamento reciproco. E'
molto più flessibile e più elastica, così come sono elastiche le tecnologie a distanza.
La "Telemedicina", in questo senso, io credo che avrà un grande sviluppo. Nel
settembre dell'anno scorso, a Milano, è stata compiuta la prima operazione con un bisturi
mosso da un chirurgo che si trovava ad una decina di chilometri di distanza dalla sala
operatoria. Quindi non dobbiamo pensare a comunicazioni soltanto tra uomini e uomini, ma
anche tra uomini e macchine. Questa operazione, secondo me, col bisturi a distanza, anche
se è stata compiuta in via sperimentale, può diventare una soluzione interessante.
Pensiamo soltanto a cosa può succedere in un continente grande come l'Australia, dove la
gente abita nell' "out dek", nell'interno, in cui il "flying doctor",
il "dottore volante", fino ad ora è andato avanti utilizzando aerei piccolini,
atterrando su piste di terra battuta per poter curare questi contadini. D'ora in poi,
anziché servirsi dei sistemi dei grandi ospedali attrezzati, si potranno fare
consultazioni cardiache a domicilio. Esiste già un apparecchietto, una valigetta, per
realizzare persino piccole operazioni. Quindi, il rapporto uomo-macchina rappresenterà,
anche per effetto della comunicazione, un altro modo di vivere.
Domanda 6
Stefano Rodotà, in un articolo scirtto recentemente, afferma che la società
dell'informazione rischia di "rovesciarsi" nella società dell'esclusione. E ha
definito il divario fra le persone come una sorta di "apartheid informatica".
Esiste, a suo avviso, questo richio di "appartheid informatica"?
Risposta
Esiste, eccome! Come prima esisteva il rischio dell'analfabetismo, che era una forma di
esclusione, ed era legato all'apprendimento di certi saperi, anche elementari, oggi, chi
non riesce a creare dei collegamenti attraverso conoscenze di tipo informatico, tipiche
della società dell'informazione, e soprattutto chi non si aggiorna continuamente, rischia
effettivamente di essere un escluso. Anche perché, come voi sapete meglio di me poiché
operate in questo campo, l'informazione attualmente è ricchezza, quindi banche-dati. Le
banche-dati ormai son più protette di Fort Knox, nel senso che il sapere si deposita in
strutture sostanzialmente immateriali, in questi "bit" di informazione. E poi,
come si può vedere, è la prima volta, nella storia dell'umanità, che ricchezze così
enormi vengono realizzate da giovani come Bill Gates o come quelli che inventano certe
strutture e certi programmi, "netscape", o Internet a uso civile. In genere, per
accumulare queste centinaia di miliardi di lire, ci vogliono almeno due o tre generazioni,
come è stato per gli Agnelli in Italia. Invece, oggi, l'accesso anche alla ricchezza è
molto legato a questi elementi di inventiva. Non per nulla l'ultimo numero di
"Fortune" colloca Bill Gates al primo posto, poiché si può comprare il codice
"Leonard", il codice "hammer" di Leonardo tranquillamente, senza
"svenarsi". E questo dimostra che l'informazione è potere, l'informazione è
l'innovazione tecnologica. Oltre che potere nel senso di prestigio, è anche potere nel
senso economico, il potere capace di muovere tante ruote.
Domanda 7
Un'altra delle ricadute di questo divario viene analizzata dall'economista Rifkin, in un
suo scritto: "La fine del lavoro". Egli vede emergere due grandi classi o caste,
per certi versi: da un lato gli "knowledge workers", gli "analisti di
simboli", coloro che detengono le conoscenze tecnologiche; dall'altro, un crescente
numero di lavoratori, prevalentemente in eccesso. Secondo molti altri, la possibilità di
liberarsi dal lavoro materiale rappresenta, viceversa, la possibilità di liberare energie
creative. Cosa pensa in proposito?
Risposta
Io non credo che il potere sia tutto riducibile al potere simbolico. Esistono dei poteri
non simbolici, ma molto efficaci, come il potere militare. Il potere di dare vita o morte
- penso al generale Lebed in Russia o a altri in parti del mondo -, si può definire
simbolico, ma è tremendamente reale. E poi, penso che coloro che sono esclusi, siano
esclusi per effetto di ciò che è un bene, paradossalmente. Il progresso tecnologico,
ormai dai tempi delle invenzioni delle macchine e dei luddisti inglesi che andavano a
spaccare le macchine, ha sempre prodotto disoccupazione. Il problema è stato quello
dell'assorbimento della produzione, di una sovrapproduzione, da un lato, perché le
macchine producono tante cose, molto di più della manifattura; dall'altro il problema del
sottoconsumo: la gente non aveva soldi per comprare tutti i beni prodotti dall'industria.
Per cui tutta l'economia politica dell'Ottocento e del Novecento, dalla metà
dell'Ottocento in poi, è stata un tentativo di aumentare il potere di acquisto e quindi
di eliminare, entro un certo limite, il sottoconsumo, per permettere di comprare molto. La
fabbrica taylorista, per esempio, vendeva moltissimo, e aveva pochi modelli. Ford sapeva
di potere programmare la produzione nei tempi lunghi, poiché c'era un mercato
praticamente infinito di assorbimento. Si è rimediato, in un certo modo, a questa forbice
sovrapproduzione-sottoconsumo aumentando i consumi. Ora, però, questa leva comincia ad
entrare in crisi, perché non tutti sono in grado di accedere a certi beni; se tutti
accedessero ai beni che possiede, per esempio, l'Occidente, si assisterebbe a disastri
ecologici, alla distruzione delle foreste amazzoniche: un certo modello non ha più
possibilità di espansione. Paradossalmente, c'è bisogno disoccupazione. Molti studiosi
giapponesi che stanno imponendo le loro idee, sostengono che bisognerà dividere il mondo
in "strisce di zebra": zone di duecento, trecento milioni di persone, che stanno
bene, perché là si concentrano attività economiche, ed il resto del mondo che vada in
malora. In alcuni paesi africani sub-sahariani ci son problemi legati all'oro e ai
diamanti, quindi ad una loro ricchezza interna; così come nel Lagos o nella Nigeria, dove
c'è petrolio: questa parte dell'Africa viene completamente abbandonata. Quindi c'è il
rischio di un modello produttivo che potremmo chiamare il "modello Toyota", un
modello post-fordista che è stato definito flessibile, in cui quello che conta non è
più la programmazione, ma le esigenze variabili del mercato. Per questo, in Italia, anche
la Fiat produce circa centrotrentun colori per "Bravo" o "Brava",
perché si produce "just in time", cioè "di momento in momento". Il
grande stoccaggio non esiste più, perché l'immagazzinamento ha bisogno di costi elevati.
Si adotta, dunque, il sistema della "localizzazione". I camioncini che si
chiamano "Ducato", la Fiat li fa costruire a Bel Orizonte e in Brasile, poi
vengono trasportati in Italia, perché è più conveniente. Alcune parti si producono in
fabbriche polacche. Tutto questa mobilità degli investimenti, della forza-lavoro,
provoca, in prospettiva, una disoccupazione crescente, e la perdita del "posto
fisso" a cui noi eravamo affezionati. Io non so se è vero quello che dice Clinton o
il vicepresidente Al Gore, che dovremmo abituarci alla nostra vita, dovranno abituarsi i
nostri figli e nipoti a cambiare mestieri cinque, sette volte, durante la nostra vita. Il
problema è che società come quella americana, pur nella loro durezza, permettono questa
mobilità del lavoro. Bisogna riflettere se società molto più rigide come quella europea
e quella italiana, permettono tale mobilità, o se invece una persona che non trova
lavoro, non lo trova e basta.
Domanda 8
In quest'epoca di trasformazione si avverte una sorta di incapacità della classe politica
a saper reagire agli stimoli differenziati di una società complessa. Per certi versi,
l'idea di una democrazia diretta, crea una serie di stimoli, per cui la politica non
riesce più coerentemente e chiaramente a scegliere le strade. Quali potrebbero essere, a
suo avviso, le strade da scegliere?
Risposta
Intanto bisogna partire da un dato di fatto: la caduta del Muro di Berlino. Quasi nessuno,
però, si è accorto di un'altra caduta, che riguarda tutti noi: son cadute le pareti
domestiche; la politica, cioè, è entrata in casa, attraverso la radio prima, e la
televisione poi, contagiando, per così dire, dei ceti o delle fasce di età che prima ne
erano esenti. Donne, bambini, contadini, gente che vive isolata: tutti sono introdotti in
un circuito di comunicazione, che non è soltanto virtuale, ma, per gli effetti che
produce, è molto reale. La politica, tempo fa, era un sistema di grandi aggregazioni, un
sistema di massa, con i partiti "etici", come poteva essere il P.C.I. o la D.C.
in Italia, che si dividevano sulle grandi questioni quando c'era ancora il mondo spaccato
in due; oggi, la divisione politica non passa più su grandi scelte ideali, poiché, più
o meno, tende tutto ad omogeneizzarsi, almeno in Occidente. Quindi, le grandi scelte
politiche non vengono più tagliate secondo linee discriminanti, opposte o alternative.
Per questo motivo i politici hanno difficoltà, per così dire, ad individuare i
"pacchetti", come dicono gli Americani, i "packages" di problemi che
devono trattare. Si deve spingere, allora, di volta in volta, a fare una mistura: a
distinguersi in rapporto alle pensioni, oppure in rapporto alla sanità; su problemi,
dunque, che in realtà impegnano perché son problemi reali, toccano la vita di tutti i
giorni, ma che non portano grandi tensioni ideali ed in cui è difficile cogliere quello
che è giusto e quello che non è giusto, non avendo competenze specifiche. Come si può
incidere, ad esempio, sull'energia atomica? E' giusto fare centrali nucleari oppure non è
giusto? Praticamente, nessuno di noi è in grado di saperlo. Forse qualche esperto. La
politica, perciò, va avanti attraverso questi sondaggi e dipende molto di più dal
cittadino elettore che cambia i suoi gusti ed i suoi orientamenti. Noi l'abbiamo visto
anche recentemente nella storia italiana. Dopo un periodo di immobilità durato quasi
cinquant'anni, improvvisamente le cose si sono scongelate. Probabilmente guardando la
geografia elettorale si scoprirà che, dietro i nuovi partiti, ci stanno quelli vecchi e
che certe distribuzioni riproducono lo stesso schema: nel Nord-Est d'Italia, per esempio,
pare che, sostanzialmente, i votanti della Lega corrispondono a quelli della vecchia D.C..
Uscendo dalla cronaca italiana, quello che mi sembra importante è il fatto che la
politica abbia bisogno - e questo viene sempre più sentito - di una capacità di
decisione, quindi del rafforzamento dell'esecutivo, ma proprio perché ha di fronte una
società inquieta, che non è ribelle. Insomma: mentre, prima, i regimi totalitari del
nostro secolo avevano, per così dire, invaso la coscienza degli uomini ed erano riusciti
a portare dentro la loro coscienza l'interiorizzazione della figura del capo - quindi una
struttura gerarchica -, oggi, la politica nelle società democratiche (per fortuna!) ha
fatto dei passi indietro, non pretende più di guidare la vita degli individui oltre un
certo limite. Né gli individui vogliono dare immediatamente fiducia ai politici, come le
società gerarchiche. Esiste, dunque, una negoziazione e una mobilità continue. In questo
senso la politica mostra da un lato la sua impotenza, espressa dal modo spettacolare delle
liti che, per esempio, si fanno in televisione; ciò non è sintomo del potere della
politica, ma della difficoltà di far credere alle persone determinate istanze. Si insiste
tanto, si fa tanto "battage", perché la gente difficilmente si fa convincere. E
ciò pone anche qualche interrogativo sul potere effettivo della televisione.
Probabilmente è vero che la televisione produce un impatto enorme sulle persone, ma non
si devono sottovalutare anche gli effetti di rigetto che l'abuso del mezzo televisivo
porta nei politici. In fondo la televisione può innalzare un politico, come lo può far
crollare per eccesso di presenzialismo.
Domanda 9
La velocità e la quantità degli stimoli informativi provenienti dai nuovi media, urta
contro la capacità riflessiva, ricettiva dell'individuo. Non si corre il rischio di
un'inflazione di stimoli che concorrono alla perdita del senso?
Risposta
L'eccesso di informazione, certamente, finisce per diventare disinformazione, un po' come
avviene con i carrelli del supermercato: uno piglia quello che trova, per combinazione; è
quello che i Francesi chiamano "bricolage", come nei negozi dei robivecchi: uno
va e piglia delle cose che son capitate per caso. Alcune persone che lavorano alla radio e
alla televisione, mi hanno spiegato che ormai il palinsesto, famoso, famigerato,
palinsesto composto da tecnici che stabiliscono gli orari e i contenuti dei programmi, tra
poco lo deciderà il pubblico. Perché il pubblico, con lo "zapping", scegliendo
fra un centinaio di programmi, si farà il proprio palinsesto, con il rischio - diceva,
per esempio, Jader Jacobelli - che lo faccia peggio di un buon programmatore. Bisognerebbe
fare probabilmente come negli Stati Uniti per Internet, dove, per evitare il flusso di
informazioni indiscriminato, naufragi, perdita di tempo, ci si affida a delle istituzioni
a pagamento che offrono un' informazione fatta su misura del cliente. Se io mi interesso
all'arte del Rinascimento, avrò della gente che in questo mare "magnum" di
Internet, di informazione, mi ragguaglierà su una mostra del Rinascimento che si sta
svolgendo alla National Gallery di Washington o al Museo del Prado di Madrid, e mi darà
le informazioni sui libri che sono usciti. Se io mi interesso di telefonia cellulare e
voglio sapere se veramente il telefonino fa venire il tumore al cervello con le onde che
produce, mi metteranno in contatto con tutti gli articoli che son pubblicati, per esempio
dalle riviste di medicina del New England o dall'Accademia dei Lincei - e mi troveranno
tutto il materiale che mi serve. Questa, a mio avviso, è la strada che bisognerebbe
intraprendere. Naturalmente, è necessario che tutte queste industrie che fanno la
raccolta, siano affidabili, perché se sono raffazzonate si corre il rischio di una enorme
perdita di tempo. Il paradosso dei nuovi mezzi di comunicazione è che in realtà noi, per
guadagnare tempo, molte volte ne perdiamo di più. Io penso a quei disgraziati di
ragazzini che navigano a caso su queste reti che corrono anche il rischio di un effetto di
isolamento. In fondo, la comunicazione a distanza rischia di raffreddare la comunicazione
tra le persone.
Domanda 10
Un sovraccarico di stimoli non potrà finire per annullare anche la sensibilità estetica,
che, in fondo, ha anche una componente fisica?
Risposta
Anche nel nostro modo di fruire le opere d'arte, esiste quello che si chiama "effetto
Stendhal". Un sovraccarico di stimoli, anche quando si entra in un Museo, esiste, se
si vuol vedere tutto. Io credo che per poter godere delle opere d'arte, bisogna scegliere,
al massimo, quattro o cinque quadri importanti e vederseli bene. Altrimenti si possono
vedere tre quadri di Raffaello, due dipinti di Michelangelo, quattro di Caravaggio, venti
di Picasso, e poi, queste opere bellissime non ci impressioneranno, perché, alla fine, si
rimane storditi dalla quantità delle opere che si son viste. Questo pericolo, dunque,
esiste già nella struttura stessa della istituzione "museo"; ora si moltiplica
perché sia in termini estetici, sia in termini di valenza di notizie. Devo dire che io
son sempre indignato contro la cattiva televisione, quando, per provocare un effetto di
realtà produce uno schema ripetitivo: c'è stato un delitto, si vede una pozza di sangue
per terra, oppure il segno, un gesso della vittima, disegnato dalla polizia. E sempre,
tutte le volte la stessa cosa, per cui un delitto vale l'altro; e quella quantità di
informazione che dovrebbe essere offerta e che dovrebbe essere specifica su quel caso,
viene appiattita su una ripetizione. Allora, cosa me ne importa di conoscere il bollettino
dei caduti tutti i giorni: tre morti a Corleone, due a Palermo, quindici a Catania,
ventiquattro a Napoli? Tutto perde il senso, perché non viene approfondito. Affermo ciò
avendo il ruolo di spettatore, di una persona che guarda volentieri il cinema, la
televisione o frequenta Internet: vorrei avere delle notizie perspicue. Per esempio,
quando c'è un delitto politico, come quello del Primo Ministro israeliano, io ho avuto
modo di confrontare le notizie che venivano date a noi, minuto per minuto, e i servizi che
faceva la B.B.C. Senz'altro la B.B.C. si è interrogata sul perché, chi sono questi
gruppi della Destra Palestinese. Seguire un evento minuto per minuto, come si è fatto per
la storia di Alfredino, mi sembra una sorta di degenerazione dell'informazione: si vuol
provocare un effetto di realtà, che alla fine finisce per stuccare. Produrre effetti di
realtà non serve a nulla. Probabilmente la televisione, così come gli altri media,
dovrebbero fare questo sforzo di approfondimento di poche notizie. Tra l'altro, se si
vuole avere un ventaglio più esteso di notizie, ora si può andare a cercare in un
televideo.
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