INTERVIEW:
Domanda 1
Alla Biennale la scuola da Lei diretta ha curato uno work shop, "Messaggi in
bottiglie", che ha lavorato sull'ipotesi di scrittura collettiva. Ce lo può
presentare?
Risposta
C'era il piacere di questi scrittori che arrivano da paesi diversi e che hanno presentato
dei racconti. Rispetto ad un musicista o a un designer, per esempio, lo scrittore,
naturalmente, ha più problemi ad esibire il proprio prodotto. Poi, esiste il problema
delle lingue differenti. Questo, quindi, è un tentativo di dare uno spazio e anche un
tempo per quello che loro hanno fatto; e vi hanno lavorato un musicista, Nicola
Campogrande, uno scrittore italiano che è Dario Voltolini e un regista di teatro che è
Gabriele Vacis, per provare a fare, appunto, un evento, nel senso di una cosa che accade,
in cui si potesse conoscere il lavoro di questi, almeno una parte. E la soluzione che alla
fine abbiamo sperimentato è una specie di tessuto musicale. Su questo tessuto musicale
c'è un'attrice che legge dei brani dei lavori di questi ragazzi tradotti in italiano. E
poi i ragazzi, singolarmente, hanno all'interno di questa partitura musicale, degli
interventi in cui leggono parti molto brevi dei loro testi nella loro lingua, che sono
poco più che un suono naturalmente difficile da capire, lingue che non conosciamo, ma
intervengono come delle specie di memorie di suoni che sono dell'ordine linguistico
letterario. E allora, tutto questo insieme, il suono e le parti che fanno loro, tutto
questo dovrebbe creare una specie di luogo in cui stare per poter consumare quello che
loro hanno fatto.
Domanda 2
Tempo fa sperimentammo come trasmissione, su Internet, un progetto di scrittura
collettiva. Lo facemmo in seguito ad una intervista con Nanni Balestrini a partire da un
suo esperimento di scrittura al computer. In trasmissione Balestrini lesse questo brano e
poi veniva chiesto agli utenti Internet di collegarsi sul testo e proseguire alcune parti
di questi primi versi. Al di là degli esiti letterari, ritiene che modalità di creazione
per un artista possano servirsi delle tecnologie delle comunicazioni per approdare a una
sorta di creazione collettiva?
Risposta
I libri sono dei mondi individuali, non riesco a immaginarli come una produzione
collettiva. Forse in due si riesce a scrivere un libro. E' difficile che si possa
intervenire in molti in un libro, abitarlo in molti. Il lavoro collettivo è insito nella
tecnica, il cinema, il teatro. Questi sono testi collettivi, ma è il passaggio attraverso
quella tecnica che impone il lavoro collettivo e quindi è nel suo statuto, nella sua
carne il fatto di essere, alla fine, un prodotto bastardo, figlio di diversi interventi.
Il libro in sé, scrivere una storia, è un gesto antico e rimane antico, e, quindi, è
qualcosa di artigianale e individuale. Penso che i libri siano nella mente del lettore il
prodotto di una collettività, si forma nella mente di chi legge. Chi scrive preferisco
immaginare che debba scrivere in una certa solitudine.
Domanda 3
Cavallo e Chartier, nella loro introduzione alla "Storia della lettura",
sostengono che la lettura attraverso lo schermo del computer comporta una serie di
cambiamenti che loro definiscono rivoluzionari. Mi dilungo un po' a riassumere quello che
loro scrivono: innanzi tutto il computer mette il lettore in una relazione assolutamente
inedita col testo, perché lo schermo riassume le caratteristiche del volume che si
srotola e anche con i sistemi di riferimento propri dell'impaginazione. Questo è un primo
elemento. Poi sostengono che il computer, rispetto al libro, modifica il contesto della
lettura, perché c'è un'architettura logica reticolare diversa da quella del libro dove
invece c'è una sequenza di continuità fisica tra le varie sezioni. E poi l'elettronica
può dare corpo a un sogno antico, quello della biblioteca universale. Ecco: il testo
elettronico, anche per Lei comporta questo tipo di rivoluzione, o, comunque, quali aspetti
le sembrano preponderanti dell'uso del computer nello scrivere e nel leggere?
Risposta
C'è un primo aspetto che è elementare: lo stesso tipo di testo, la stessa idea di testo
che una volta si scriveva a mano, viene scritta con il computer. Ma l'idea rimane la
stessa. Il computer modifica la percezione ed effettivamente altera un poco i ritmi e le
modalità della creazione, non so se in meglio o in peggio; certamente, la generazione che
è nata scrivendo già con il computer è abituata a vivere il testo in maniera
differente. Se vogliamo fare l'osservazione più banale, correggere in un computer è più
veloce che non correggere quando si scrive a penna. In questo aspetto la tecnologia ha
portato qualche cosa di nuovo, di diverso, non penso che abbia spostato il cuore, l'asse
portante di quello che è la scrittura, ma ha reso un poco differente le modalità
attraverso cui noi scriviamo. Non credo di poter dire che ci sia un'era del computer nella
rosa letteraria. C'è un altro aspetto: ci sono testi che sono nati per sfruttare le
potenzialità di quella tecnologia: gli intertesti, ad esempio; ma questo è proprio tutta
un'altra cosa. A me non affascina particolarmente l'intertesto. Mi affascina la logica
interna dei testi, ad esempio la logica del gioco che trovi nel computer, o di certi
CD-Rom musicali. Perché è una logica che effettivamente mescola nessi che appartengono a
aree diverse e quindi è un'esperienza che è nuova, e come tale è affascinante.
Sicuramente. Adesso, collegare queste due cose, cioè il vecchio e sempre attuale universo
letterario, le logiche dell'universo letterario, e queste altre logiche, può divertire,
può anche produrre qualcosa di veramente interessante. Però bisogna avere una
fascinazione istintiva rispetto a tale mescolamento. La filosofia del link mi affascina,
lo amo di per sé, come la filosofia del viaggio e dello scarto. Lo scrittore, però,
viaggia fra i limiti della sua testa, e per la lettura la cosa affascinante è ancora
sempre seguire il viaggio di uno. Credo che, di fatto, poi Conrad facesse questo: apriva
delle finestre, entrava, si spostava. Flaubert faceva questo. Ma è egli stesso che ti
detta il viaggio e tu segui. Quella libertà di vedere un testo e viaggiarci come tu vuoi
mi sembra una libertà che non trovo così affascinante. Trovo più affascinante seguire
un uomo che non ho mai conosciuto nel viaggio che ha intrapreso notando aspetti che lui
stesso avrà notato o meno. Ripercorrere le sue orme, questa credo che sia la cosa
affascinante della lettura.
Domanda 4
Ma può produrre letteratura il salto ipertestuale tra un link e l'altro?
Risposta
Può produrre significato, diciamo. Però non si può nemmeno idolatrare questo aspetto
del link. Ciò viene abitualmente praticato dai lavori di regia: se uno mette in scena
Shakespeare, apre dei link, salta, se vuole può anche tagliare ma in maniera molto più
raffinata, perché viaggia attraverso dei link di senso, costretti, in qualche modo, dal
testo, ma poi viaggia dentro quanto vuole. Si può suonare l'Opera 111 in molti modi
diversi. Qui siamo nel campo dell'interpretazione. In sé, il viaggio in rete, oppure il
viaggio attraverso i link o gli ipertesti, mi sembra un'esperienza un po' più frigida di
quella che è l'interpretazione in teatro oppure nella musica, o perfino negli studi
critici su un autore. Mi sembra che sia una riduzione a cosa tecnologica, e quindi più
frigida e anche meno affascinante di un rito e di una pratica che celebriamo spessissimo
in questi altri luoghi con enormi risultati. Quindi, io preferisco ancora, sempre, andare
a vedere come quel regista ha viaggiato attraverso i suoi link.
Domanda 5
Ritorniamo sul tema del viaggio. Nei suoi testi è molto presente, con mezzi di solito
antichi: la ferrovia ne "Il castello di rabbia", la nave in
"Novecento", il treno, il cavallo, in "Seta". Il movimento della
mente, attraverso le reti di comunicazione Internet, viene spesso accostata
metaforicamente al concetto della navigazione. E' però un movimento spesso privo di meta,
simile a quello del vagabondo o casomai del naufrago. Lei ritiene che il viaggio, questo
tipo di viaggio suggerito dalla rete, quindi spesso un viaggio senza meta però non per
questo non significante, possa essere considerato una chiave di lettura del rapporto
dell'uomo moderno con il mondo?
Risposta
Indubbiamente la possibilità di viaggiare in rete è paragonabile all'invenzione della
ferrovia, all'invenzione della vela, della chiglia, alle invenzioni che hanno permesso di
rompere dei confini che erano rimasti per secoli. E come tale ci sarà qualcuno
sicuramente che fra cent'anni racconterà di questa invenzione come noi oggi possiamo
raccontare l'invenzione della ferrovia, una cosa che ha modificato la percezione del
mondo: le distanze, i tempi. Facevamo delle cartine geografiche in cui invece che
chilometri si contavano i tempi con le ferrovie. E' un po' quello che accade oggi: per me
è più facile e più veloce, probabilmente, dialogare o farmi dire qualcosa da un mio
amico in California che non trovare quello che abita a Torino e farmi dare un
dattiloscritto. E' una grande avventura, Internet, estremamente affascinante, ed è molto
difficile capire le cose quando accadono. Se uno legge cosa scrivevano dei treni quando li
hanno inventati, scopre che c'è di tutto: ci sono le più sonore "cazzate", e
ci sono delle riflessioni bellissime, poetiche; mediche, medici che pubblicavano saggi sui
guasti al cervello o alla vista che produceva il treno. Come oggi noi abbiamo il trattato
medico sui guai alla vista provocati dal computer. C'era quello che saliva sul treno e
scriveva poesie e c'era quello che saliva su un treno e faceva i conti sul risparmio del
trasporto delle vacche, per esempio. Certo, poi ognuno ha il suo modo. E questo è quello
che può accadere oggi, poiché in Internet c'è di tutto, dalle sette al tecnocrate, in
modo assolutamente uguale al passato per quanto riguarda il treno. C'è qualcosa di
diverso che è difficile da capire adesso, a caldo, e lo interpreteranno molto meglio
quelli che verranno dopo. C'è qualcosa di perverso! D'altronde anche i treni furono
interpretati subito come una cosa perversa, gli aerei pure. C'è qualcosa di perverso,
detto molto semplicemente: un treno passa a una velocità inedita per il tempo e con un
tempo inedito per quell'epoca, passa attraverso prati, valli, fiumi, case, attraverso il
mondo, il treno è nel mondo. La rete non è nel mondo, la rete sta ovunque e in nessun
luogo. E' una cosa strana. Nessuno mi toglie dalla testa che il treno era per loro una
concezione rivoluzionaria del reale. Mentre invece la rete è una percezione straordinaria
di una realtà seconda, non del reale. Io non ho il mito di quello che sta attaccato al
video per delle ore e viaggia, ed è stato in Danimarca, in Australia, eccetera. Perché,
in realtà, non c'è stato. C'è stato in questa realtà seconda che sta diventando per
noi sempre più forte, che è quella che già in maniera artigianale dicono dei giornali;
le cose che si dicono sui giornali, che non hanno quasi più nesso con ciò che accade
realmente, poiché si forma come una realtà seconda spesso più importante della prima. E
la rete è lì, la rete è lì che gira. E così questa è una sottile perversione che non
mi sembra ci fosse quando hanno inventato il treno. Però tutta da capire, prima di
demonizzare.
Domanda 6
E questa realtà seconda potrebbe essere inconscio... C'è, per esempio, chi sostiene che
certi fenomeni collettivi che avvengono in rete sono come una sorta di prolungamento
dell'inconscio individuale e una sorta di inconscio collettivo. Per esempio, adesso ci
sono moltissimi siti in cui si profetizzano cose strane sulla fine del millennio, che è
una paura atavica, medievale, eppure riesce fuori con un mezzo, da un altro punto di
vista, straordinariamente moderno.
Risposta
Quello che mi pare di capire è che in rete si va ad infilare l'umanità clandestina. Ha
trovato un luogo che è apparentemente clandestino. E così si sviluppano le cose che la
gente ha istinto a porre sotto la crosta della società, del mondo. Allora, se tu hai
delle perversioni e sei un pedofilo, la rete è un luogo dove stare. Se tu sei uno di una
setta che pensa che il 21 giugno finirà tutto, quello è il luogo dove stare. Ma se tu
sei anche uno, ad esempio, che studia Erasmo da Rotterdam, quello è un posto dove stare.
Ci sta tutto e il contrario di tutto e veramente lì dentro c'è di tutto, ma spesso ci
sta quello che effettivamente ha una vocazione clandestina rispetto al sistema, per cui si
parla appunto delle sette, come di luogo di ritrovo, di club. Che siano poi sette che
parlino del futuro o di sesso oppure di altre cose, è un altro argomento. Però c'è
questo spirito. Credo che sia l'illusione di scappare dalla grande piovra dei controlli
del sistema, come se il sistema avesse delle telecamere e tu, se stai lì dentro, non
vieni visto, e di fatto vieni visto poco, e se vuoi ti puoi nascondere. Credo che su tutto
prevalga questo elemento: pensare che stai sotto.
Domanda 7
Walter Benjamin ebbe a definire la riproducibilità dell'opera d'arte nel contemporaneo
come un elemento che comportava la perdita dell'aura, dell'elemento culturale dell'opera.
Si riferiva principalmente al cinema. Questa questione della riproducibilità è una delle
componenti più forti della creazione digitale, poiché la tecnologia digitale permette di
riprodurre in forma identica un'opera all'infinito. Mi sembra, al contrario, che la sua
letteratura spesso lotti proprio contro questa idea, che voglia ricostruire, in un certo
senso, la sacralità della creazione artistica. C'è in questo un segno, non dico
esplicito, però di contestazione verso l'idea di arte riproducibile, che è l'idea più
vicina a quella del digitale?
Risposta
Non so. Scrivo quelle cose lì perché mi piacciono e mi sembrano giuste, e sono le cose
che mi vengono in mente, altro non saprei dire. Benjamin era veramente un genio e come
tutti i geni ha individuato la domanda e ha sbagliato la risposta. In altre parole: ha
individuato l'equazione del problema che era difficilissimo allora, perché la
riproducibilità tecnica era ancora, come per noi adesso in parte la rete, appena nata.
Lui, incredibilmente, ha capito esattamente il cuore del problema. Ma la risposta che ha
dato è che questo avrebbe portato alla caduta dell'aura, ed era la risposta di uno che
non aveva ancora gli strumenti per sapere dove saremmo andati a finire. Di fatto noi
abbiamo capito che è vero il contrario, perché è vero che quando io vado al Louvre e
vedo la Gioconda, non è più ciò che era prima. Però la Gioconda per noi è un mito
perché è su tutte le salviette nelle cucine di chiunque, e sui tovagliolini e sui
bicchieri. E' la riproducibilità ed è la riproduzione anche immotivata, commerciale,
kitsch del prodotto. Come la star del cinema, come il calciatore, lo vediamo dappertutto
in maniera ossessiva, e ciò crea l'aura, non la distrugge. Il mito nasce dalla
moltiplicazione. Quindi, Benjamin aveva esattamente capito il contrario, ma aveva
individuato il problema e ciò è il segno di una intelligenza straordinaria.
Domanda 8
Lei ha fatto cultura in televisione in un modo che ancora oggi resta insuperato. Cosa
rimane di quella esperienza? Pensa che sia riproponibile utilizzando altri mezzi, come
Internet, o il CD-Rom. O, comunque, come pensa che debba essere fatta cultura in
televisione, come giudica quella che viene fatta oggi?
Risposta
Della mia esperienza televisiva mi rimane il piacere di aver viaggiato in un mondo
assurdo, strano, interessante, che non avrei mai conosciuto. E come eredità la voglia di
non finirci più, ma non perché sia un mondo che fa schifo, ma proprio perché non è il
posto mio, non è la mia tazza di thè. Più in generale, la cultura in televisione credo
sia un falso problema. La cultura in questa televisione è un problema perché è una
televisione molto legata agli ascolti, non ci sono aree in cui puoi stare tranquillo. Ma
appena si capirà che la televisione non può essere questo non sarà più un problema. La
televisione produce cultura televisiva a tonnellate. Non è vero che la televisione non
produca cultura. Però, come succede per le sigarette, le fumi e ti "becchi"
questa scritta: 'Fumare provoca il cancro'. E la televisione dovrebbe, credo, se fossimo
civili, fare lo stesso. Dovrebbe, cioè, avere una fascia di ore obbligatorie in cui si
promuove la cultura non televisiva. C'è molta gente che potrebbe fare cultura in
televisione, non è un problema. E c'è gente che fa televisione benissimo, non
televisione culturale, altra televisione, che riuscirebbe ad applicare le proprie
competenze, il proprio talento televisivo per un programma culturale. Non credo che sia
veramente un problema fare della buona televisione che promuova la cultura non televisiva.
Si rimane, purtroppo, saldati ad un sistema per il quale decide l'audience. Io trovo
giusto e sacrosanto che ci sia meno audience per un programma sulla Traviata. C'è anche
meno gente nel mondo che vede la Traviata, che non varietà o football. Io ho fatto
Pìckwick e posso assicurare che quasi tutti quelli che facevano Pìckwick avessero la
precisa convinzione che si poteva fare molto meglio. Di questo io sono convinto. Ce la
faranno.
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