Professore, stia zitto
Un docente di Princeton ha studiato un sistema
di protezione digitale ma non può dire perché è
vulnerabile. In tribunale lo scontro tra due garanzie: libertà
della ricerca e tutela del commercio e della sicurezza
di Georgia Garritano
Il
sistema anti-pirateria fa acqua ma non si può dire. Neanche
se tale conclusione è frutto di un'accurata ricerca accademica.
Edward
Felten, docente di informatica a Princeton, una delle università
più prestigiose degli Stati Uniti, ha condotto una ricerca
su un sistema di sicurezza digitale scoprendone la vulnerabilità
ma se la pubblica rischia una denuncia.
Il sistema in questione è un dispositivo anti-pirateria
prodotto dall'azienda californiana Verance
per il consorzio di case discografiche Secure
digital music initiative (Sdmi). Si tratta di una tecnologia
di audio watermarking, cioè di un'applicazione software
che fissa indelebilmente sui file musicali una sorta di "sovrimpressione",
impercettibile, che li rende riconoscibili al fine di tutelarne
il copyright: un marchio che veicola informazioni sul prodotto
e ne rende possibile l'uso solo a certe condizioni.
Il ricercatore e la sua équipe sostengono di aver analizzato
i file "marchiati" e di essere riusciti a modificarli
facendo in modo che il watermark non fosse più rintracciabile
e mantenendo, al tempo stesso, una qualità sonora soddisfacente.
Di più non possono dire perché una legge federale
degli Stati Uniti, la Digital
millennium copyright act (Dmca) del 1998, vieta di divulgare
informazioni che possano favorire la manomissione dei sistemi
informatici e la violazione dei diritti d'autore e le industrie
interessate potrebbero, quindi, intentare un'azione legale nei
confronti del gruppo.
Felten, che ha già dovuto rinunciare a parlare al seminario
Hiding di Pittsburgh ad aprile, per non saltare anche il prossimo
importante appuntamento convegnistico del settore, il simposio
Usenix sulla sicurezza in programma ad agosto a Washington,
ha deciso di rivolgersi al tribunale di Trenton, nel New Jersey,
per chiedere l'autorizzazione a esporre la sua relazione.
"Siamo fermamente convinti che quest'informazione non sia
solo qualcosa che abbiamo il diritto di rendere noto ma anche
una notizia che gioverà al pubblico e alla ricerca scientifica"
- sostiene il docente. "Non renderemo questa tecnologia debole
pubblicando questo saggio" - aggiunge - "Questa tecnologia
è debole. Rischia di essere forzata da un momento all'altro".
E conclude che portarne alla luce le lacune andrebbe a vantaggio
della stessa industria discografica che, prima di acquistarla,
ha il diritto e il dovere, a tutela degli artisti e degli utenti,
di accertare se funziona veramente.
Il suo caso è diventato una battaglia di principio. Si
è costituito un fronte che, in nome del Primo emendamento
sulla libertà di espressione, chiede l'abrogazione, per
vizio di costituzionalità, di alcune parti della legge
Dmca. La Electronic
frontier foundation (Eff), un'organizzazione che opera per
la libertà di espressione nei nuovi media, si è
schierata al suo fianco offrendogli l'assistenza legale. "Non
è opportuno che gli scienziati debbano chiedere all'industria
il permesso di presentare una ricerca" - ammonisce l'avvocato
Cindy Cohn, sintetizzando così il nodo della vertenza.
La fondazione, parallelamente, è impegnata a provare l'incostituzionalità
della norma anche in un altro processo - quello per la pubblicazione
sul magazine online "2600" del link al codice sorgente
DeCSS (De contents scramble system) per "craccare" i
Dvd - per il quale è in corso l'appello contro la Motion
picture association of America, che ha avuto ragione in primo
grado.
L'ateneo di appartenenza gli ha dimostrato la massima solidarietà
e gli ha messo a disposizione un ampio spazio web sul proprio
sito ufficiale per esporre i termini della questione. Usenix,
sponsor del convegno della capitale, ha presentato anch'esso un'istanza.
Altrettanto nutrito lo schieramento avversario che, oltre alla
Sdmi e alla società che produce il watermark, comprende
anche la Riaa, l'Associazione
delle case discografiche americane (Recording industry association
of America). Anche quest'ultima dedica alla controversia una
pagina del proprio sito nella quale, tra l'altro, facendo marcia
indietro, sostiene di non aver mai avuto intenzione di citare
in giudizio lo scomodo professore e lo accusa di aver montato
la vicenda a scopo pubblicitario.
Anche se la discussa legge prevede alcune deroghe per finalità
di ricerca, l'interpretazione è complessa al punto che
gli organizzatori della conferenza di Washington non se la sentono
di dare il via libera alla relazione di Felten e perciò
si sono costituiti parte in causa. In Italia una norma specifica
quanto quella americana non c'è. Questo caso, tuttavia,
in cui gli interessi sono molteplici - del produttore, del committente,
dell'utente, del ricercatore - e in contrasto tra loro, potrebbe
risultare problematico anche al di fuori degli Stati Uniti, in
tutti gli ordinamenti che prevedono il reato di effrazione dei
sistemi informatici. Dov'è il limite tra divulgazione e
istigazione al reato? Pur escludendo un eventuale concorso in
un reato, si potrebbe ipotizzare una responsabilità civile
nel caso in cui venga arrecato un danno? L'unica certezza, in
una materia così delicata e in formazione, è che
siamo di fronte a un'altra delle sfide poste dallo sviluppo tecnologico
al diritto e che, ancora una volta, lo scontro sembra essere quello
tra libertà e sicurezza.
|