In
Birmania, piccolo stato stretto tra India e Thailandia, chi
possiede un modem senza autorizzazione è punito con la condanna
dai 7 ai 15 anni di carcere. Il paese asiatico, conta 48 milioni
di abitanti, ma soltanto 600 persone tra stranieri, diplomatici
e agenti governativi hanno accesso al nodo Web istituzionale.
Alcuni paesi negano tout court ai cittadini l'accesso alla rete,
ad esempio Internet è vietata a Cuba, nella Korea del nord e in
Iraq.
Su 186 paesi in
tutto il mondo, 66 sottopongono i media a controlli e a censure
politiche. Tra questi, 30 si trovano in Africa, 14 in Asia, 9 in
Europa, 2 in America Latina e 11 nel Medioriente. E in quasi i
due terzi i contenuti che viaggiano su Internet sono spiati
dalla polizia governativa. A confutare l'opinione di quanti
considerano la rete uno spazio libero, privo di controllo e
condizionamenti, è un dossier
sulla libertà di espressione pubblicato da Freedom
House, un'organizzazione newyorkese impegnata nella
difesa dei diritti umani. Divieti, restrizioni, influenze
politiche, economiche e episodi di violazione della libertà di
pensiero, su Internet come sulla carta stampata e sulla
televisione. Un rapporto dettagliato che esamina, paese per
paese, il livello di repressione dei media, più un saggio
introduttivo di documentazione sulla censura governativa. Internet
e la libertà di stampa nel 2000, firmato da Leonard R.
Sussman, osservatore di lunga data del rapporto tra informazione
e potere, alla sua ventiduesima ricerca. La prima che riguarda
anche la rete.
"Le
ragioni della censura on line - si legge nel saggio - non sono
un segreto. Sono le stesse che spiegano i controlli della carta
stampata e dei media tradizionali. Certa informazione non è
gradita a chi sta al potere". Se è vero che la rete dà
voce alle minoranze e ai gruppi dissidenti, che difficilmente
trovano spazio nei mass media, (si pensi al caso, ormai
antologico, degli zapatisti del Messico), essa non sfugge ai
sistemi di controllo dei governi, che si travestono per
l'occasione in difensori dei valori religiosi e della sicurezza
del paese, "parole in codice - spiega Sussman - che hanno
nascosto sin dall'antichità l'opposizione al sistema
dominante".
In altri
stati, l'uso quasi esclusivo dell'inglese e gli alti costi della
connessione limitano la navigazione a una fascia elitaria.
"In questi casi - recita il rapporto - il controllo può
risultare meno forte rispetto a quello esercitato su carta
stampata e televisione". Altri ancora hanno adottato delle
norme restrittive per controllare gli accessi. "In Cina per
esempio l'accesso a molti istituti governativi è libero, ma il
provider ufficiale tiene d'occhio i contenuti, in particolare le
notizie che provengono dall'estero". Politici di
opposizione che diffondevano le proprie idee via web sono stati
imprigionati e la polizia di stato continua a sorvegliare con
attenzione la rete per assicurarsi che non vengano messe in
linea informazioni governative riservate. "Alcuni siti sono
stati oscurati e le e-mail censurate". Ricordate la storia
di Radikal, il giornale telematico di estrema sinistra? Fu uno
dei primi episodi di censura on line a destare l'interesse dei
media. Era il 1996 e la Procura federale tedesca inviò all'Icf,
l'associazione dei provider in Germania, l'ordine di bloccare
l'accesso al sito, sospettato di complicità con gruppi
terroristici.
Freedom
House non risparmia neanche i programmi di
"filtraggio", regolarmente in vigore in Arabia Saudita
(nel mondo arabo Internet è considerato veicolo di
"informazione contraria ai valori islamici e dannosa per la
società") e nel continente australiano. Si tratta di
sistemi che dovrebbero proteggere i minori dalla tanto temuta
triade "sesso, droga e violenza", ma che spesso
finiscono per bloccare anche siti innocui o guarda caso
politici.
Altri
paesi ricorrono a un sistema di controllo più sottile, simile
al metodo delle intercettazioni telefoniche. Così non solo
sorvegliano le informazioni ma inducono gli autori a una sorta
di autocensura. È quanto è accaduto in Russia. L'intelligence
moscovita ha imposto ai provider di installare sistemi di
controllo per accedere a qualsiasi informazione sugli utenti,
minacciando il ritiro della licenza se non avessero collaborato.
Ma allora
l'immagine di Internet come spazio aperto e potenzialmente
libero è soltanto una chimera destinata a infrangersi? Va detto
che in tutti i casi citati la libertà di espressione ha sempre
trovato un inatteso, tenace e agguerrito difensore nel popolo
della rete. Per rimanere alla Russia, i navigatori ex-sovietici
sono insorti on line in difesa della propria privacy e hanno
dato vita a una "campagna antispie" a suon di banner
di protesta sulle pagine web. Anche nel caso di Radikal
l'effetto dell'imperativo poliziesco portò a un esito opposto a
quello sperato dalle autorità: l'Icft si rifiutò di eseguire
l'ordine e nel giro di pochi giorni decine di navigatori
abbracciarono la causa della libertà diffondendo in ogni modo i
contenuti della rivista, con il risultato di assicurarle una
pubblicità maggiore di quanta ne avesse mai avuta. La procura
fu costretta ad accogliere la richiesta dell'Ictf e a non
proseguire nella repressione. "Giornali censurati in
Algeria, Egitto e Giordania sono riusciti a diffondere tramite
rete gli articoli messi al bando e in paesi come Iran, Kuwait,
Qatar, Tunisia e Emirati Arabi Uniti sono nati dei cybercafé
per favorire un accesso democratico al web".
E ancora, in
Birmania, nonostante la minaccia del carcere, le vendite di
personal computer continuano a salire vertiginosamente e in
Arabia Saudita i naviganti aumentano a gran velocità, segno che
"Internet rappresenta la sfida più coraggiosa alla censura
politica, perché il cyberspazio è in ogni luogo ma il suo
centro è un non luogo. Nessun paese può controllare un
messaggio che ha origine in un altro". È la logica della
rete. Nodi e incroci che non richiedono un nodo ultimo, un punto
finale, ma si intersecano all'infinito. La tanto conclamata
anarchia del Web. "Il contributo di Freedom House e di
altre associazioni che si battono per il rispetto dei diritti
umani - conclude il rapporto - è pubblicare informazioni come
queste e denunciare i colpevoli. Fare in modo che certi governi
sappiano che qualcuno li tiene d'occhio".
"David
Sobel, fondatore del consorzio mondiale degli Online Free Speech
Groups segnala, a sua volta, che alcuni grandi gruppi finanziari
ed economici negli Stati Uniti e in Europa stanno mettendo a
punto forme di autocontrollo volontario dei contenuti online.
Queste pratiche, sottolinea Sobel, oltre ad essere discutibili
costituiscono anche
un rischio: infatti, sebbene siano concepite per evitare -
attraverso l'autocontrollo volontario -
l'intervento repressivo dei governi, offrono
oggettivamente agli stessi governi la possibilità di
appropriarsi di nuovi strumenti di censura".
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