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Vietato l'accesso a Internet

Un dossier sulla libertà di espressione di Freedom House denuncia i metodi di censura dell'informazione on line

di Alessandra Solarino


Freedom HouseIn Birmania, piccolo stato stretto tra India e Thailandia, chi possiede un modem senza autorizzazione è punito con la condanna dai 7 ai 15 anni di carcere. Il paese asiatico, conta 48 milioni di abitanti, ma soltanto 600 persone tra stranieri, diplomatici e agenti governativi hanno accesso al nodo Web istituzionale. Alcuni paesi negano tout court ai cittadini l'accesso alla rete, ad esempio Internet è vietata a Cuba, nella Korea del nord e in Iraq.

Su 186 paesi in tutto il mondo, 66 sottopongono i media a controlli e a censure politiche. Tra questi, 30 si trovano in Africa, 14 in Asia, 9 in Europa, 2 in America Latina e 11 nel Medioriente. E in quasi i due terzi i contenuti che viaggiano su Internet sono spiati dalla polizia governativa. A confutare l'opinione di quanti considerano la rete uno spazio libero, privo di controllo e condizionamenti, è un dossier sulla libertà di espressione pubblicato da Freedom House, un'organizzazione newyorkese impegnata nella difesa dei diritti umani. Divieti, restrizioni, influenze politiche, economiche e episodi di violazione della libertà di pensiero, su Internet come sulla carta stampata e sulla televisione. Un rapporto dettagliato che esamina, paese per paese, il livello di repressione dei media, più un saggio introduttivo di documentazione sulla censura governativa. Internet e la libertà di stampa nel 2000, firmato da Leonard R. Sussman, osservatore di lunga data del rapporto tra informazione e potere, alla sua ventiduesima ricerca. La prima che riguarda anche la rete. 

"Le ragioni della censura on line - si legge nel saggio - non sono un segreto. Sono le stesse che spiegano i controlli della carta stampata e dei media tradizionali. Certa informazione non è gradita a chi sta al potere". Se è vero che la rete dà voce alle minoranze e ai gruppi dissidenti, che difficilmente trovano spazio nei mass media, (si pensi al caso, ormai antologico, degli Lo zapatista Marcos zapatisti del Messico), essa non sfugge ai sistemi di controllo dei governi, che si travestono per l'occasione in difensori dei valori religiosi e della sicurezza del paese, "parole in codice - spiega Sussman - che hanno nascosto sin dall'antichità l'opposizione al sistema dominante".

 In altri stati, l'uso quasi esclusivo dell'inglese e gli alti costi della connessione limitano la navigazione a una fascia elitaria. "In questi casi - recita il rapporto - il controllo può risultare meno forte rispetto a quello esercitato su carta stampata e televisione". Altri ancora hanno adottato delle norme restrittive per controllare gli accessi. "In Cina per esempio l'accesso a molti istituti governativi è libero, ma il provider ufficiale tiene d'occhio i contenuti, in particolare le notizie che provengono dall'estero". Politici di opposizione che diffondevano le proprie idee via web sono stati imprigionati e la polizia di stato continua a sorvegliare con attenzione la rete per assicurarsi che non vengano messe in linea informazioni governative riservate. "Alcuni siti sono stati oscurati e le e-mail censurate". Ricordate la storia di Radikal, il giornale telematico di estrema sinistra? Fu uno dei primi episodi di censura on line a destare l'interesse dei media. Era il 1996 e la Procura federale tedesca inviò all'Icf, l'associazione dei provider in Germania, l'ordine di bloccare l'accesso al sito, sospettato di complicità con gruppi terroristici.

 Freedom House non risparmia neanche i programmi di "filtraggio", regolarmente in vigore in Arabia Saudita (nel mondo arabo Internet è considerato veicolo di "informazione contraria ai valori islamici e dannosa per la società") e nel continente australiano. Si tratta di sistemi che dovrebbero proteggere i minori dalla tanto temuta triade "sesso, droga e violenza", ma che spesso finiscono per bloccare anche siti innocui o guarda caso politici.

 Altri paesi ricorrono a un sistema di controllo più sottile, simile al metodo delle intercettazioni telefoniche. Così non solo sorvegliano le informazioni ma inducono gli autori a una sorta di autocensura. È quanto è accaduto in Russia. L'intelligence moscovita ha imposto ai provider di installare sistemi di controllo per accedere a qualsiasi informazione sugli utenti, minacciando il ritiro della licenza se non avessero collaborato.

 Ma allora l'immagine di Internet come spazio aperto e potenzialmente libero è soltanto una chimera destinata a infrangersi? Va detto che in tutti i casi citati la libertà di espressione ha sempre trovato un inatteso, tenace e agguerrito difensore nel popolo della rete. Per rimanere alla Russia, i navigatori ex-sovietici sono insorti on line in difesa della propria privacy e hanno dato vita a una "campagna antispie" a suon di banner di protesta sulle pagine web. Anche nel caso di Radikal l'effetto dell'imperativo poliziesco portò a un esito opposto a quello sperato dalle autorità: l'Icft si rifiutò di eseguire l'ordine e nel giro di pochi giorni decine di navigatori abbracciarono la causa della libertà diffondendo in ogni modo i contenuti della rivista, con il risultato di assicurarle una pubblicità maggiore di quanta ne avesse mai avuta. La procura fu costretta ad accogliere la richiesta dell'Ictf e a non proseguire nella repressione. "Giornali censurati in Algeria, Egitto e Giordania sono riusciti a diffondere tramite rete gli articoli messi al bando e in paesi come Iran, Kuwait, Qatar, Tunisia e Emirati Arabi Uniti sono nati dei cybercafé per favorire un accesso democratico al web". 

E ancora, in Birmania, nonostante la minaccia del carcere, le vendite di personal computer continuano a salire vertiginosamente e in Arabia Saudita i naviganti aumentano a gran velocità, segno che "Internet rappresenta la sfida più coraggiosa alla censura politica, perché il cyberspazio è in ogni luogo ma il suo centro è un non luogo. Nessun paese può controllare un messaggio che ha origine in un altro". È la logica della rete. Nodi e incroci che non richiedono un nodo ultimo, un punto finale, ma si intersecano all'infinito. La tanto conclamata anarchia del Web. "Il contributo di Freedom House e di altre associazioni che si battono per il rispetto dei diritti umani - conclude il rapporto - è pubblicare informazioni come queste e denunciare i colpevoli. Fare in modo che certi governi sappiano che qualcuno li tiene d'occhio".

"David Sobel, fondatore del consorzio mondiale degli Online Free Speech Groups segnala, a sua volta, che alcuni grandi gruppi finanziari ed economici negli Stati Uniti e in Europa stanno mettendo a punto forme di autocontrollo volontario dei contenuti online. Queste pratiche, sottolinea Sobel, oltre ad essere discutibili costituiscono  anche un rischio: infatti, sebbene siano concepite per evitare - attraverso l'autocontrollo volontario -  l'intervento repressivo dei governi, offrono oggettivamente agli stessi governi la possibilità di appropriarsi di nuovi strumenti di censura".