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    Remo Bodei

    Napoli, 07/05/1996
    La comunicazione nel V secolo dell'era globale
  • Bodei ripercorre rapidamente lo sviluppo dei moderni mezzi di comunicazione di massa, fino ad Internet, sottolineando il loro contributo all'attuazione di un processo di "globalizzazione" La formazione di "mega corporations" delle telecomunicazioni implica la minaccia di un controllo dall'alto dell'informazione e della educazione. Una forma di bilanciamento del sistema può essere il servizio pubblico (1) .
  • Il motivo del ritardo dell'Italia rispetto agli Stati Uniti nel progresso tecnologico dipende dall'ancora scarsa integrazione tra informatica e telecomunicazioni. La liberalizzazione dei mercati dovrebbe procedere con molta cautela senza dimenticare che anche la televisione, pubblica e privata, è strumento di diffusione di cultura e che ciascuna nazione dovrebbe produrre prodotti propri per salvaguardare la propria identità (2) .
  • Il migliore atteggiamento da tenere di fronte all'alternativa tra "globalizzazione" e "localizzazione" è quello di una sintesi delle due vie, ovvero la "glocalizzazione" (3) .
  • La comunicazione globale rende necessario affrontare la questione di un'etica planetaria intesa come sistema minimo di valori condivisibili e compatibili ma argomentabili e, quindi, non imposti (4) .
  • Le nuove tecnologie offrono la possibilità che si affermi una nuova tipologia comunicativa fortemente legata alla dimensione orale e dialogica (5) .
  • La società dell'informazione corre il rischio di una nuova forma di discriminazione tecnologica (6) .
  • Rispetto al rischio che le innovazioni tecnologiche aumentino la disoccupazione, Bodei sofferma la sua attenzione sul più generale problema del cambiamento dei modelli di produzione, dei rapporti tra nord e sud del mondo e di una nuova forma di mobilità lavorativa a cui le società contemporanee dovranno sapersi adattare (7) .
  • Anche la politica subisce dei mutamenti dovuti al progresso tecnologico: le forze politiche scelgono la loro linea d'azione non più ispirate soltanto da motivazioni ideologiche indiscusse ma, piuttosto, cercando di assecondare il cittadino continuamente interpellato mediante sondaggi. Inoltre, é sempre più frequente il dibattito politico in Tv che, se inflazionato e ridotto a mera TV spettacolo, rischia di ingenerare un senso di rigetto e sfiducia nello spettatore-elettore (8) .
  • L'aumento della quantità e della velocità degli stimoli informativi comporta il pericolo di una perdita del senso di ciò che si conosce e anche una perdita di tempo nel decidere cosa e come scegliere tra tutto ciò che viene offerto (9) .
  • Quindi, oltre alle notizie e ai dati, i nuovi mezzi di comunicazione dovrebbero approfittare delle loro potenzialità per veicolare una conoscienza di approfondimento (10) .




  • INTERVISTA:

    Domanda 1
    Nel Suo intervento, Lei parla della "globalizzazione". Ci può descrivere il fenomeno?

    Risposta
    Il fenomeno della "globalizzazione" implica, nel campo delle comunicazioni, che ci sia una rete sempre più fitta, sempre più articolata di rapporti tra individui e gruppi, favoriti, ormai da oltre un secolo e mezzo, da strumenti tecnici. Si è iniziato col telegrafo, si è proseguiti con il telefono, poi con la radio bilocale - quella di Marconi, che all'inizio era soltanto da stazione emittente a stazione ricevente -; poi, nel 1922, con la radio circolare, quella che sentiamo oggi. Nel '29 sono iniziati i primi esperimenti con la televisione, poi con il magnetofono nel '38 e poi, nel 1984, siamo giunti ad Internet ad uso civile ed oggi assistiamo alla diffusione della televisione digitale, satellitare e a tutti i sistemi multimediali: C.D.A., C.D. ROM, e così via. Quindi, la "globalizzazione", da questo punto di vista, oltre che dal punto di vista economico - perché il termine nasce nell'ambito dell'economia, di un mercato mondiale - implica che vi sia tutto questo sistema di relazioni. Ci ò, per certi aspetti, è un vantaggio, perché permette un flusso di informazioni in tempo reale, o, comunque, con pochissimo spazio di tempo tra il ricevere un'informazione e il "rimpallarla" dall'altra parte; tuttavia, io ho cercato di sottolineare, anche di fronte a questa retorica che si fa della "globalizzazione" nel campo delle comunicazioni, come se tutto il mondo fosse unificato, anche determinati pericoli. Io penso soprattutto a quelle concentrazioni di carattere economico, che si sviluppano, in prospettiva, in tutto il mondo - ma che negli Stati Uniti sono già mature - tra catene cinematografiche e televisive e discografiche; tra giornali, riviste e università, per creare quelle che chiamano delle "mega corporations", le quali agiranno non soltanto nel campo dell'informazione, ma anche nel campo dell'educazione e della formazione, poiché, attraverso tutti questi mezzi, si arriverà ad un sistema di educazione permanente, e il senso comune verrà plasmato. Il mio timore - no n troppo peregrino -, è che questi processi vengano controllati dall'alto in maniera oligarchica, cioè da pochi, e che tale controllo possa portare, non dico ad un pensiero unico nel senso che tutto il mondo possa essere indotto a pensare e a sentire allo stesso modo, ma certamente che possa condurre ad una riduzione degli spazi di libertà. Per questo motivo io credo che sistemi di informazione o di educazione pubblica possano essere una forma di bilanciamento; in questa direzione, come grandi modelli, penso al "Canale 13", la "public television" americana, che vive però a stenti, perché dipende da donazioni, ormai, di privati; penso al "Channel Four" inglese, che dà voce alle minoranze, anche quelle che hanno gusti specifici, non soltanto minoranze linguistiche e culturali; penso, infine, alla B.B.C.. Dicevo, dunque, del rischio a cui si può andare incontro con questi sistemi di "globalizzazione", con sistemi di informazione via satellite, che permettono che in tutto i l mondo si abbia la percezione immediata dell'avvenimento; ed, in proposito, un esempio è la Guerra del Golfo. Molti di noi hanno visto il bombardamento notturno su Baghdad, praticamente quando stava avvenendo. Io credo, comunque, che l'antidoto lo abbia già il mezzo; intendo dire: la scelta. A settembre verrà lanciato un satellite europeo di telecomunicazioni, che permetterà la scelta di cinquecento canali, e i canali saranno, appunto, tematici nel campo televisivo, oppure attraverso Internet; la novità di oggi è lo scambio da persona a persona. Molte persone si sono innamorate, si sono separate attraverso Internet. Dico questo per chiarire che lo scambio non è sempre sul piano intellettuale, o soltanto di informazione, ma anche su un piano emotivo, al livello di immagine. Noi stiamo entrando, io credo, in una dimensione nuova in cui bisogna valutare anche i rischi a cui andiamo incontro. Non bisogna, certamente, demonizzare questi mezzi, ma é necessario farne un uso che sia tale da limitare gli inevitabili rischi, cioè l'omologazione.

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    Domanda 2
    Lei identifica la cultura statunitense orientata verso la "globalizzazione". Il Centro Studi "San Salvador", nel Suo rapporto, individua alcune cause del ritardo europeo, ed ancora, il ritardo italiano rispetto a quello europeo. Qual è il limite principale: la formazione, la liberalizzazione o la tecnica?

    Risposta
    Per quanto riguarda l'Italia, credo sia l'integrazione ancora giovane tra le tecniche la causa principale di questo ritardo, che in altri paesi è più avanzata. Non sentirei, invece, di dare un voto negativo alla qualità degli operatori nel campo delle telecomunicazioni, ed in particolare, della televisione in Italia. Per quanto concerne la liberalizzazione, francamente, non saprei. La liberalizzazione produce anche degli effetti perversi. Bisognerebbe vedere se si vuol fare, ad esempio, nel campo della televisione o, comunque, delle comunicazioni anche via Internet, un sistema in cui l'informazione o lo spettacolo serva soltanto da cellophane o da nastrino per regali per trasmettere degli "spots" commerciali. In questo senso la televisione, in realtà, non è altro che una televendita; La televisione sia pubblica che privata deve, viceversa, accompagnare i processi di crescita e di apprendimento delle persone, non soltanto nel senso scolastico; la televisione può aiutare la crescita, non dico ad un'e ducazione permanente, ma attraverso la scelta di programmi di qualità in tutti i settori. Quello che conta non è soltanto il "cosa" si trasmette, ma il "come". Io credo che sia cultura, ad esempio, anche una partita di calcio ben commentata, con un buon italiano o un buon inglese, o una ricetta di cucina. Dipende dal modo in cui si lavora. Non dobbiamo, quindi, metter la cultura sul piedistallo, perché un modo per tenerla a distanza più che rispettosa è isolarla. La cultura, secondo me, è il modo in cui le informazioni si trasmettono. Uno dei rischi del rapporto pubblico-privato, e anche nei rapporti tra i vari paesi, è quello che in termini inglesi si direbbe "pidginizzazione". Il "pidgin" è l'inglese delle colonie, l'uso del linguaggio all'infinito: "Io Tarzan, tu Jane". Il rischio è che si comprino dei programmi o dei prodotti senza sforzarsi di produrli. Un esempio lampante di qualità del prodotto, in questo senso, sono certe forme di "telenovélas&quo t; o "soap opera". Il rischio è quello di produrre una cultura egemone: i paesi colonizzati mentalmente o che si autocolonizzano, assumono, cioè, una forma goffa d'imitazione, che non poteva essere quella di Alberto Sordi quando faceva l'americano di Kansas City. In questo vedo un grande pericolo: che non si riesca ad avere un'autonomia culturale, non per motivi nazionalistici, ma per ragioni di "identità" di produzione. Si diventa fruitori di cultura o di programmi che, però, non si raccordano bene con le tradizioni di una certa nazione, di un certo ceto culturale. In questa direzione si finisce con il produrre fenomeni deteriori di imitazione, oppure si aiuta a creare il puro rifiuto della televisione, da parte di coloro che non vogliono cadere nella melma del populismo.

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    Domanda 3
    Nel rapporto fra i processi centrifughi e centripeti, globalizzazione e invece localizzazione, Lei usa il termine "glocalizzazione". Ci può spiegare di che si tratta?

    Risposta
    Si tratta di non contrapporre il locale al globale: di non pensare, da un lato, che il mondo sia unificato e che, di conseguenza, noi tutti siamo inseriti in un circolo virtuoso attraverso il quale tutta questa ricchezza di informazioni si dirige verso il meglio. I cosiddetti "localismi" o, per certi aspetti, quelli che noi chiamiamo "integralismi" - senza evangelicamente guardare la trave nel nostro occhio dando sempre la colpa agli altri - possono essere considerati un contraccolpo dei processi di "globalizzazione". Io penso soprattutto, ad esempio, ai paesi arabi, che una volta seguivano la modernizzazione occidentale, come la Siria o l'Algeria. La loro chiusura in se stessi deriva, in fondo, da una percezione di amore quasi tradito, poiché non si sentono inseriti a pieno titolo e con pari dignità nei progetti che contano. In quest'ambito della "globalizzazione", bisogna vedere, dunque anche gli aspetti di frammentazione locale. Poi c'è la "localizzazione" : un fenomeno economico, che noi, in Italia, indirettamente, conosciamo abbastanza bene. Un esempio sono i produttori di magliette di Treviso: fanno produrre le magliette a Taiwan o a Seul, e poi, le targano Treviso; oppure la I.B.M. americana, che licenzia quasi metà del suo personale, perché si fa fare il "software", cioè i programmi informatici, dagli Indiani poiché costano otto volte meno, e si fa fare l'"hardware", cioè le macchine in pezzi, a Formosa, oppure a Singapore, poiché costano sempre molto meno. Inoltre c'è un problema di carattere più generale, a mio parere, in questa questione della "localizzazione": gli investimenti, ormai, vanno non solo dove c'è forza-lavoro a basso prezzo, ma anche dove c'è sicurezza politica. E' il motivo per il quale, per esempio, la Fiat installa i suoi stabilimenti a Melfi o a Teramo, dove non c'è camorra, mafia o sacra corona unita. Il problema, dunque, non riguarda soltanto i costi, ma anche le garanzie. E questo, per l'Italia e per l'E uropa, costituisce, in prospettiva, un pericolo. Se noi non ci attrezziamo o a diminuire il costo della mano d'opera o ad elevare il nostro livello tecnologico, rischiamo di erodere tutte le conquiste che un secolo e mezzo fa son state fatte dallo stato sociale. Ciò si può scorgere già nell'attacco alle pensioni, alla sicurezza. A Bagnoli, vicino Napoli, si son chiusi degli stabilimenti perché i laminati d'acciaio si producono nel Sud-Est asiatico o altrove a prezzi nettamente inferiori. L'Italia, che ha poche materie prime, come l'Europa, in generale, o alza il livello della sfida tecnologica o si chiude dentro le sue frontiere. Ma dentro le sue frontiere non si può chiudere più di tanto tempo. E allora sarà costretta a fare i conti con la mano d'opera asiatica, che costa poco, e con lo sviluppo tecnologico del Giappone e degli Stati Uniti, ma anche con lo sviluppo tecnologico tedesco, che sta riprendendo il primato nel campo della tecnologia media, quella che si usa per le automobili.

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    Domanda 4
    Quali sono i tratti di un'etica planetaria?

    Risposta
    Noi abbiamo un sistema di comunicazioni inteso in senso materiale e in senso immateriale. Mi spiego. I mezzi di comunicazione materiale sono: l'aereo, la nave, sono i mezzi che permettono spostamenti veloci, sia per turismo, sia per affari, sia per conoscere. I mezzi immateriali sono: la televisione, la teleconferenza, e così dicendo. Ciò ha permesso all'Italia - che era un paese che esportava mano d'opera, di emigrati -, di diventare un paese anche di immigrati, mette a contatto culture diverse. Oggi, non possiamo più fare affidamento sulla tradizione, su quelli che erano i nostri valori. E soprattutto non dobbiamo pensare, in maniera tendenzialmente razzistica, che noi siamo migliori degli altri. Questo processo, però, proprio perché ha un'etica, un modo di comportamento, regole di condotta, scale di valori, è un processo molto faticoso. Noi dovremmo, per così dire, sradicarci dalle nostre convinzioni, senza, naturalmente, svenderle, ponendole in contrasto, in paragone con gli altri, per cercare di creare un sistema minimo di valori condivisibili e compatibili; ma che siano valori argomentabili, che siano ragionevoli, non imposti. Noi dobbiamo essere in grado di confrontarci continuamente con un giapponese che viene in Italia a vendere motociclette, o con una persona del Ghana, che viene in Italia a vendere tappeti; tra un po' di tempo ci saranno anche in Italia società multiculturali, i figli degli immigrati andranno a scuole islamiche o non islamiche: a Roma c'è una moschea proprio su Monte Mario, che guarda San Pietro. Quindi bisognerà trovare dei livelli di intesa fra le diverse culture, altrimenti il rischio è che al posto di un'etica mondiale, si avrà una frizione, uno scontro tra tante etiche particolari. Io credo che il processo sia duro e difficile, perché noi siamo stati abituati, per tanto tempo, ad essere residenziali, legati ad un territorio; per dirla in tono scherzoso, c'è l'etica del siciliano, per il quale, ad esempio, la gelosia è un valore; ci sono zone, come il mondo arabo, in cui i rapport i sociali sono diversi e danno luogo a comportamenti diversi rispetto al lavoro. Noi dobbiamo avere dei valori che non siano "standard", ma che siano la media di qualche cosa. Dobbiamo avere delle regole che ci permettano di considerare tutti gli uomini come appartenenti ad una razza umana, senza dimenticare le differenze. E questo è un compito che, a parer mio, sarà difficilissimo. L'incontro tra le culture, che sembra già compiuto attraverso questi mezzi di comunicazione di massa, in realtà è soltanto all'inizio. Noi siamo - è già stato detto - al V° secolo dell'era globale, cioè, da quando Cristoforo Colombo ha unito, involontariamente, il vecchio e il nuovo mondo. Ci stiamo cercando, quindi, da cinque secoli. Ma la storia dell'"homo sapiens", come dicono gli studiosi della materia, è una storia che ha, per quanto riguarda la nostra specie, dai 150.000 ai 180.000 anni; cinque secoli, dunque, rispetto a questa catena evolutiva, se non vogliamo considerare gli antenati, il cosiddetto &quo t;homo habilis", sono pochissimi. E gli uomini che sono nati probabilmente da una piccola famiglia in Africa, che poi si è diffusa in tutto il mondo, è quasi commovente vedere come si siano rincontrati soltanto cinque secoli fa, pur nascendo da uno stesso ceppo. Attraverso una parte della cellula che si chiama "mitocondrio" - che permette di studiare queste fasi evolutive - si è scoperto che cinquemila donne che si trovavano in qualche altopiano dell'Africa australe, abbiano prodotto tutte le speci umane: i gialli, i neri, i bianchi, i pellerossa. Quindi siamo tutti di un unico ceppo e ci siamo rincontrati, dopo decine di migliaia di anni, e stiamo faticando a riconoscerci.

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    Domanda 5
    Alberto Abruzzese, nel suo intervento, individua nelle nuove tecnologie una vocazione a sfuggire ai linguaggi forti della tradizione moderna con una tendenza, invece, verso una situazione più comunicazionale. Condivide i termini di questa riflessione?

    Risposta
    Bisogna vedere in che contesto colloca questa riflessione. Certamente la comunicazione moderna, rispetto alla tradizione del libro da cui noi proveniamo, contiene un sapere imposto da "colui che sa": il libro non richiede risposte. La cultura che nasce sulla civiltà del libro o, che comunque, nasce dalla scrittura, è una cultura che deve essere necessariamente forte, perché non può essere modificata. Mentre, viceversa, la cultura della trasmissione, in cui l'oralità ha ripreso un enorme peso - o, quantomeno l'orale e lo scritto insieme, perché si può vedere scorrere come sottotitolatura quello che uno dice, in un'altra lingua - permette uno scambio ed un adattamento reciproco. E' molto più flessibile e più elastica, così come sono elastiche le tecnologie a distanza. La "Telemedicina", in questo senso, io credo che avrà un grande sviluppo. Nel settembre dell'anno scorso, a Milano, è stata compiuta la prima operazione con un bisturi mosso da un chirurgo che si trovava ad una decina di chilo metri di distanza dalla sala operatoria. Quindi non dobbiamo pensare a comunicazioni soltanto tra uomini e uomini, ma anche tra uomini e macchine. Questa operazione, secondo me, col bisturi a distanza, anche se è stata compiuta in via sperimentale, può diventare una soluzione interessante. Pensiamo soltanto a cosa può succedere in un continente grande come l'Australia, dove la gente abita nell' "out dek", nell'interno, in cui il "flying doctor", il "dottore volante", fino ad ora è andato avanti utilizzando aerei piccolini, atterrando su piste di terra battuta per poter curare questi contadini. D'ora in poi, anziché servirsi dei sistemi dei grandi ospedali attrezzati, si potranno fare consultazioni cardiache a domicilio. Esiste già un apparecchietto, una valigetta, per realizzare persino piccole operazioni. Quindi, il rapporto uomo-macchina rappresenterà, anche per effetto della comunicazione, un altro modo di vivere.

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    Domanda 6
    Stefano Rodotà, in un articolo scirtto recentemente, afferma che la società dell'informazione rischia di "rovesciarsi" nella società dell'esclusione. E ha definito il divario fra le persone come una sorta di "apartheid informatica". Esiste, a suo avviso, questo richio di "appartheid informatica"?

    Risposta
    Esiste, eccome! Come prima esisteva il rischio dell'analfabetismo, che era una forma di esclusione, ed era legato all'apprendimento di certi saperi, anche elementari, oggi, chi non riesce a creare dei collegamenti attraverso conoscenze di tipo informatico, tipiche della società dell'informazione, e soprattutto chi non si aggiorna continuamente, rischia effettivamente di essere un escluso. Anche perché, come voi sapete meglio di me poiché operate in questo campo, l'informazione attualmente è ricchezza, quindi banche-dati. Le banche-dati ormai son più protette di Fort Knox, nel senso che il sapere si deposita in strutture sostanzialmente immateriali, in questi "bit" di informazione. E poi, come si può vedere, è la prima volta, nella storia dell'umanità, che ricchezze così enormi vengono realizzate da giovani come Bill Gates o come quelli che inventano certe strutture e certi programmi, "netscape", o Internet a uso civile. In genere, per accumulare queste centinaia di miliardi di lire, ci vo gliono almeno due o tre generazioni, come è stato per gli Agnelli in Italia. Invece, oggi, l'accesso anche alla ricchezza è molto legato a questi elementi di inventiva. Non per nulla l'ultimo numero di "Fortune" colloca Bill Gates al primo posto, poiché si può comprare il codice "Leonard", il codice "hammer" di Leonardo tranquillamente, senza "svenarsi". E questo dimostra che l'informazione è potere, l'informazione è l'innovazione tecnologica. Oltre che potere nel senso di prestigio, è anche potere nel senso economico, il potere capace di muovere tante ruote.

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    Domanda 7
    Un'altra delle ricadute di questo divario viene analizzata dall'economista Rifkin, in un suo scritto: "La fine del lavoro". Egli vede emergere due grandi classi o caste, per certi versi: da un lato gli "knowledge workers", gli "analisti di simboli", coloro che detengono le conoscenze tecnologiche; dall'altro, un crescente numero di lavoratori, prevalentemente in eccesso. Secondo molti altri, la possibilità di liberarsi dal lavoro materiale rappresenta, viceversa, la possibilità di liberare energie creative. Cosa pensa in proposito?

    Risposta
    Io non credo che il potere sia tutto riducibile al potere simbolico. Esistono dei poteri non simbolici, ma molto efficaci, come il potere militare. Il potere di dare vita o morte - penso al generale Lebed in Russia o a altri in parti del mondo -, si può definire simbolico, ma è tremendamente reale. E poi, penso che coloro che sono esclusi, siano esclusi per effetto di ciò che è un bene, paradossalmente. Il progresso tecnologico, ormai dai tempi delle invenzioni delle macchine e dei luddisti inglesi che andavano a spaccare le macchine, ha sempre prodotto disoccupazione. Il problema è stato quello dell'assorbimento della produzione, di una sovrapproduzione, da un lato, perché le macchine producono tante cose, molto di più della manifattura; dall'altro il problema del sottoconsumo: la gente non aveva soldi per comprare tutti i beni prodotti dall'industria. Per cui tutta l'economia politica dell'Ottocento e del Novecento, dalla metà dell'Ottocento in poi, è stata un tentativo di aumentare il potere di acquisto e quindi di eliminare, entro un certo limite, il sottoconsumo, per permettere di comprare molto. La fabbrica taylorista, per esempio, vendeva moltissimo, e aveva pochi modelli. Ford sapeva di potere programmare la produzione nei tempi lunghi, poiché c'era un mercato praticamente infinito di assorbimento. Si è rimediato, in un certo modo, a questa forbice sovrapproduzione-sottoconsumo aumentando i consumi. Ora, però, questa leva comincia ad entrare in crisi, perché non tutti sono in grado di accedere a certi beni; se tutti accedessero ai beni che possiede, per esempio, l'Occidente, si assisterebbe a disastri ecologici, alla distruzione delle foreste amazzoniche: un certo modello non ha più possibilità di espansione. Paradossalmente, c'è bisogno disoccupazione. Molti studiosi giapponesi che stanno imponendo le loro idee, sostengono che bisognerà dividere il mondo in "strisce di zebra": zone di duecento, trecento milioni di persone, che stanno bene, perché là si concentrano attività economiche, ed il re sto del mondo che vada in malora. In alcuni paesi africani sub-sahariani ci son problemi legati all'oro e ai diamanti, quindi ad una loro ricchezza interna; così come nel Lagos o nella Nigeria, dove c'è petrolio: questa parte dell'Africa viene completamente abbandonata. Quindi c'è il rischio di un modello produttivo che potremmo chiamare il "modello Toyota", un modello post-fordista che è stato definito flessibile, in cui quello che conta non è più la programmazione, ma le esigenze variabili del mercato. Per questo, in Italia, anche la Fiat produce circa centrotrentun colori per "Bravo" o "Brava", perché si produce "just in time", cioè "di momento in momento". Il grande stoccaggio non esiste più, perché l'immagazzinamento ha bisogno di costi elevati. Si adotta, dunque, il sistema della "localizzazione". I camioncini che si chiamano "Ducato", la Fiat li fa costruire a Bel Orizonte e in Brasile, poi vengono trasportati in Italia, perché è più conveniente. Alcune parti si producono in fabbriche polacche. Tutto questa mobilità degli investimenti, della forza-lavoro, provoca, in prospettiva, una disoccupazione crescente, e la perdita del "posto fisso" a cui noi eravamo affezionati. Io non so se è vero quello che dice Clinton o il vicepresidente Al Gore, che dovremmo abituarci alla nostra vita, dovranno abituarsi i nostri figli e nipoti a cambiare mestieri cinque, sette volte, durante la nostra vita. Il problema è che società come quella americana, pur nella loro durezza, permettono questa mobilità del lavoro. Bisogna riflettere se società molto più rigide come quella europea e quella italiana, permettono tale mobilità, o se invece una persona che non trova lavoro, non lo trova e basta.

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    Domanda 8
    In quest'epoca di trasformazione si avverte una sorta di incapacità della classe politica a saper reagire agli stimoli differenziati di una società complessa. Per certi versi, l'idea di una democrazia diretta, crea una serie di stimoli, per cui la politica non riesce più coerentemente e chiaramente a scegliere le strade. Quali potrebbero essere, a suo avviso, le strade da scegliere?

    Risposta
    Intanto bisogna partire da un dato di fatto: la caduta del Muro di Berlino. Quasi nessuno, però, si è accorto di un'altra caduta, che riguarda tutti noi: son cadute le pareti domestiche; la politica, cioè, è entrata in casa, attraverso la radio prima, e la televisione poi, contagiando, per così dire, dei ceti o delle fasce di età che prima ne erano esenti. Donne, bambini, contadini, gente che vive isolata: tutti sono introdotti in un circuito di comunicazione, che non è soltanto virtuale, ma, per gli effetti che produce, è molto reale. La politica, tempo fa, era un sistema di grandi aggregazioni, un sistema di massa, con i partiti "etici", come poteva essere il P.C.I. o la D.C. in Italia, che si dividevano sulle grandi questioni quando c'era ancora il mondo spaccato in due; oggi, la divisione politica non passa più su grandi scelte ideali, poiché, più o meno, tende tutto ad omogeneizzarsi, almeno in Occidente. Quindi, le grandi scelte politiche non vengono più tagliate secondo linee discriminanti, opposte o alternative. Per questo motivo i politici hanno difficoltà, per così dire, ad individuare i "pacchetti", come dicono gli Americani, i "packages" di problemi che devono trattare. Si deve spingere, allora, di volta in volta, a fare una mistura: a distinguersi in rapporto alle pensioni, oppure in rapporto alla sanità; su problemi, dunque, che in realtà impegnano perché son problemi reali, toccano la vita di tutti i giorni, ma che non portano grandi tensioni ideali ed in cui è difficile cogliere quello che è giusto e quello che non è giusto, non avendo competenze specifiche. Come si può incidere, ad esempio, sull'energia atomica? E' giusto fare centrali nucleari oppure non è giusto? Praticamente, nessuno di noi è in grado di saperlo. Forse qualche esperto. La politica, perciò, va avanti attraverso questi sondaggi e dipende molto di più dal cittadino elettore che cambia i suoi gusti ed i suoi orientamenti. Noi l'abbiamo visto anche recentemente nella storia italiana. Dopo un periodo d i immobilità durato quasi cinquant'anni, improvvisamente le cose si sono scongelate. Probabilmente guardando la geografia elettorale si scoprirà che, dietro i nuovi partiti, ci stanno quelli vecchi e che certe distribuzioni riproducono lo stesso schema: nel Nord-Est d'Italia, per esempio, pare che, sostanzialmente, i votanti della Lega corrispondono a quelli della vecchia D.C.. Uscendo dalla cronaca italiana, quello che mi sembra importante è il fatto che la politica abbia bisogno - e questo viene sempre più sentito - di una capacità di decisione, quindi del rafforzamento dell'esecutivo, ma proprio perché ha di fronte una società inquieta, che non è ribelle. Insomma: mentre, prima, i regimi totalitari del nostro secolo avevano, per così dire, invaso la coscienza degli uomini ed erano riusciti a portare dentro la loro coscienza l'interiorizzazione della figura del capo - quindi una struttura gerarchica -, oggi, la politica nelle società democratiche (per fortuna!) ha fatto dei passi indietro, non pretende più di guidare la vita degli individui oltre un certo limite. Né gli individui vogliono dare immediatamente fiducia ai politici, come le società gerarchiche. Esiste, dunque, una negoziazione e una mobilità continue. In questo senso la politica mostra da un lato la sua impotenza, espressa dal modo spettacolare delle liti che, per esempio, si fanno in televisione; ciò non è sintomo del potere della politica, ma della difficoltà di far credere alle persone determinate istanze. Si insiste tanto, si fa tanto "battage", perché la gente difficilmente si fa convincere. E ciò pone anche qualche interrogativo sul potere effettivo della televisione. Probabilmente è vero che la televisione produce un impatto enorme sulle persone, ma non si devono sottovalutare anche gli effetti di rigetto che l'abuso del mezzo televisivo porta nei politici. In fondo la televisione può innalzare un politico, come lo può far crollare per eccesso di presenzialismo.

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    Domanda 9
    La velocità e la quantità degli stimoli informativi provenienti dai nuovi media, urta contro la capacità riflessiva, ricettiva dell'individuo. Non si corre il rischio di un'inflazione di stimoli che concorrono alla perdita del senso?

    Risposta
    L'eccesso di informazione, certamente, finisce per diventare disinformazione, un po' come avviene con i carrelli del supermercato: uno piglia quello che trova, per combinazione; è quello che i Francesi chiamano "bricolage", come nei negozi dei robivecchi: uno va e piglia delle cose che son capitate per caso. Alcune persone che lavorano alla radio e alla televisione, mi hanno spiegato che ormai il palinsesto, famoso, famigerato, palinsesto composto da tecnici che stabiliscono gli orari e i contenuti dei programmi, tra poco lo deciderà il pubblico. Perché il pubblico, con lo "zapping", scegliendo fra un centinaio di programmi, si farà il proprio palinsesto, con il rischio - diceva, per esempio, Jader Jacobelli - che lo faccia peggio di un buon programmatore. Bisognerebbe fare probabilmente come negli Stati Uniti per Internet, dove, per evitare il flusso di informazioni indiscriminato, naufragi, perdita di tempo, ci si affida a delle istituzioni a pagamento che offrono un' informazione fatta su misura del cliente. Se io mi interesso all'arte del Rinascimento, avrò della gente che in questo mare "magnum" di Internet, di informazione, mi ragguaglierà su una mostra del Rinascimento che si sta svolgendo alla National Gallery di Washington o al Museo del Prado di Madrid, e mi darà le informazioni sui libri che sono usciti. Se io mi interesso di telefonia cellulare e voglio sapere se veramente il telefonino fa venire il tumore al cervello con le onde che produce, mi metteranno in contatto con tutti gli articoli che son pubblicati, per esempio dalle riviste di medicina del New England o dall'Accademia dei Lincei - e mi troveranno tutto il materiale che mi serve. Questa, a mio avviso, è la strada che bisognerebbe intraprendere. Naturalmente, è necessario che tutte queste industrie che fanno la raccolta, siano affidabili, perché se sono raffazzonate si corre il rischio di una enorme perdita di tempo. Il paradosso dei nuovi mezzi di comunicazione è che in realtà noi, per guadagnare tempo, molte volte ne perdiamo di più. Io penso a quei disgraziati di ragazzini che navigano a caso su queste reti che corrono anche il rischio di un effetto di isolamento. In fondo, la comunicazione a distanza rischia di raffreddare la comunicazione tra le persone.

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    Domanda 10
    Un sovraccarico di stimoli non potrà finire per annullare anche la sensibilità estetica, che, in fondo, ha anche una componente fisica?

    Risposta
    Anche nel nostro modo di fruire le opere d'arte, esiste quello che si chiama "effetto Stendhal". Un sovraccarico di stimoli, anche quando si entra in un Museo, esiste, se si vuol vedere tutto. Io credo che per poter godere delle opere d'arte, bisogna scegliere, al massimo, quattro o cinque quadri importanti e vederseli bene. Altrimenti si possono vedere tre quadri di Raffaello, due dipinti di Michelangelo, quattro di Caravaggio, venti di Picasso, e poi, queste opere bellissime non ci impressioneranno, perché, alla fine, si rimane storditi dalla quantità delle opere che si son viste. Questo pericolo, dunque, esiste già nella struttura stessa della istituzione "museo"; ora si moltiplica perché sia in termini estetici, sia in termini di valenza di notizie. Devo dire che io son sempre indignato contro la cattiva televisione, quando, per provocare un effetto di realtà produce uno schema ripetitivo: c'è stato un delitto, si vede una pozza di sangue per terra, oppure il segno, un gesso della vit tima, disegnato dalla polizia. E sempre, tutte le volte la stessa cosa, per cui un delitto vale l'altro; e quella quantità di informazione che dovrebbe essere offerta e che dovrebbe essere specifica su quel caso, viene appiattita su una ripetizione. Allora, cosa me ne importa di conoscere il bollettino dei caduti tutti i giorni: tre morti a Corleone, due a Palermo, quindici a Catania, ventiquattro a Napoli? Tutto perde il senso, perché non viene approfondito. Affermo ciò avendo il ruolo di spettatore, di una persona che guarda volentieri il cinema, la televisione o frequenta Internet: vorrei avere delle notizie perspicue. Per esempio, quando c'è un delitto politico, come quello del Primo Ministro israeliano, io ho avuto modo di confrontare le notizie che venivano date a noi, minuto per minuto, e i servizi che faceva la B.B.C. Senz'altro la B.B.C. si è interrogata sul perché, chi sono questi gruppi della Destra Palestinese. Seguire un evento minuto per minuto, come si è fatto per la storia di Alfredino, mi sem bra una sorta di degenerazione dell'informazione: si vuol provocare un effetto di realtà, che alla fine finisce per stuccare. Produrre effetti di realtà non serve a nulla. Probabilmente la televisione, così come gli altri media, dovrebbero fare questo sforzo di approfondimento di poche notizie. Tra l'altro, se si vuole avere un ventaglio più esteso di notizie, ora si può andare a cercare in un televideo.

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