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    Ariel Dorfman

    4/05/2001
    La tecnologia contro i tiranni


    Lo scrittore cileno ricorda che la lotta per la libertà è fatta di piccoli gesti quotidiani, nella quale anche Internet fa la sua parte

    Secondo lei la globalizzazione culturale, promuove o blocca la diffusione dei valori tradizionali e dei valori locali?

    La globalizzazione ha effetti sia negativi che positivi, come accade per tutti i ritrovati tecnologici. Di negativo c'è una tendenza a rendere tutto simile ad uno stesso modello, in genere quello di chi ha il potere. La visione dominante ingloba e annulla le visioni più particolari. Ma oggi il mondo ha in sé la possibilità di dar voce anche ad aspetti che potrebbero discostarsi dal modello. Il nostro compito è trovare uno spazio all'interno di queste grandi tendenze globali.

    Internet rappresenta la fine o un nuovo inizio della letteratura? È un nuovo tipo di arte rispetto a quella tradizionale?

    Internet ha effetti sia positivi che negativi. Sul fronte negativo credo che Internet stia cambiando il modo in cui le persone gestiscono il discorso della lingua. Trovo questo abbastanza irrazionale perché Internet tende a dividere, rompere, spezzare le risposte, non permette un lungo ragionamento sul discorso, come è stato in realtà fatto per tanti, tanti anni, specie in Occidente. Penso quindi che la tendenza sia quella di creare una sorta di situazione dove non si ha la possibilità di mettere insieme, di pensare fino in fondo e di analizzare davvero le cose. Sull'altro fronte permette una certa interazione, un'appropriazione delle notizie e una presa di potere da parte di chi naviga in Internet. Non si possono dare risposte definitive. Quello che mi preoccupa è che Internet non è, di fatto, al servizio dei poveri del mondo, le cui tradizioni vengono sempre più ignorate, destinate per questo ad essere cancellate. Questa nuova forma di comunicazione è in questo senso mostruosa. Credo che stiamo appena al principio di qualcosa. E tuttavia, si continua a dire che il libro è destinato a sparire, come lo si diceva per la pittura, per la musica. Credo che invece stiamo semplicemente mettendo insieme le cose, che coesistono senza sopprimersi tra loro.

    Cosa verrà dopo Internet?

    Chi lo sa? In fondo penso che abbiamo enormi capacità di resistenza. In Cile, Pinochet fu battuto perché arrivavano continui fax sui risultati, evitando che lui facesse brogli. Anche Milosevic è stato battuto grazie ai collegamenti Internet. Quindi capita spesso che la tecnologia venga usata contro i tiranni e i potenti, e contro l'omogeneizzazione.

    Che cosa significa essere un giornalista in un paese senza libertà?

    In genere si pensa che quando non c'è libertà l'unica via sia tacere, morire o sottomettersi a chi ha il potere. Queste forme di terrore o di repressione fanno vedere un mondo tutto in bianco e nero, dove o si tace o si parla e si viene ammazzati, o esiliati. Ma in un paese senza libertà esistono grandi zone grigie intermedie, dove la gente che non sta zitta, non è detto che vada in esilio; dove si può parlare ed essere repressi, ma può anche succedere che si parli e non si venga repressi. Trovo estremamente interessante il fatto che queste zone stiano salendo alla superficie, dimostrando come la lotta per la libertà non sempre è un grande atto eroico, ma è spesso una somma di piccoli gesti quotidiani, compreso lo stesso giornalismo. Questo è quello che ho sperimentato, in Cile come in altri paesi del mondo.

    Il 3 maggio, si è celebrata la Giornata internazionale per la difesa della libertà di informazione. Una battaglia combattuta in prima persona da Ariel Dorfman, come dimostra il racconto pieno di emozione fatto al convegno di Bologna, dedicato a "Informazione, conoscenza, verità", a cui MediaMente ha dedicato uno Speciale con diretta Internet, dal quale traiamo la seguente citazione:

    "Questa storia inizia una mattina del settembre dell'83. Mi trovavo a Santiago e stavo parlando a telefono. Pinochet era ancora al potere. Ero appena tornato dopo un decennio di esilio forzato e volevo informare il mondo. Stavo dettando un articolo per telefono a un registratore del New York Times. Il paese era cambiato in maniera irrevocabile. Le mie parole erano dure, rigide, accusavo i militari di omicidi. Pensavo di poter continuare ad esprimermi con libertà. Fui in grado di esprimermi apertamente, perché la mia mente continuava a rimanere all'estero: volevo raggiungere il resto del mondo. Nel mio paese erano proibite queste affermazioni. Quello che stavo dettando nell'83 non era ambiguo, auspicava direttamente la caduta del regime. Quella mattina incontrai gli occhi di mio figlio, 16 anni, che mi guardava con paura e ammirazione. Capii dov'ero. Queste parole erano adatte fuori dal Cile, ma certamente non lì. Se le autorità cilene avessero tentato di farmi qualcosa, sarebbero state denunciate dalla stampa internazionale, pensavo. Pinochet non può arrestarmi, mi ha appena ripreso. Ma queste rassicurazioni scomparvero, quando finii e una voce dell'altra parte mi disse che il registratore non era riuscito a ricevere le mie parole. Le ripetei tutte sudando. La mia fiducia se n'era andata. Il panico continuò anche dopo che mi dissero che il registratore aveva funzionato. Mi sentivo nudo, esposto. Avevo la certezza che in qualsiasi momento potessero portarmi via".