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    Renato Parascandolo

    Roma, novembre 1995
    Cultura e televisione
  • E' necessario, prima di addentrarsi nel discorso su cultura e televisione, chiarire i rispettivi concetti. La televisione ha contribuito a diffondere e cambiare modi di pensare e di vivere; ha inoltre incamerato forme espressive di ogni genere. Ma la TV generalista potrà sopravvivere in questa forma solo nei Paesi in via di sviluppo. Nei paesi occidentali, invece, la TV generalista è ormai in crisi da tempo ed ha una sola via di uscita: diventare internazionale, tematica, multimediale e interattiva (1) .
  • Tuttavia questa trasformazione non è sinonimo di effettivo miglioramento qualitativo; infatti, già ora, si può notare che la TV satellite porta con sé due rischi. Il primo è costituito da una vera forma di colonialismo culturale; il secondo è l'impersonale e astratta internazionalizzazione che può causare una passività ancora maggiore (2) .
  • La diffusione della cultura, al contrario, non va lasciata esclusivamente nelle mani delle televisioni tematiche e satellitari, anche piuttosto costose: la frammentazione del pubblico, insita nel concetto di TV tematica, nel caso della cultura sarebbe deleterio. Va, anzi, auspicato il mantenimento in vita di programmi culturali all'interno dei palinsesti futuri della TV generalista (3) .
  • La cultura, considerata come regno dei valori ideali, degli stili di vita, dei comportamenti affettivi, delle avventure dell'intelletto, non è riducibile a un patrimonio di conoscenze riservate, come una forma nobile di intrattenimento, a una cerchia di mandarini. La cultura non è un genere. Piuttosto, possiamo dire, che tutti i generi sono potenzialmente culturali. Secondo questa logica, per cui la cultura non è un genere televisivo accessibile a pochi eletti, dovrebbero essere i programmi ordinari della TV generalista a divenire più stimolanti culturalmente (4) .
  • Popper rimprovera giustamente agli operatori televisivi di sottovalutare il loro compito educativo. Ma per un reale rinnovamento culturale delle dirigenze televisive si deve rivedere l'intera architettura ideativo-produttiva degli apparati della comunicazione (5) .
  • Nel XVIII secolo l'opinione pubblica era costituita soprattutto da una ricca borghesia ancora priva di un riconosciuto peso politico, successivamente conquistato con mezzi rivoluzionari. Nel XX secolo l'invenzione della radio e della TV hanno sconvolto quella situazione: anche gli analfabeti, infatti, possono esprimere il proprio pensiero, ascoltare la radio, vedere la televisione; da qui inizia la metamorfosi del "cittadino" in "gente" e nasce una contrapposizione tra pubblica opinione e opinione di massa. La opinione pubblica si compone in un ordine del discorso fondato sull'argomentazione razionale mentre a sfera dell'opinione di massa, è caratterizzata dalla suggestione, dalla persuasione occulta, dalla irrazionalità, come dimostra la storia dei regimi totalitari. Quindi l'opinione di massa non è l'ampliamento della sfera dell'opinione pubblica borghese, ma il suo contrario. Inoltre questa contrapposizione spiega la tendenza delle società di massa a convergere verso una "medietà" indistinta: niente analfabeti, ma niente classi colte: questa è la forma degenerata della democrazia (6) (7) (8) .
  • La televisione generalista è attualmente il più potente strumento di formazione dell'opinione di massa che opera in maniera martellante 24 ore al giorno su scala planetaria. In conclusione, se è auspicabile una rete TV tematica riguardante la cultura, non si deve commettere l'errore tragico di abbandonare la televisione generalista al suo destino (9) .




  • INTERVISTA:

    Domanda 1
    Quali caratteristiche avrà la televisione del futuro?

    Risposta
    La televisione, ha provocato, nell'arco di cinquant'anni, degli sconvolgimenti nelle abitudini di vita e nei modi di pensare, paragonabile soltanto alla diffusione dei giornali nel XIX secolo. Vi sono popoli, che hanno maturato una coscienza nazionale - lingua, mentalità, conoscenza reciproca - solo grazie alla televisione. La televisione, inoltre, ha incorporato mezzi espressivi di ogni genere - varietà, commedie, opere liriche, cinema - amplificandone la diffusione. A questi due tratti storici degli apparati televisivi di tutto il mondo - la diffusione a carattere nazionale e una programmazione generalista - se ne può aggiungere un terzo, la struttura monomediale. cioè la rinuncia a sfruttare le potenziali sinergie tra i diversi media - radio, televisione, produzione editoriale e discografica - anche quando a detenerli era la medesima azienda. Da alcuni anni questo modello televisivo è entrato in una crisi irreversibile. La televisione del futuro è già all'opera: è internazionale, tematica, multimediale. Schematizzando quanto sta avvenendo si può dire che il modello di televisione tradizionale è ancora dominante ma non è più determinante; conoscerà una fase di ulteriore crescita nelle zone povere del mondo ma nei paesi ricchi dell'occidente gli apparati televisivi del futuro prossimo avranno una struttura organizzativa e una complessità produttiva talmente lontane da quella attuale che dovranno cambiare la loro stessa denominazione. In altre parole, in prospettiva, la televisione non sarà solo un'altra televisione ma semplicemente non sarà più televisione.

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    Domanda 2
    Non è detto tuttavia, che questo nuovo modello di televisione sia necessariamente migliore di quello precedente?

    Risposta
    In effetti la fisionomia di questa televisione del futuro presenta dei tratti poco raccomandabili: il cosmopolitismo della TV-satellite ha lo stile pacchiano del mondo degli affari, del colonialismo culturale che annienta ciò che resta delle culture tradizionali; la sua programmazione ha le stesse caratteristiche della cucina internazionale: perché sia appetibile a tanti, deve necessariamente essere scialba, insipida, rinunciare ai sapori forti e decisi. In una parola deve essere, nello stile, americana. La Tv nazionale e generalista riusciva a dare, nonostante tutto, una sensazione di appartenenza. Anche se atomizzati negli appartamenti bui, i telespettatori del telegiornale o del varietà del sabato sera sentivano di far parte di un rassemblement di uomini che parlavano la stessa lingua, che si divertivano allo stesso modo, che erano partecipi degli stessi eventi. Chi vede la CNN o i programmi di intrattenimento delle Tv-satellite, prova un forte senso di passività e di estraniamento. Altro che cittadino del mondo! Il villaggio globale, in questa prospettiva, è nient'altro che uno slogan pubblicitario di successo.

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    Domanda 3
    Le reti tematiche sono invocate da tutti come se fossero una panacea alla crisi della televisione generalista. Ormai anche i pubblicitari, le chiedono. E' giustificato questo ottimismo, soprattutto nei confronti delle reti tematiche culturali sulla falsariga di "Arte"?

    Risposta
    La televisione tematica presenta dei rischi poiché dà luogo a una frammentazione del pubblico per generi che produce una cristallizzazione in cui la cultura rischia di diventare anch'essa un genere come lo sport, l'informazione, l'intrattenimento, la musica. Ma davvero ha un senso considerare la cultura un genere? Prima ancora di approfondire tale questione, è opportuno riflettere sul fatto che una rete tematica culturale, magari a pagamento e satellitare, è destinata solo alle persone colte, a chi ha uno spiccato interesse per gli avvenimenti culturali, con la conseguenza che rimane ad essa estraneo il grande pubblico della televisione generalista, e si accentua così il distacco dell'opinione di massa dal mondo della cultura. Al contrario la presenza di programmi culturali, e soprattutto intelligenti, sulle reti generaliste favorisce l'incontro, magari casuale, con la cultura, di milioni di telespettatori. Questo non vuol dire che non debbano esserci reti tematiche del tipo di "ARTE", ma semplicemente che non bisogna abbandonare, alla brutale logica della massimizzazione dell'ascolto, le reti generaliste, privandole, più di quanto non lo siano già, di ogni contenuto culturale; magari consolandosi con l'idea che la cultura dimora ormai sulle reti tematiche. E' auspicabile quindi una complementarietà fra reti tematiche culturali e reti generaliste a condizione che questo non diventi un alibi per far sparire la cultura dalle reti generaliste.

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    Domanda 4
    E' necessario, a questo punto, dare una definizione del concetto di cultura.

    Risposta
    La cultura, considerata come regno dei valori ideali, degli stili di vita, dei comportamenti affettivi, delle avventure dell'intelletto, non è riducibile a un patrimonio di conoscenze riservate, come una forma nobile di intrattenimento, a una cerchia di mandarini. La cultura non è un genere. Piuttosto, possiamo dire, che tutti i generi sono potenzialmente culturali. C'è probabilmente più poesia in uno sketch di Massimo Troisi che in una trasmissione sulla poesia; si può capire che cos'è letteratura più da uno sceneggiato televisivo de "Il rosso e il nero" di Stendhal (bellissimo quello russo!) che da una rubrica di libri; ci può essere più arte in un film di Stanley Kubrick che in un documentario sui grandi musei del mondo; c'è più conoscenza della società contemporanea in un reportage giornalistico di Furio Colombo sull'America, che in un dibattito televisivo tra sociologi; c'è più profondità in certi cartoni animati di Walt Disney che in tanti programmi cosiddetti "culturali". Quindi dobbiamo rovesciare l'assunto secondo il quale bisogna rendere più appetibili e comprensibili i programmi culturali (spesso questo vuol dire soltanto renderli banali e di cattivo gusto). Sono piuttosto i programmi ordinari della tv generalista, sempre più TV spazzatura, a dover diventare più culturali (cioè più intelligenti, arguti e stimolanti).

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    Domanda 5
    Ma a chi spetta questo compito? E' corretto enfatizzare oltre misura, la tirannia dell'Auditel per giustificare la crescente insensatezza dei programmi della televisione generalista? Non è forse legittimo ipotizzare che tra le cause non secondarie di questo processo di decadimento, vi sia anche una scarsa sensibilità culturale di dirigenti e autori di programmi televisivi?

    Risposta
    Giustissimo! Karl Popper, in un'intervista esclusiva rilasciata, poco prima della sua morte, per la Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche, giudicò colossale la sperequazione fra le responsabilità, immense, degli operatori televisivi e la consapevolezza, infima, che essi ne hanno. Dissimulando il proprio ruolo, essi negano che la televisione eserciti un'influenza sui comportamenti, sui valori e sulla interpretazione dei fatti. Popper, campione del liberalismo, considera ipocrita, surrettizia e sedicente liberale, ogni distinzione fra notizia e commento, fra informazione e educazione. Insomma, chi fa televisione - che rediga il telegiornale o produca una soap opera - è sempre un educatore. Il problema che si pone è allora il seguente: chi educa gli educatori, (autori dei programmi, responsabili dei palinsesti, giornalisti)? Credo che la risposta giusta sia: la televisione stessa. Infatti gli apparati televisivi - e in generale tutti gli apparati - in base al loro funzionamento (organizzazione del lavoro, gerarchie, procedure etc.) e alla funzione che sono chiamati a svolgere (accumulare profitti, offrire un servizio di pubblica utilità, fare propaganda etc.) creano modelli professionali, mentalità, valori, cultura. Gli apparati cioè oltre a produrre merci o servizi producono anche ideologia. Una ideologia che è presente non solo nei prodotti - soprattutto se immateriali, come i programmi televisivi - ma anche nei modi di lavorare, nelle forme della burocrazia, nella divisione del lavoro. Chi vi presta la sua opera, l'assimila, ne è impregnato come un pescatore lo è di salsedine. La televisione come apparato dunque, educa, simultaneamente, sia i telespettatori che i suoi dirigenti e tutti coloro che vi lavorano. Questa formazione, che potremmo definire eufemisticamente, una deformazione professionale, crea aspettative, pregiudizi e valori i quali ovviamente non possono che essere in sintonia con il funzionamento dell'apparato e con gli scopi che esso persegue. Questo ragionamento apre una questione molto concreta. Se vogliamo approdare a un modello di televisione più colta e intelligente, non basta aprire le porte a nuove idee e nuovi argomenti. Prima di tutto bisogna modificare la struttura degli apparati, il loro funzionamento, il loro modello produttivo, i profili professionali, la burocrazia, perché solo questo può cambiare la mentalità di chi vi lavora e di chi li dirige. Parafrasando Mc Luhan potremmo quindi dire non tanto che il medium è il messaggio, quanto che l'organizzazione del medium è il messaggio. In altre parole non avremo una nuova e più coltivata classe dirigente negli apparati televisivi per opera e virtù dello Spirito Santo, oppure agendo solo sulla programmazione (dalla TV generalista a quella tematica), ma solo ridisegnando l'architettura ideativo-produttiva degli apparati della comunicazione.

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    Domanda 6
    Tutti discorsi sui mass media implicano l'esistenza di una pubblica opinione ( i telespettatori, i radioascoltatori, i lettori, il pubblico etc.). Si dà per scontato che si sappia tutto su questa categoria sociologica, sui suoi bisogni, le sue tendenze etc. E' possibile che vi sia una cristallizzazione secolare di questa sfera della società civile?

    Risposta
    Nient'affatto. Anche se certi fenomeni si ripetono, ciò non vuol dire che le loro conseguenze siano le stesse. Ad esempio il modello classico del quotidiano di informazione, che tratta contestualmente di politica, di cronaca, di sport e di cultura, è assimilabile a quello della TV generalista, mentre la specializzazione successiva dei quotidiani in sportivi, economici o di cronaca locale - che peraltro non ha incrinato l'importanza dei grandi giornali d'informazione - trova il suo corrispettivo nella TV tematica. Ma se quanto sta accadendo nel mondo della televisione, è già accaduto nel campo della stampa quotidiana negli ultimi due secoli, ciò non toglie che lo scenario complessivo sia radicalmente mutato. Vale quindi la pena di riassumere quello che è accaduto nella sfera della carta stampata per vedere se è possibile trarne un insegnamento. Nella seconda metà del XVII secolo si va costituendo in Europa, la sfera dell'opinione pubblica. Una borghesia ancora sostanzialmente priva di potere politico, ma dominante ormai nella società civile, rivendica il controllo sulle decisioni dei re e dei governanti. La circolazione dei giornali, l'abolizione dell'istituto della censura preventiva e la diffusione dei club, sono gli avvenimenti che consentono la formazione dell'opinione pubblica borghese. La sfera dell'opinione pubblica è decisamente ristretta: capitani d'industria, ricchi commercianti, liberi professionisti, intellettuali. Non a molti è concesso il privilegio di pubblicare articoli, e solo alcuni fra i sudditi, gli alfabetizzati, sono in grado di leggerli. E pure, intorno a questo piccolo focolaio di irrequietezza culturale, si radunerà l'intero Terzo Stato che conquisterà il potere nel 1789. Una caratteristica dominante nella sfera della opinione pubblica è l'argomentazione razionale. Le critiche più acerrime e le invettive più sanguinose sono, sempre e comunque, il frutto di un ragionamento.

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    Domanda 7
    Che cosa diviene l'opinione pubblica agli inizi del XX secolo?

    Risposta
    L'invenzione della radio provoca una rivoluzione nella sfera della pubblica opinione. Tutti i cittadini possono virtualmente esprimere e rendere pubbliche le loro idee qualunque sia la loro classe di appartenenza, che sappiano o meno leggere e scrivere. Per converso i proclami dei governanti possono ormai scavalcare la sfera circoscritta, e sovente critica, dell'opinione pubblica tradizionale che legge i giornali e si raccoglie a discutere nei salotti, per giungere direttamente ad un coacervo indistinto, definito, a seconda delle circostanze e delle convenienze, popolo, pubblico, utenti. L'avvento della televisione consacrerà e consoliderà questa metamorfosi della figura del cittadino nella categoria di gente. Lo scenario che fa da sfondo alla deflagrazione della vecchia opinione pubblica borghese è la conquista del suffragio universale e la diffusione della pubblicità in quanto strumento cardinale della economia di mercato. Questa sommaria ricostruzione è stata fatta con l'intento di riconsiderare criticamente la diffusa convinzione secondo la quale la radio e la televisione abbiano semplicemente prodotto, per effetto di propagazione, un allargamento della cerchia dell'opinione pubblica, una semplice progressione di ordine geometrico nella sfera dei numeri che non intaccherebbe la natura di questa categoria sociologica. Il problema è questo: è lecito parlare ancora di opinione pubblica se per essa si intende un'intera nazione ? Il popolo della televisione è assimilabile a quella sfera della borghesia illuminata, colta e raziocinante, raccolta intorno ai giornali, ai libri e alle riviste? Non vi è piuttosto uno scarto, una cesura sostanziale fra l'opinione pubblica e l'opinione di massa? La questione può apparire insignificante ad un primo approccio, quasi un problema lessicale. E tuttavia la confusione tra queste due sfere ha sulla nostra visione del mondo, le stesse conseguenze di un paradigma sbagliato o di una lente deformante. Che cosa distingue dunque una sfera dall'altra? La prima differenza sta nell'ordine di grandezza, due ordini talmente diseguali da produrre un salto qualitativo. L'opinione pubblica è una sfera circoscritta, un'élite di cittadini consapevoli del loro status sociale, dei loro diritti e dei loro doveri, dotati di coscienza civile e partecipi, anche se soltanto come spettatori, del dibattito politico in corso. Al contrario l'opinione di massa rappresenta una sfera pressoché illimitata, dai contorni indefiniti, la cui consistenza è riconducibile solo alla quantità; un rassemblement di persone privo di identità in quanto ciascuno dei suoi appartenenti ritiene che la gente siano gli altri. Ma un'altra, e più radicale differenza oppone i due universi. L'opinione pubblica poggia infatti sull'argomentazione razionale, sul convincimento, sulla forza del ragionamento, mentre l'opinione di massa si alimenta della suggestione, della demagogia, della esteriorità, della visceralità; in una parola, della irrazionalità.

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    Domanda 8
    Quali conseguenze comporta, sul piano pratico, questa ridefinizione del concetto di opinione pubblica?

    Risposta
    Per quanto sommaria e schematica, la disaggregazione del concetto di pubblica opinione in due campi contrapposti ha tuttavia il merito di fare maggiore chiarezza su alcuni fenomeni che sono sotto i nostri occhi. La sfera dell'opinione pubblica è potente: al posto di comando di questo dominio risiedono poteri forti che controllano i gangli dell'economia e della finanza, della cultura e della scienza. Ma la sua influenza sulle masse è limitata dal ristretto spazio di incidenza dei suoi media, e soprattutto da un ordine del discorso troppo articolato e da un linguaggio troppo complesso. L'opinione di massa, al contrario, non ha di questi vincoli: per formarla e indirizzarla basta avere una forte personalità, conoscere l'arte della seduzione e dell'intrattenimento, rappresentare un simbolo del successo, suggestionare, distrarre dalle angustie della vita quotidiana. Chi opera nel campo della pubblicità conosce bene la distinzione fra questi due mondi e certamente non si affida al ragionamento per propagandare un detersivo o una nuova auto. Lo scontro fra queste due sfere è tremendo: la ragione è opposta alla irrazionalità, la forza dei valori si piega di fronte ai sondaggi d'opinione, il criterio della maggioranza, espressione massima del relativismo culturale, impone la sua tirannia. Tutti i programmi politici, soprattutto i più ragionevoli e realistici devono fare i conti con la sostanziale irragionevolezza dell'opinione di massa. Nella misura in cui i partiti socialisti e democratici non hanno emancipato e affrancato le masse dalla loro connaturata tendenza ad essere massa di manovra, esse hanno svolto un ruolo imponente in tutte le tragedie che il nostro secolo ha attraversato: nella Germania nazista, nell'Italia fascista e in tutti i regimi totalitari. Questa contrapposizione tra ragione e suggestione tra populismo e cultura, tra materialismo consumista e ricchezza spirituale è oggi, più determinante di quella fra destra e sinistra. Tutto converge verso una indistinta medietà: da un lato sparisce l'analfabetismo, dall'altro spariscono le classi colte. Questo livellamento è l'espressione degenerata della democrazia, il suo contrario: la mentalità, gli stili di vita, le aspettative e i valori delle classi ricche corrispondono sempre più a quelli delle classi povere e viceversa: la prospettiva non è entusiasmante: una minoranza di specialisti incolti innestata su una massa non formata di cittadini. Si avvera la profezia di Max Scheler: "Andiamo incontro ad una barbarie civilizzata!"

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    Domanda 9
    Quale bilancio trarre da queste considerazioni poco ottimistiche sul futuro della televisione e del suo pubblico? E' auspicabile la nascita di una rete tematica culturale?

    Risposta
    Innanzitutto siamo di fronte ad una crisi generale della televisione: quella tradizionale ha fatto il suo tempo, quella nuova nasce sotto la cattiva stella del business, del mercato mondiale della pubblicità. Se ci trovassimo di fronte a mezzi di comunicazione di massa come la radio o il cinema, non vi sarebbero motivi per eccessivi allarmismi, ma la televisione è un medium particolarissimo, la sua penetrazione è totalizzante. Anche in conseguenza della crisi, ormai storica, della scuola , delle chiese, della famiglia, centinaia di milioni di giovani in tutto il mondo sono di fatto educati dai programmi della televisione. Il compito storico più urgente di fronte a una crisi strutturale della democrazia, intesa come partecipazione attiva e consapevole dei cittadini alle decisioni politiche, è quello di intervenire sull'opinione di massa per sottrarla alla sfera irrazionale della suggestione integrandola nella sfera dell'opinione pubblica, dove si esercita un'autentica capacità di giudizio. La televisione generalista è attualmente il più potente strumento di formazione dell'opinione di massa che opera in maniera martellante 24 ore al giorno su scala planetaria. Brecht, proponeva come estrema forma di insulto la frase: "Non sei altro che il singolare di gente!". Come è pensabile di abbandonare, alla loro condizione di gente, centinaia di milioni di cittadini per rinchiudersi nella camera asettica della televisione culturale tematica? Il nostro compito di operatori televisivi che hanno a cuore le sorti della cultura è ancora quello di sporcarsi le mani in questo dominio della suggestione, della fiction, dell'intrattenimento decerebrato, dei quiz, magari truccati, dei blob, delle pubblicità e delle televendite. Come nel campo dell'editoria esistono i libri, le enciclopedie e le riviste specializzate, così possiamo sperare che ci sia qualcosa di analogo nel campo della televisione e quindi che vi siano delle reti tematiche culturali. Ed è auspicabile che anche la RAI abbia tra le sue reti tematiche, una rete culturale. Ma non si commetta l'errore tragico di abbandonare la televisione generalista al suo destino.

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