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    Mario Morcellini

    Summit della Telecom sulla società della telecomunicazione, Napoli, 05-07-1996
    Nuove pratiche di apprendimento e di insegnamento
  • Le nuove tecnologie comportano un nuovo tipo di sapere e un nuovo tipo di insegnamento così come è avvenuto in passato con la diffusione degli ormai vecchi media generalisti (1) .
  • Per questo motivo il docente del futuro dovrà ridefinirsi e adeguarsi a nuovi modelli comunicativi per essere in grado di affrontare nuove realtà di insegnamento quali la didattica a distanza (2) .
  • In questa direzione dovranno muovere le iniziative del governo nell'ambito dell'istruzione pubblica (3) ,
  • La novità principale nell'ambito dell'apprendimento è che di fronte ai nuovi mezzi di comunicazione i giovani si pongono non con l'atteggiamento passivo di chi deve solo ricevere del sapere ma con l'atteggiamento di chi vuole interagire. Ma perché un processo educativo funzioni veramente si deve recuperare il senso della "trasmissione" in cui ciascuno ha un suo ruolo e un suo livello (4) .
  • Nel percorso di formazione le nuove tecnologie non esauriscono le domande di conoscenza e rappresentano solo la superficie di un sapere la cui profondità è ancora da ricercarsi nella cultura tradizionale (5) .
  • Per realizzare al meglio un nuovo modello di formazione è necessaria una collaborazione tra università, imprese e associazioni di ogni tipo: l'università da sola non basta (6) .
  • Le nuove tecnologie possono diventare anche uno strumento di potere capace di realizzare nuove forme di arroganza e di disuguaglianza sociale (7) .
  • Rispetto alle nuove tecnologie non si sta riproponendo lo stesso tipo di divisione nel mondo degli studiosi tra "apocalittici" e "integrati", come era avvenuto rispetto alle vecchie tecnologie. Morcellini ritiene che la fase iniziale di "acclimatamento" ai nuovi media duri poco e permetta di abituarvisi con relativa velocità (8) .
  • Il ritardo dello sviluppo dell'Europa e, in particolare, dell'Italia rispetto agli Stati Uniti dipende da inadeguate campagne di formazione e da un cattivo sistema politico, che ha scambiato la telecomunicazione per semplice propaganda (9) .
  • Il mondo della politica fa sempre più ricorso alla TV e lo dimostrano le ultime campagne elettorali italiane, anche se con caratteristiche diverse. Anche i politici, però, devono sapersi adeguare alla nuova gestualità comunicativa richiesta dai nuovi media. Morcellini auspica un maggiore scambio di riflessioni tra il mondo dei politici e quello degli intelletuali (10) .
  • Inoltre, la grande fortuna della "telepolitica" è da spiegarsi con l'enorme diffusione di un sentimento di incertezza tra gli elettori. E' stata la TV a creare i nuovi leader (11) .
  • L'enorme quantità di stimoli a cui i nuovi mezzi di comunicazione ci sottopongono è certamente un pericolo ma non si deve dimenticare che è la quantità a preparare la qualità e a realizzare la nascita del senso nel superamento dell'unilateralità (12) .
  • L'ipoesi di un'etica planetaria si riduce a quella di un insieme di valori comuni mutuati da quel che ancora c'é di valido nell'etica della religione e della tradizione (13) .
  • Le nuove tecnologie offrono opportunità di nuovi saperi, nuove formazioni e molta comunicazione; ci si deve, però, interrogare anche sulle insufficienze di questi nuovi mezzi (14) .




  • INTERVISTA:

    Domanda 1
    Vorrei che Lei ci chiarisse i problemi che intercorrono nel rapporto fra le nuove tecnologie della comunicazione in generale e la formazione della conoscenza.

    Risposta
    Direi che uno dei problemi di attacco di questo argomento è quello di interrogarci sugli effetti che, non tanto l'introduzione, quanto la diffusione e la generalizzazione delle nuove tecnologie avrà sulla trasformazione del sapere e dei modi che noi conosciamo, con cui il sapere si è strutturato in forme di ripetizione, di apprendimento, di insegnamento, ma anche di pratiche dal basso. E' un argomento incredibile, perché noi abbiamo già segnali evidenti che ci dicono che i vecchi media generalisti come la televisione e la radio, ma soprattutto la televisione, hanno drasticamente modificato sia i contenuti che le modalità di trasmissione del sapere. E questo già dovrebbe indurci ad avere una teoria, una ricerca capace di capire in che modo la trasmissione tradizionale del sapere, l'amministrazione da parte dei docenti e dell'istituzione scolastica e della stessa università del sapere, riconosciuta e formale, si intreccia nel vissuto dei giovani, nel vissuto degli utenti; e nel vissuto degli allievi con tipi di saperi, tipi di linguaggi, ma anche contenuti di sapere, di relazioni comunicative, di relazioni di vita, che vengono invece da un altro tipo di magistero, da un altro tipo di autorità: quello dei media. Ora, se questo era vero e possibile, e già gli studi lo documentano -anche studi che abbiamo noi stessi realizzati per i vecchi media e per il vecchio medium come la televisione-, dobbiamo immaginarci che tipo di approfondimento e di cambiamento del processo avverrà con le nuove tecnologie. Noi, per esempio, immaginiamo che le nuove tecnologie comporteranno un nuovo tipo di sapere e quindi anche un nuovo tipo di insegnamento e di professionalità docente.

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    Domanda 2
    Internet ci mostra come la didattica a distanza stia portando alla fine del maestro reale, con la comparsa di una sorta di maestro virtuale, che comporta la perdita di tutti i tratti paralinguistici della comunicazione: i gesti, la distanza, il tono della voce. Quali sono i rischi e le potenzialità di questa nuova forma?

    Risposta
    E' un'ovvietà dire che, naturalmente, nessuna tecnologia di comunicazione, per quanto intensa e coinvolgente possa essere, potrà sostituire la trasmissione in presenza. Chiunque di noi abbia realizzato esperienze di formazione a distanza, sa che, comunque, c'è una perdita semantica di gestualità, di emotività, di coinvolgimento, oltre che di aspetti linguistici e paralinguistici, che letteralmente obbligano a riscrivere la deontologia e gli aspetti costitutivi dell'esperienza docente. Più difficile è dire come ciò avverrà. Questo decennio sarà caratterizzato da un intreccio continuo tra vecchie tecnologie della comunicazione e nuove tecnologie, tra vecchie forme di trasmissione del sapere e nuove modalità di invenzione e di scoperta del sapere e di apprendimento del sapere. Noi abbiamo la sensazione che un modo per accompagnare questa transizione, uno dei modi per salvare, se sarà possibile, la professionalità docente -e penso anche alla professionalità docente universitaria e a quella dell'intellettuale-, sarà quello di interagire continuamente tra forme di insegnamento e contenuti tradizionali e capacità di insegnare a leggere e a contestualizzare, in termini culturali e più tradizionali, le nuove tecnologie. Può sembrare un po' ovvio, in effetti, ma noi abbiamo la sensazione che le ricerche dimostrano che gli insegnanti della tradizione si salvano quando riescono anche ad utilizzare la televisione come espediente di finta modernizzazione del proprio agire. Per quanto possa apparire semplicemente un processo di ristilizzazione del ruolo, pensiamo che la capacità di "rappresentare" una discreta cognizione delle nuove teorie, delle nuove metodologie, delle nuove tecnologie, sia già un elemento che possa rimettere il docente in un circuito di modernità e quindi di renderlo credibile agli occhi dei suoi allievi. Il problema fondamentale dell'educazione è che non può darsi educazione se l'operatore della trasmissione viene considerato un attore del passato.

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    Domanda 3
    Non si corre il rischio di una perdita di ruolo da parte dell'insegnante? Spesso, le resistenze, vengono fatte a proposito dell'emergere del problema della perdita del ruolo.

    Risposta
    Sono resistenze di tipo sindacali. E su quelle c'è poco da fare. Dovremmo trovare un modo per rendere più convinti del proprio ruolo i docenti. Ed è un'impresa sconvolgente, su cui tutta la società si dovrebbe impegnare; una società docente, che sia solo consapevole del proprio declino, si avvia alla decadenza e avvia letteralmente la cultura e la trasmissione culturale ad un momento di buio, di frattura storica, di decadenza, più esattamente. Si può fare qualcosa di più sul piano accademico e della formazione. Occorrerebbe che il nuovo governo dell'istruzione investisse, con coraggio e con determinazione, in grandi progetti, non di aggiornamento degli insegnanti, perché questi corsi a volte sono un po' esilaranti, ma di "riacclimatamento" culturale degli insegnanti alle nuove condizioni del loro agire. Io credo che questa sia una tipica impresa su cui un governo che ha di fronte a sé cinque anni, dovrebbe impegnarsi, ma su cui anche un'istituzione come l'università, che ha di fronte a sé il futuro, dovrebbe impegnarsi ancor di più.

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    Domanda 4
    E che cosa cambia nell'apprendimento quando ci si accosta ai nuovi media?

    Risposta
    Cambia, anzitutto, l'attitudine del soggetto ad offrirsi in condizioni di vaso vuoto. L'aspetto drammatico che coglie una persona come me che viene da una generazione vecchia, è che rispetto a queste nuove tecnologie, i giovani, -penso in particolare a questa straordinaria leva degli studenti di "Scienza della comunicazione", che sono forse l'episodio più affascinante di innovazione culturale in questo settore- non sono assolutamente nell'attitudine di apprendere qualcosa. Loro sono nell'attitudine di interagire. E questo è un mutamento epocale. Tutte le pratiche dell'istruzione sono fondate sulla trasmissione. Tutte le attitudini dei giovani, che si presentano al bancone dell'offerta, sono fondate sull'interazione. Se noi non riusciamo a trovare un modo per convincere questi giovani che l'educazione non può essere solo interazione -perché c'è un eccesso di arroganza nel credere che la formazione possa essere solo per scambio tra uguali- ma che occorre accettare umilmente uno scambio emotivo di vita esistenziale, e anche culturale, che sia fondato sul dislivello, sulla trasmissione, noi non riusciremo più a ricostruire le condizioni dell'esperienza culturale, dell'esperienza formativa. Aggiungo a questo -non so se sia un vecchio "slogan", ma è il mio "slogan"-: non ci può essere educazione senza un processo consapevole di modificazione degli utenti. Le nuove tecnologie inducono gli utenti, invece, a pensare che il processo di modificazione è gestito dal soggetto. E questo, a mio giudizio, crea un problema di incompatibilità linguistica, di comunicazione. Da questo punto di vista ci vuole una triangolazione continua tra utenti del processo di formazione e di comunicazione, tecnologie e docenti, i quali devono recuperare un loro ruolo, anche, in qualche modo, ponendosi come un elemento di interposizione tra le tecnologie e i soggetti che accedono ad esse.

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    Domanda 5
    Ed esiste un livello medio, diffuso di prodotti per aiutare tutto questo processo?

    Risposta
    Assolutamente no! Esistono esperienze pilota molto interessanti, ed esistono emozionanti episodi che dimostrano che i soggetti in età di formazione si avvicinano con una certa arroganza ed una compatibilità immediata alle nuove tecnologie; poi, però, sentono anche il bisogno di variegare questo menù di formazione anche con un ricorso alla tradizione culturale data: quindi libri, supporti cartacei e, grazie a Dio, anche a quel vecchio supporto non cartaceo che è la persona del docente. Ci sono esperienze emozionanti, lo ripeto, che attestano che anche chi si avventura in modo un po' unilaterale sulle nuove tecnologie, ad un certo momento del proprio percorso di formazione si accorge che le nuove tecnologie non esauriscono le domande di conoscenza. Questo è un argomento sul quale avrei dovuto insistere prima. Non possiamo illuderci che le nuove tecnologie siano già pronte a sovrapporsi a tutti i livelli di intensità e di profondità esplorati dalla cultura della trasmissione del passato. E' ancora un meccanismo molto oleografico, un meccanismo ancora molto di superficie. Non escludo che si possa immaginare, sul piano concettuale, una dimensione in cui la cultura tradizionale sia la profondità delle nuove tecnologie, l'anima delle nuove tecnologie, per dirla con una metafora.

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    Domanda 6
    Chi coprirà questi spazi di formazione? Adesso ci sono esperimenti, come quello di Bologna, di Umberto Eco.

    Risposta
    L'esperimento di Eco è interessante perché è stato uno dei primi, ma ormai ce ne sono tantissimi. Chiunque, come me, vada in giro per il mondo a studiare processi di formazione e la sorte dei processi di formazione nell'età dei media, si accorge che ci sono esperienze dal basso, meno recitate e meno celebrate di quelle in letteratura. Queste esperienze indicano, in qualche modo, che la questione è avvertita con una consapevolezza maggiore di quella che può sembrare in superficie, anche se non sufficiente rispetto alla gravità del problema. Come risolvere questo problema? Direi che non ho una ricetta. E, se avessi una ricetta, comunque non la direi, perché bisognerebbe sperimentarla. Ho la sensazione che bisognerebbe avere il coraggio di avere una visione di principio, che indichi l'università come il luogo e il momento per lanciare una riflessione così definitiva sulla salvezza della cultura tradizionale nelle nuove condizioni, offerta dalla modernità tecnologica, e, al tempo stesso, riconoscere che l'università da sola non basta. Ci vuole, dunque, un dialogo impressionante, di cui ci sono però ormai le condizioni tra università, imprese, associazioni -soprattutto le associazioni dal basso, perché sono quelle che hanno meno indugi e nascono sui bisogni, mentre l'università è più lenta a intervenire-. Quindi, Ministero dell'Università, Ministero della Pubblica Istruzione e, probabilmente anche una specie di ceto nuovo, di cui non sono in grado di rintracciare la definizione sociologica e positivistica, che è questo ceto degli operatori delle nuove tecnologie.

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    Domanda 7
    Stefano Rodotà, recentemente, ha scritto un articolo su "La Repubblica" in cui usa un'epressione abbastanza forte per definire la nascita di due nuove classi, o ceti: "apartheid informatica".

    Risposta
    Mi sia consentito dire che i sociologi sono arrivati prima. Esiste un problema serio. Ho insistito sul fatto che i sociologi sono arrivati prima, perché già alla fine degli anni Ottanta, nelle più difficili condizioni della scuola, alcuni sociologi -in particolare il professor De Lillo, ma anche Guido Martinotti- avevano prefigurato le condizioni di una nuova ferita. Nel mio nuovo sistema metaforico di rappresentazione linguistica identifico la ferita nelle nuove differenze di "chance". Noi sappiamo che le disuguaglianze cambieranno nel futuro, poiché esse posseggono questa natura sordida di presentarsi sempre in maniera diversa rispetto al passato. Le disuguaglianze legate alle ferite di classe sono diventate più evanescenti, anche se non sono scomparse; quelle legate alle differenze culturali sono state, in qualche modo, superate dagli anni Ottanta: dal momento in cui c'è stato un "exploit" della cultura di massa. Adesso, la nuova frontiera delle disuguaglianze è certamente quella sui nuovi saperi. Quello che bisogna fare è cercare di governare l'approdo di un numero sempre più vasto di soggetti alle nuove tecnologie della comunicazione, affinché le nuove tecnologie non siano il passaporto di nuovi poteri, o di nuove forme di arroganza e di disuguaglianza sociale. Mentre abbiamo chiara questa sensibilità etica, la preoccupazione sul breve periodo è drammatica: nei prossimi dieci anni, questi potrebbero essere i principali elementi su cui si struttureranno addirittura maggioranze e offerte politiche. Noi non escludiamo che in futuro questo sarà uno dei nodi più forti e attorno a cui si dovranno combattere, si dovranno dividere, si dovranno misurare progetti di uomo e progetti di civiltà.

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    Domanda 8
    Jeremy Rifkin, un economista americano, parla addirittura di una umanità futura divisa tra "analisti di simboli" e una grande massa di disoccupati.

    Risposta
    Io sono, per definizione e per cultura, assolutamente alieno alle prospettive apocalittiche, anche se, devo dire, ho letto con un certo coinvolgimento le pagine di Rifkin. La storia dell'insediamento in Italia delle vecchie tecnologie di comunicazione è stata accompagnata da un incredibile dibattito tra apocalittici e integrati. Solo nel nostro paese questa vicenda è stata così acuta, poiché sullo stesso argomento -il ruolo dei mezzi di comunicazione-, gli studiosi si dividevano come una mela. Chi diceva che tutto il male derivava da loro e chi diceva che, invece, essi erano un passaporto di partecipazione e di nuova competenza. C'è un elemento curioso che intorno alle nuove tecnologie non si sta ripetendo: non mi sembra che gli studiosi stiano cadendo nella tentazione di ipersemplificare la risposta etica conclusiva sui rischi riferibili alle nuove tecnologie. Non possiamo dire che ci sia una schiera significativa di gente che dice che il male sta per arrivare sulla testa degli uomini e, al tempo stesso, nessuno di noi racconta che questo è il passaporto per un paradiso perduto, a cui le tecnologie invece consentirebbero di ritornare. L'esempio delle vecchie tecnologie ci aiuta anche a capire che, alla lunga, le preoccupazioni di tipo escatologico e ultimo -bene-male-, si dissolvono. Io penso che questo sia un tipico problema caratterizzato dal fatto che noi siamo ancora all'alba di questo mondo, e quindi vediamo con eccessiva preoccupazione gli effetti più profondi del mutamento. La storia dell'arrivo delle tecnologie, viceversa, delle "Vecchie tecnologie" -per citare un libro importante degli ultimi anni, quando le vecchie tecnologie erano nuove-, ci dimostra che la fase dell'acclimatamento dura poco e che i soggetti riescono a prendere, di solito con una certa velocità, le misure al cambiamento e alle nuove tecnologie.

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    Domanda 9
    In uno dei rapporti di introduzione al "Summit" del Centro Studi "San Salvador" vengono analizzati alcuni elementi per giustificare l'avanzamento tecnologico degli Stati Uniti rispetto all'Europa. Quali sono, a Suo avviso, le più importanti ragioni: la mancanza di capitale umano avanzato, la mancata liberalizzazione dei mercati o l'assenza dell'integrazione tra il settore dell'informatica e quello telecomunicazioni?

    Risposta
    Escluderei, per il momento, queste tre diagnosi e direi che manca un sistema politico capace di governare e di dare regole. Ed è impressionante che manchi questa ricetta. La storia dell'Italia dimostra che il primo problema dello sviluppo culturale e della modernizzazione è stato un sistema politico, che si è avventato sulla comunicazione scambiandola semplicemente come propaganda. Se noi non avremo un sistema politico capace di dare regole, ma, al tempo stesso, di capire l'autonomia della comunicazione delle tecnologie, noi non riusciremo a fare un passo in avanti. Il secondo motivo -su cui devo chiamare in causa anche noi stessi- è il problema delle risorse umane. I sistemi di formazione dimostrano la loro arretratezza nella difficoltà che hanno avuto di arrivare con una certa tempestività sul "collo" di questo problema; di riuscire a contribuire, in modo significativo, alla formazione di un nuovo ceto, di una generazione di giovani che viva consapevolmente questo problema, avendo però alle spalle una formazione di base rigorosa e critica. Noi siamo impegnati su questo aspetto del problema; e la nascita dei corsi di comunicazione, così come la diffusione di molti corsi di informatica avanzata nelle università e nelle facoltà di ingegneria e di scienze, attesta che l'università è arrivata tardi, ma finalmente c'è, e rappresenta una risorsa.

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    Domanda 10
    E, a proposito della politica, uno degli aspetti più curiosi di questo periodo è che molto spesso le forme in cui si realizza la politica ha perso quell'autorevolezza che aveva un tempo. Un tempo, le possibilità di scelta fra alternative erano minori, o, comunque, le fonti di informazioni erano mediate da reti sociali. Cosa pensa in proposito?

    Risposta
    Questo è un argomento di cui io sono uno specialista, perché, se posso usare questa "civetteria", ho studiato due campagne elettorali. Come diceva Voltaire: "Qualcuno la deve pagare". Il nostro, è l'ultimo paese al mondo ad aver utilizzato le vecchie tecnologie della comunicazione come forma di supplenza alla politica. Nel '94 la vecchia televisione, usata in termini di marketing -debbo dire con grande saggezza e penetrazione da parte della televisione commerciale e del suo inventore- ha rappresentato la frontiera delle differenze. Noi siamo in possesso di studi che dimostrano che la televisione è stata usata come un elemento che ha risolto una parte dei problemi di socializzazione politica del paese. Basti pensare a quello che è successo due anni fa sulle reti cosiddette di "Target" della TV commerciale: Rete Quattro e Italia Uno, che sono state bruscamente politicizzate, segnando una contraddizione storica della televisione commerciale, che, per definizione, dovrebbe essere spoliticizzata e che invece in campagna elettorale viene utilizzata come un'arma di guerra. Nel '96 si è verificato un processo di profondo cambiamento: la televisione generalista è tornata al suo posto, ed abbiamo cominciato a vedere che cosa può succedere in un paese quando si determina una natura fisiologica, quasi normale, di rapporto tra televisione e società e tra televisione e potere politico. La televisione si è limitata ad amplificare processi che avvenivano anche nella realtà, dando voce ai soggetti della politica. L'esempio del '96 dovrebbe essere un buon pronostico per quello che succederà in futuro per le nuove tecnologie, poiché, in quell'anno, il ruolo della televisione nella campagna elettorale è stato meno enfatico e meno vistoso. Questo non significa, assolutamente, che la televisione sia stata meno importante; viceversa, a mio avviso, proprio per questo aspetto essa ha assunto un ruolo ancor più decisivo sugli incerti. Al tempo stesso, ciò fa pensare che i processi di ammodernamento e di modernizzazione del nostro paese, dal punto di vista del rapporto potere-società-comunicazione si stiano riatteggiando in termini più persuasivi. Pochi sanno che proprio nel '96 c'è stata una campagna elettorale anche su Internet. Il nostro gruppo di ricerca, il cui nome è "Media Monitor" -una sigla che ritengo gloriosa-, ha dato vita, quest'anno, ad un gruppo di ricerche che si chiama "Intermonitor", il quale ha studiato le forme di comunicazione politica nei siti Internet. Da queste ricerche è emerso che nei siti Internet è apparso quanto di più vecchio e di più grigio c'era nella politica italiana. Che Internet fosse una tecnologia e una gestualità nuova non ha risparmiato la circostanza che i contenuti, le parole, le intenzioni fossero ancora quelle della vecchia politica tradizionale. Il problema che si pone, allora, non riguarda più le tecnologie, ma il cambiamento culturale: le abitudini, gli schemi culturali, e, soprattutto, gli schemi espressivi e le intenzioni comunicative dei soggetti della politica. In Italia esistono già modalità nuove di offerta di racconto, di rappresentazione della politica, ma molto spesso, queste modalità linguistiche vengono accompagnate, incarnate, impersonate da soggetti che hanno ancora la testa formata in un vecchio mondo. Bisognerebbe convincere i politici che la loro gestualità comunicativa deve essere quella del mondo delle nuove tecnologie della comunicazione. Che cosa potrà fare il nuovo universo comunicazionale? Potrebbe risolvere molti dei problemi di scarsa comunicazione e di scarsa comunicabilità delle offerte politiche. Per esempio le azioni di governo: noi sosteniamo che l'azione di governo del Centro-Sinistra dovrebbe essere straordinariamente caratterizzata da questa nuova compatibilità linguistica; dovrebbe sottoporre le scelte strategiche a continui sondaggi. Non c'è una ragione al mondo per cui dobbiamo rassegnarci a pensare che il sondaggio sia organico ad una certa visione politica della realtà. In Francia noi sappiamo che il governo -e per

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    Domanda 11
    E, diceva, la televisione ha inciso sugli incerti in modo più decisivo?

    Risposta
    Assolutamente. Dal '94 ad oggi son stati svolti studi che dimostrano due o tre elementi. Il primo: negli ultimi anni, per definizione, aumenta, come in tutti i paesi, la quota degli incerti. Quindi, ciò che raccontano i politologi a proposito del voto di scambio o del voto di appartenenza o del voto d'opinione, sono, appunto, storielle buone per i libri e per gli anni Ottanta, ma non così interessanti per capire le ragioni delle trasformazioni politiche, tra l'altro così veloci e ancora inspiegate, che hanno attraversato la società italiana degli anni Novanta. Secondo elemento: gli incerti aumentano e aumenta anche l'esposizione dei soggetti alla televisione politica in campagna elettorale. E' un dato unico al mondo. In nessun paese, come in Italia, nel '94 e nel '96 si è registrato un così forte interesse dei cittadini per la comunicazione politica, per quella che noi chiamiamo la "telepolitica". E noi sappiamo che si è trattato di una telepolitica tutt'altro che innovativa. Pensare che la gente si interessasse di telepolitica per divertimento, significa avere un giudizio pessimo del nostro pubblico. Noi siamo portati a correlare la fortuna della telepolitica alla diffusione delle forme di incertezza, che è tipica di una società in crisi, tipica di una società in cui le trasformazioni politico-elettorali sono avvenute con velocità ed in assenza di una capacità dei partiti e dei poli di socializzare la gente ai cambiamenti. La differenza, ripeto, l'ha provocata la televisione. Il grande attore di ricontestualizzazione alle nuove offerte politiche, ai nuovi "leader", ai nuovi poli, ai nuovi valori, è stato, a nostro giudizio, la televisione.

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    Domanda 12
    La velocità e la quantità degli stimoli informativi provenienti dai nuovi media, urta contro la capacità riflessiva, ricettiva dell'individuo. Non si corre il rischio di un'inflazione di stimoli che concorrono alla perdita del senso?

    Risposta
    Questo rischio si corre se si condivide un'idea del "senso" come momento spirituale e profondo, avversativo rispetto agli stimoli. E su questo problema le teorie psicologiche, ma soprattutto le teorie a centralità educativa -io, essendo un professore universitario mi ritengo uno specialista di formazione- sono tutt'altro che sicure. Alcuni di noi hanno cominciato a scoprire il senso, cioè la profondità della cultura, sulla base di uno spaventoso impacco di letture. La straordinaria ambiguità della quantità è quella di preparare la qualità, di indurci, cioè, a scegliere; il senso potrebbe essere la finestra che si apre dopo una lunga serie di percorsi, che sono anche ispirati alla quantità, all'esplorazione, al telecomando. Questa è la risposta, se vogliamo, di tipo profondo. Al tempo stesso tendo a vedere l'alternativa, l'antagonismo, tra senso e stimoli culturali, ed eccedenza di stimoli culturali, in modo molto cinico e sperimentale. Noi ci accorgiamo che alcuni giovani, alcuni ragazzi, alcuni bambini cadono, sul piano cognitivo, lungo l'itinerario della formazione, quando c'è unilateralità di comunicazione; in altre parole, quando il loro universo di relazioni è assolutamente povero e limitato -e di solito limitato ad un unico attore di comunicazione. Mentre tra gli adulti il numero di persone dipendente da un unico mezzo di comunicazione è elevato -arriva fino almeno a un terzo della società-, tra i minori è un quinto; questo mi sembra già un dato incoraggiante. Nel resto dell'universo dei minori e dei giovani, ci si accorge che l'esperienza culturale è caratterizzata, quasi fisiologicamente, dalla sinergia, dall'attraversamento dei diversi saperi e linguaggi. Io tendo a vedere la nascita del senso nel superamento dell'unilateralità e quindi nell'alba e nell'arrivo ad una dimensione comunicativa in cui molti stimoli si affollano; da questi stimoli nasce la soggettività e quindi quello che la domanda interroga come senso.

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    Domanda 13
    Remo Bodei riflette sull'ipotesi di un'etica planetaria. Quali potrebbero essere le basi di un'etica planetaria?

    Risposta
    La domanda è quasi imbarazzante, nel senso che assomma preoccupazioni che attengono al foro interiore - e speriamo che ce ne siano ancora- e preoccupazioni che siano pubblicamente sostenibili. Voglio dire che molti di questi discorsi attengono ad una dimensione che costringe ad utilizzare delle parole che, quando assumono la natura del discorso pubblico, cambiano senso. Quindi, il concetto di spirito, il concetto di valore, il concetto di orientamenti culturali, all'azione, sono parole che la letteratura scientifica si è costretta stupidamente ad utilizzare troppo poco. Io desidero che i miei colleghi usino di più la parola "valori". Come si potrebbe reimpostare la questione di un'etica planetaria o meglio di un'etica che sia sufficiente a traghettarci in questo lungo periodo di transizione? Mi accontenterei di questo. Cercando di domandarci, per quale ragione, quando i laici parlano di un'etica come quella che può risolvere questi problemi, usano il concetto di religione "civile", un sostantivo che viene da un contesto diverso, dal contesto della religione. Io inviterei i miei colleghi, soprattutto gli studiosi e gli intellettuali laici, a domandarsi per quale ragione, quando noi pensiamo ad un pacchetto di valori e di idee che siano sufficienti a sostenere la capacità degli uomini di dialogare, di parlarsi e di avere rapporti significativi, sono, di fatto, indotti ad utilizzare una terminologia di tipo tradizionale. Significa evidentemente che quella terminologia ha ancora molto da dire. Allora, se questo non è un messaggio troppo mediatorio, la mia sommessa raccomandazione consisterebbe nel domandarci quanto, per un'etica del futuro, non ci possa venire da quello che ancora non è caduto - e non è caduco - dall'etica della religione e dall'etica della tradizione, e quanto, invece, di quell'etica, deve essere sottoposto ad un processo profondo di ripensamento e, quindi, di rapida sostituzione. Auspico un mondo in cui ci sia una etica religiosa ed una religione civile, che tra di loro si guardino con straordinaria solidarietà e con confidenza.

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    Domanda 14
    Alberto Abruzzese, parlando delle opportunità delle nuove tecnologie, in merito alle qualità della vita, ha usato quest'espressione: "Nella vita quotidiana proprio queste tecnologie hanno la vocazione di sfuggire ai linguaggi forti della tradizione moderna, invece di inserirsi in una situazione più comunicazionale". Cosa ne pensa?

    Risposta
    E' una bellissima formula, tipicamente abruzzesiana, che condivido perfettamente, anche se potrebbe andare in conflitto con l'ultima proposizione che era esattamente formulata in termini di messaggi forti. E' vero che la "koiné" linguistica che si va profilando è in confligge con tutti i saperi e i linguaggi provenienti dalla tradizione, e quindi con i linguggi forti. E' vero anche che dobbiamo avere la forza di domandarci quanto questa "koiné" possa essere una compagna autosufficiente nel nostro processo di essere nel mondo. Io non mi illudo di pensare che sia una svolta capace di dare risposte a tutti i bisogni di realizzazione individuale, di felicità e di scoperta dell'altro, che l'ansia dell'uomo moderno dovrà necessariamente riesibire. Penso, dunque, che questa "koiné" sia un mondo linguistico, innovativo e meraviglioso, in cui però prevale la dimensione di una avvenuta rivoluzione espressiva, che non risolve, tuttavia, tutti i problemi di radicalità. Ancora una volta il messaggio è quello di accorgerci di quanto questa "koiné", che è la somma di nuovi saperi, di nuove formazioni, di nuove tecnologie, di molta comunicazione, porta sull'uomo contemporaneo, ma anche di interrogarci di quali saranno i punti di insufficienza di questa nuova visione del mondo.

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